Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO

Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO
La storia dei generi enciclopedica

martedì 26 dicembre 2017

Mindfeels

MINDFEELS – XXenty
Burning Minds/Art Of Melody Music
Genere: AOR/Melodic Rock
Supporto: cd – 2017


Esiste musica che sembra bloccare il tempo come con  una bacchetta magica, ricordi affiorano con piacere all’ascolto dell’AOR (acronimo di album oriented Rock) , il ramo più radiofonico e ruffiano dell’Hard Rock, aggiungerei anche il più pomposo. Il genere è stato portato al successo mondiale da artisti come Survivor, Journey, Boston, ma soprattutto Toto. Ecco, quest’ultima band sono il punto di riferimento  dei nostrani Mindfeels provenienti da Biella e composti da Davide Gilardino (voce), Luca Carlomagno (chitarra, violino), Roberto Barazzotto (basso) e Italo Graziana (batteria, cori).
“XXenty” è il loro debutto ed è formato da undici canzoni ben registrate e supportate da un artwork elegante ed esaustivo. Come ospite nel disco c’è anche Christian Rossetti alle tastiere.
L’amore per il genere esce subito allo scoperto sin dall’iniziale “Don’t Leave Me Behind”, curata negli arrangiamenti e dall’ampio respiro. Chitarre e tastiere giocano su tappeti mai invasivi, gradevoli, suoni quasi sgocciolati, senza aggredire, per il resto ci pensa la buona voce di Gilardino. La ritmica è pulita, senza sbavature e neppure azzarda cose che non competono alla struttura del brano, aggiungerei anche in maniera intelligente. Mi sento di spendere una parola in più per il basso di Barazzotto che gioca un ruolo importante nell’economia sound dei Mindfeels.
I Toto si estrapolano facilmente anche nella successiva “Soul Has Gone Away”, tuttavia è il genere che lo richiede, per cui tutto nei binari del percorso sonoro, e va bene così. Serve poco tempo per assimilare e cantare assieme a loro i ritornelli gradevoli.
“Hidden Treasures” mette in evidenza proprio il basso di cui ho espresso il parere, mentre “Joker” alza il ritmo e gli anni ’80 come per magia mi appaiono davanti.
“Skyline” non so se è il singolo potenziale dell’album, tuttavia in questo brano ne assaporo le caratteristiche e lo ritengo fra i più papabili per l’obbiettivo. Più greve il suono in “Speed”, riflessiva ed elaborata, qui i Mindfeels mi piacciono ancora di più perché ricercano soluzioni differenti, su una struttura dal basso martellante le melodie si susseguono in un cantato sentito quasi recitato in alcuni frangenti. Non ci crederete mai, ma in esso ci ho sentito qualcosa dell’ultimo album di Steven Wilson “To The Bone”, ma ovviamente trattasi di brevi scorci. In “These Words” il piano apre il movimento lasciando spazio ad un riff di chitarra elettrica noto, direi alla Lukather, qui la band rientra nei canoni dello stile trattato, specie nel ritornello.
“Fear” è muscolosa, Rock, ma pur sempre spolverata di classe, molti i deja vu all’ascolto della stessa, tuttavia è così piacevole che tutto sembra passare in secondo piano.
“It’s Not Like Dying” ugualmente non fa la voce grossa, ma accompagna l’ascolto verso un Rock melodico gradevole e di compagnia. Ancora il basso ricopre un ruolo importante e lo si ascolta in “Touch  The Stone”. Il disco si conclude con la canzona più lunga dell’album con i suoi sette minuti, “The Number One”, un bel sunto sullo stile Mindfeels.

“XXenty” è un  album che si lascia ascoltare con estremo piacere, scorre via velocemente e rimangono memorizzate alcune buone melodie. La musica deve fare questo e lo stile a cui si rivolgono è quantomeno adatto. MS

Enrico Sarzi

ENRICO SARZI – Drive Through
Burning Minds/ Street Symphonies
Genere: Virtuoso
Supporto: cd – 2017


Il cantante dei  Midnite Sun, Enrico Sarzi, con “Drive Through” debutta discograficamente nel mondo della musica. Questo dunque possiamo definirlo un inizio, ma l’esperienza che Sarzi ha alle spalle è già di tutto rispetto. Si consideri che ha suonato con artisti dell’Hard Rock del calibro di Glenn Hughes, Ian Paice e Robin Beck.
L’artista intraprende un viaggio musicale che spazia dal Rock americano al cantautorato passando per il Blues, e lo fa coadiuvandosi di musicisti di tutto rispetto come Cristiano Vicini (chitarra), Marco Nicoli (basso), Marco Micolo (tastiere), Alessandro Mori (batteria) e di special guest come Stefano Avanzi (sax), Alberto Valli (piano) e Luciana Buttazzo (voce).
Si resta subito colpiti dal mid tempo di “Shameless”, canzone che apre l’album con carattere e sinuosità. Il modo di suonare la chitarra è quantomeno efficace, ossia l’artista bada al sodo senza perdersi in inutili orpelli virtuosi e dunque badando alla sostanza emotiva. Con “Afraid To Be Myself” si naviga in atmosfere più curate, ricordi di un Rock AOR  delizioso, specialmente quello più pacato e riflessivo. Come in una staffetta, il testimone passa in mano a “Nothing To Live For”, altro momento di gran classe e fortemente emotivo, dal ritornello efficace e ricercato. “S.O.S. To God” ha il sapore dell’America, quella che sa come conquistarti, con quel Folk Rock polveroso, mentre una chitarra acustica apre “Strange Freedom”, una ballata che entra e colpisce dentro. Canzone giusta al punto giusto dell’ascolto, poi quel sax…
Un riff più greve accoglie “The Repentant”, la ritmica sa come districarsi, fra ritmi mid tempo e percussioni, una canzone che comunque con  effetti eco e cambi d’umore riesce a cogliere l’attenzione dell’ascoltatore.
Le cose più si fanno con semplicità e più raggiungono l’obbiettivo, e questo Enrico Sarzi lo ha ben metabolizzato, a proposito di esperienza alle spalle. Ecco dunque “Inferno”, altra semi ballata che ben si districa fra Rock ed Hard Rock, un frangente che personalmente mi ha colpito per la cura dei dettagli e dei fraseggi giusti messi nel posto giusto, ma sempre con semplicità.
Si torna a Roccheggiare con “Let Me Go”, qui nulla di nuovo, mentre “Drive Through” racconta episodi nuovi, grazie anche all’uso di elettronica e tastiere, un momento più “ruffiano” nel senso positivo del termine, diciamo anche orecchiabile ma con eleganza, sunto di tanto Rock passato.
L’intrigante titolo “Sex Perfume” lascia intuire la sinuosità del pezzo, mentre la conclusiva “Cielo” è una ballata cantata in italiano, degno sigillo ed un ottimo lavoro vocale da parte dell’ospite Luciana Buttazzo.

Dischi così sono gradevoli, semplici e professionali, in un mondo dove oggi domina il “pressappochismo” è oro colato. Comunque la musica se ti emoziona, qualsiasi essa sia, ha raggiunto il suo scopo. MS

Aerodyne

AERODYNE – Breaking Free
Burning Minds/Street Symphonies
Distribuzione: Sound Trek
Genere: Heavy Metal
Supporto: cd – 2017



Anche nel 2017 l’Heavy Metal classico continua imperterrito il proprio cammino, senza compromessi ed alterazioni di sorta. La personalità è forte e alla faccia di chi negli anni ’80 lo ha dato per nato e finito, trova anche nei paesi scandinavi un punto importante dove proliferare. Questi paesi sono di mentalità aperta e l’Heavy Metal ben si adegua alle loro oscure vedute.
Aerodyne sono un gruppo che si forma recentemente nel 2016 dalla fusione di due band a Göteborg ed è formato da  Daniel Almqvist (voce, chitarra), Johan Bergman (chitarra), Timmy Kan (basso) e da Christoffer Almqvist (batteria).
“Breaking Free” è composto da dieci canzoni ad iniziare da “As Above, So Below”. L’Heavy Metal è questo, pochi ingredienti per una massima riuscita. Suono massiccio ed elettrico che spesso viene paragonato ad un muro, riff efficaci e ritornelli dalla facile memorizzazione, per cantare soprattutto con loro in sede live. Il pezzo che apre ne ha tutte le caratteristiche comprese le coralità da parte della band, e aggiungo io un buon solo di chitarra che fa acquistare al brano una marcia in più.
In definitiva possiamo chiamarlo semplicemente Rock, perché in fondo la base è questa, “Comin’ For You” mi riporta ai tempi dei Saxon ed è solo che una gran bella sensazione.
Segue la title track “Breaking Free”, speed and massive! Quando l’Heavy Metal si esprime con semplicità ha sempre una buona riuscita.
“Aerodynamic” racconta ancora una volta un percorso impolverato e saggio proveniente dalla passata NWOBHM, acronimo di New Wave of British Heavy Metal. All’ascolto il piede parte da solo, così il ciondolare del capo. “Pedal To The Floor” è fra i miei preferiti, per l’attitudine che dimostra fra schiaffo e bacio, una formula che sempre mi ha intrigato. Spenderei anche due parole per la voce di Daniel Almqvist che mai cerca di strafare, anche se riesce in alcuni tratti ad andare in alte quote, conosce i propri limiti e per questo saggiamente riesce a gestire con padronanza e professionalità.
“We All Live A Lie” scivola come un bicchiere d’acqua nello stomaco, con freschezza e velocemente, comunque dissetando, mentre la breve “Until You’re Gone” mostra i muscoli della band. “Setting, Hell On Fire” nel titolo ha già il contenuto sonoro. “Run Away” nuovamente va a parare nel calderone del Metal puro dei tempi che furono, con rispetto e  professionalità, specie nelle coralità. L’album si chiude con “Back To Back”, un arpeggio che mi rimanda alla memoria i migliori Queensryche lo inizia, per poi svolgersi in differenti carature di stati d’animo.

Un disco che va ascoltato felicemente anche in auto, specialmente quando si percorrono lunghi chilometri, per restare svegli e cantare ad alta voce. Up the Metal. MS

domenica 24 dicembre 2017

giovedì 14 dicembre 2017

Melanie Mau & Martin Schnella

MELANIE MAU & MARTIN SCHNELLA – The Oblivion Tales
Autoproduzione
Genere: Acoustic Prog Rock, Celtic Folk
Supporto: cd – 2017


E’ sempre un piacere avere fra le mani un disco che è ben presentato nella sua globalità. La cura per i particolari è arte aggiuntiva alla musica che contiene, un supporto da leggere per un ascolto più esaustivo, quindi mi sento di iniziare questa recensione partendo proprio dall’artwork cartonato ad opera di Martin Huch con l’aiuto di Sascha Storz Photodesign, Horst Lind/Atelier Pregizer, Isa Hausa Illustrations e Martin Schnella stesso.
Le canzoni all’interno sono dettagliate con tanto di credits, foto e disegni, oltre che un intro all’ascolto di Melli & Martin.
Chi sono Melanie Mau & Martin Schnella? Gli appassionati del Prog Rock tedesco conoscono già molto bene gli artisti, in quanto molto attivi in progetti che stanno tracciando strade interessanti nel genere moderno in questione, a partire dai Seven Steps To The Green Door ai Frequency Drift.
Ma con “The Oblivion Tales” si va a scoprire un lato differente dal New Prog a cui ci hanno abituati, qui si va a pescare nel Folk acustico, un mondo pastello come la voce di Melanie e caldo come il suono della chitarra di Martin. Tutti gli undici brani contenuti nell’album sono scritti dai due artisti che per l’opera si coadiuvano di musicisti come Niklas Kahl (cajon, bongo e percussioni), Fabian Godecke (batteria) e Lars Lehmann (basso, cori), oltre che con numerosi special guest.
La registrazione è cristallina, pulita, cassa di risonanza ai brani a partire da “The Spire And The Old Bridge”. Il Folk proposto dal duo non è assolutamente convenzionale, è ricercato sia nelle ritmiche dei riff che nelle coralità, quest’ultime vere e proprie chicche sonore. Definirei il tutto Prog Folk.
Una campana fa da ponte al secondo brano “Treasured Memories”, storie di posti vissuti, frammenti di vita ben rappresentati dai disegni dell’artwork. Colgo di tanto in tanto richiami ai Mostly Autumn, ma qui siamo in territorio decisamente più Folk. Strumenti a fiato dall’antica storia narrano percorsi dal fascino intramontabile.
 “Words Become A Song” è vivace, il lato più cantautorale del gruppo, la canzone è facile da memorizzare e invoglia a cantare assieme a loro. Più intimistica “Close To The Heart”, la voce di Melanie Mau colpisce, mentre la chitarra acustica viene pizzicata con rispetto e delicatezza.
Certi interventi vocali possono richiamare alla memoria gli Evanescence acustici, e questo non è che una sorpresa che di tanto in tanto coglie l’ascoltatore, come in “The Horseshoe”. Un breve viaggio anche nel Country West con “Wild West” per poi ritornare nel Folk Prog più convenzionale in “My Dear Children”. Il brano più lungo con i suoi otto minuti e passa si intitola “Die Zwerge Vom Iberg” e come avrete potuto intuire, il cantato è in lingua tedesca. Un brano più tendente al Rock, pur rimanendo sempre di facile ascolto grazie anche alla giusta melodia del ritornello. Per chi vi scrive è il preferito. Segue “The Dwarfs King”, in esso colgo anche sprazzi di Folk americano. “Erinnerungen” è una dolce ballata, quella che fa sempre scorrere brividi sulla pelle ed il disco si conclude con un tema di chitarra acustica dal titolo “Melanie’s Theme” completamente strumentale.
Una bella storia, un bel percorso musicale da fare tutto di un fiato, suoni che coccolano e che vivono in bilico fra passato e presente, un disco che sorprende sotto molteplici punti di vista. Godetelo. MS


Gray Matters

GRAY MATTERS – Live In Concert
Autoproduzione
Genere: Rock
Supporto: cd – 2017


A pochi mesi di distanza da “The Oblivion Tales” ritroviamo Melanie Mau & Martin Schnella in un nuovo progetto acustico live questa volta dal nome Gray Matters. Con loro suonano Niklas Kahl (percussioni), Fabian Godecke (batteria) e Stephan Wegner (voce). I componenti di Seven Steps To The Green Door e  Frequency Drift invece sono alla voce (Melanie) e alla chitarra e voce (Martin). Il concerto viene registrato allo Stadthalle Osterode in Osterode am Harz, località della Bassa Sassonia in Germania.
Il disco è composto da quindici cover di gruppi ed artisti provenienti da diversi generi musicali, a dimostrazione di una notevole cultura da parte dei componenti. Per facilitare il tutto riporto direttamente la Track listdel disco:
1. Digging In The Dirt (Peter Gabriel) 2. You're The Voice (John Farnham) 3. Conviction Of The Heart (Kenny Loggins) 4. Miracles Out Of Nowhere (Kansas) 5. Green Tinted Sixties Mind (Mr. Big) 6. The Storm (Flying Colors) 7. Message In A Bottle (The Police) 8. Africa (Toto) 9. Close To The Heart (Melanie Mau & Martin Schnella) 10. Curse My Name (Blind Guardian) 11. A Thousand Miles (Vanessa Carlton) 12. I Want You Back (Jackson 5) 13. A Touch Of Evil (Judas Priest) 14. Ain't Nobody (Chaka Khan) 15. Jolene (Dolly Parton).
Si spazia dal Metal al Rock passando per il Punk Reggae, il Folk, il Pop ed il Prog Rock, il tutto sempre in veste acustica.
Le esecuzioni rendono merito agli artisti omaggiati in quanto non versioni fatte per clonare il brano fine a se stesso, bensì sono lette con una visione personale e di carattere. Funzionali le coralità voce maschile/femminile. Fra le mie preferite “Message In A Bottle”, “Africa”, l’epica “Curse My Name”, “A Touch Of Evil” e “Jolene”.
Ma il mio applauso va alla versione live del loro brano “Close To The Heart” tratto da “The Oblivion Tales”.
Un live che ha scaldato la sala Stadthalle Osterode ma che scalderà anche la vostra mente, sempre se lo ritenete opportuno.

Melanie Mau & Martin Schnella sono artigiani della musica e da quando seguo i loro progetti amo un po’ di più ascoltarla. MS

sabato 2 dicembre 2017

ROCK & WORDS su Radio Gold

ROCK & WORDS su Radio Gold


Il vinile è tornato? Ne avete in cantina o in soffitta di vecchi e volete riascoltarli? Allora vi diciamo anche come pulirli! 
E poi recensione e brano consigliato della settimana. Buona lettura e buon ascolto!

Copia l'indirizzo per andare su Radio Gold: http://www.radiogold.tv/?p=30678


giovedì 30 novembre 2017

The Black Noodle Project

THE BLACK NOODLE PROJECT – Divided We Fall
Progressive Promotion Records
Distribuzione: G.T.Music Distribution
Genere: Psychedelic/Space Rock
Supporto: cd – 2017


Tornano i francesi The Black Noodle Project con l’ottavo disco da studio dal titolo “Divided We Fall”. Li abbiamo lasciati nel 2013 con “Ghosts & Memories”, un disco dalle ottime canzoni ben accolto da critica e pubblico e ci ritroviamo oggi a tessere nuove lodi sul loro operato odierno. Questo perché oramai il gruppo è rodato, dalla rigida  personalità sagomata nel tempo, se poi si considera che la storia inizia nel lontano 2001 da un idea di Jeremie Grima (chitarra, tastiere, voce), allora si comprende quanto è stato forgiato. La band viene completata da Sebastien Bourdeux (chitarra), Tommy Rizzitelli (batteria) e Mobo (basso).
L’artwork ad opera di Emilio Grima ben rappresenta le atmosfere che vanno a scaturire dalla musica suddivisa in sette tracce. Dell’album esistono anche duecento copie stampate in vinile, questo per i cultori del suono e collezionisti.
Ma a volte bisogna svestire gli abiti della pacatezza professionale e lasciarsi andare a considerazioni personali, scusatemi quindi se in questo caso parlo per me e non per voi, ma la situazione è tale da non poterne fare a meno. Il modo di suonare questo genere che valica fra il Prog, la Psichedelia ed il Rock moderno (chiamatelo come volete, Math, Post…non importa) a me squarcia le viscere, detto in parole povere “sbudella”! Mi entra dentro, mi carpisce vecchi ricordi, come facevano certi Anathema, oppure i primi Porcupine Tree. Malinconia, oscurità, solitudine, tristezza, strappati dalle viscere del suono elettrico straziante delle chitarre che si ripercuotono in un loop che sembra non voler mai decollare e che invece ti ha fregato, perché è decollato sin dall’inizio, lasciandoti in alto e non te ne sei neppure accorto….Troppo in alto per capire che le emozioni sono difficili da domare, oramai è tardi. Vertigini.
Suoni semplici, quasi minimali se si va a considerare, eppure diretti allo stomaco pur passando per la mente. Certamente non tutto va per come deve andare, ci sono molti deja vu, canzoni semplici, normali, spesso anche troppo.  Dunque non grido al miracolo, neppure al capolavoro, ho scritto quest’ultima  parola credo per una decina di dischi in tutta la mia vita ventennale di recensore, figuriamoci. Eppure mi prende, che devo fare? La mia obbiettività è offuscata.
“Divided We Fall” è molto più strumentale che cantato (in inglese ovviamente) ed è  composto da sette canzoni delle quali trovo difficoltà ad estrapolarne una in merito. Forse “Absolom”, ma farei un torto alle altre.
L’album è l’ottavo capitolo in studio, e sono certo che a molti questo lavoro non torcerà un capello, già lo so. Io invece godo e vi dirò di più, la sua “banalità” la voglio ascoltare al meglio, alzo il volume e vi saluto! MS


Atlantropa Project

ATLANTROPA PROJECT – Atlantropa Project (English Version)
Progressive Promotion Records
Distribuzione: G.T. Music Distribution
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2017


Costruire una grande diga, prosciugare il Mediterraneo, conquistare nuove terre, unire l'Africa e l'Europa, creando pace. Questa era l'idea utopica dell'ingegnere Hermann Sörgel nel 1920 denominata Atlantropa Project, e questa è l’idea di un concept musicale creato da Atlantropa Project oggi in Germania nel 2017. A proporre questa opera di Progressive Rock sono numerosi musicisti, Lothar Krell (tastiere), Heinz Kuhne (chitarra), Michael Wolff (voce), Elinor Pongracz (voce), Wahrmut Sobainsky (batteria), Michael Wollesky (basso), Ralph Brandmuller (chitarra) e Tony Clarck (voce narrante, chitarra).
Una degna opera Rock nel cd va necessariamente accompagnata da un libretto quantomeno sostanzioso, e così è. In esso tutti i dettagli del caso.
Tanti musicisti, numerosi special guest, tutto questo lascia adito ad un mix di esperienze e quindi di generi musicali, per questo “Atlantropa Project” è un calderone Rock a tutti gli effetti.
Ventitré tracce congiunte, ad iniziare da “A Continent Of Joy”, un intro narrato ed evocativo, con il compito di spiegare all’ascoltatore quale viaggio si va ad intraprendere. E le chitarre elettriche iniziano “The Great Maker” (suddiviso in tre parti), un sound che potrebbe benissimo uscire dalla discografia degli Ayreon, ma il Prog Rock più tradizionale è già dietro l’angolo, Genesis compresi, quelli periodo “Wind And Wuthering”. Sprazzi Ritual e Spock’s Beard fanno capolino di tanto in tanto e l’ascolto diventa sempre più intrigante. Altra canzone suddivisa in tre parti è la successiva “Time To Bid Goodbye”, qui il suono diventa immagine evocativa, in un crescendo sonoro sempre d’impatto. Le melodie sono di facile memorizzazione e gradevoli, pur trattandosi di Prog Rock la formula canzone è comunque rispettata.
L’esperienza dei musicisti si palesa numerose volte sia a livello compositivo che tecnico/strumentale, i paragoni con band famose sono davvero molteplici, ad esempio in “They Want To Steal The Ocean” anche i più preparati di voi noteranno un richiamo agli americani Glass Hammer.
Un dolce arpeggio apre “Gotta Steam The Greedy Water” e la voce femminile di Elinor Pongracz ipnotizza. “Walk Across The Sea” ritorna verso sonorità Ayreon, ma questa volta quelli più sognanti e spaziali. Tutto scorre velocemente e senza intoppi di sorta, la dolcezza di “Mare Nostrum Dream” coccola, mentre “When We All Speak Atlantropan” è la più lunga con i suoi nove minuti di musica, qui ovviamente la band riesce a mostrare al meglio le proprie capacità artistiche. “Dream My Dream” è sognante e martellante nell’incedere, ma è con “Star Atlantropa” che il combo si gioca il Jolly. Suddivisa in tre parti anche lei, ha nell’interno buoni riff, arrangiamenti gradevoli e buone melodie, probabilmente il singolo dell’album. Il disco finisce con “Reprise” ed il cerchio è chiuso.

“Atlantropa Project” è un prodotto che mi sento di consigliare a tutti gli amanti della musica in senso generale, non soltanto a quelli di un settore preciso. Nel frattempo io mi auguro di riascoltarli presto in un nuovo progetto! MS

CLOUDS CAN

CLOUDS CAN – Leave
Progressive Promotion Records
Distribuzione: G.T.Music Distribution
Genere: New Progressive Rock – 2017


Mi resta difficile definire questo album dei Clouds Can, duo poliedrico composto da Thomas Thielen, conosciuto ai fans del genere come T, e Dominik Hüttermann, perché quello che vado ora a scrivere è una ripetizione storica, cioè: “Leave” è un album di musica Progressive Rock e Pop.
Negli anni ’70 da noi il Pop è il primordiale nome del Progressive Rock, quindi mi scuso per questa apparente ripetizione, ma il Pop oggi è ben altra cosa rispetto quello di quaranta anni fa. Detto questo vi addentro nel progetto dei tedeschi in questione, dicendovi che l’album è composto da sette canzoni e che è accompagnato da un cospicuo libretto con tanto di testi, foto e descrizioni del caso. Il disco propone materiale di facile fruizione, a partire da “This Dream Of Me” il quale dimostra come la canzone si può innestare con il Progressive Rock. Le tastiere sono importanti, soprattutto in fase di tappeto sonoro e buone le coralità che accompagnano il canto. Più ricercata “All We Are I Am Not”, inizia con suoni elettronici per poi gettarsi nel New Prog di Marillioniana memoria. Le atmosfere si alternano fra il malinconico e l’enfatico.
“Life Is Strange” mi fa venire alla mente certi inizi degli Arena, band di Clive Nolan (Pendragon su tutti), Mike Pointer (ex Marillion) etc. La voce iniziale filtrata è caratteristica, per poi addentrarsi in atmosfere toccanti sostenute dai lamenti di chitarra in sottofondo. Una formula rodata che funziona sempre e che comunque regala belle emozioni. Assolo di chitarra finale che ci sta come il cacio sui maccheroni!
 “On The Day You Leave” è un lento, qui il cantato rimanda ai Marillion di Hogarth, quelli intimistici, e gli occhi si socchiudono ciondolando al ritmo del piano. Il crescendo sonoro è travolgente, così la melodia che lo sostiene.
Suoni filtrati ed elettronici in stile Porcupine Tree aprono “Like Any Angel”, altro brano di musica Pop Prog gentile e meditativo. A ballate i Clouds Can ci sanno proprio fare, altra rappresentazione sonora arriva da “A Change Of Heart”, i giochi sono semplici, l’anima prima del corpo.
Una sveglia scandisce il tempo, “Insomnia” inizia di soppiatto per poi successivamente  mostrare i muscoli, il brano più elettrico del disco, nervoso, ampio e fragoroso.
“Leave” si conclude con “Always Forever”, sunto delle caratteristiche del gruppo sin qui descritto. Tengo a sottolineare che  tutte le canzoni hanno una durata che oscilla da un minimo di cinque minuti e mezzo al massimo di poco più di sette minuti.
Senza strafare la musica dei Clouds Can è semplice, mi viene da dire “morbidezza”, questa è la sensazione che lascia in me al termine dell’ascolto. MS


mercoledì 22 novembre 2017

Basta!

BASTA! – Elemento Antropico
Lizard Records
Genere: Progressive Rock strumentale
Supporto: cd – 2017


Personalmente ho sempre avuto un debole per i dischi strumentali, non perché non amo le voci nella musica, ma semplicemente perché sono affascinato dalla ricerca sonora e dalle soluzioni che spesso si vanno ad adottare per realizzare un album di Progressive Rock strumentale. Serve coraggio soprattutto oggi nell’addentrarsi in questi meandri, dove la musica predilige avere anche il canto, e le vendite lo dimostrano. In questo caso la voce viene adoperata solamente come fattore narrante. La musica dei toscani Basta! quindi non è di facile collocazione, perché in essa risiedono differenti stili, in più il clarinetto dona al tutto un atmosfera che oserei definire “speciale”. Il gruppo si forma nel 2011 e subito vince l’U-Festival toscano il quale da loro la possibilità di incidere un EP che vede la luce nel 2012 con il titolo “Oggetto Di Studio”, pubblicato da Materiali Sonori. Le date live forgiano l’insieme, e l’esperienza del 2015 al Ver1 2days Prog+1 nel suonare prima della storica band Area ha la sua valenza. Nel 2017 sempre in attività live con il chitarrista Frank Carducci, per poi dare vita a questo album dal titolo “Elemento Antropico”, grazie all’attenzione della Lizard Records, tuttavia registrato nel 2016 e presentato in Francia nel Crescendo Festival.
Il disco ha undici canzoni e la formazione che lo suona è composta da Damiano Bondi (diamonica, tastiere), Roberto Molisse (batteria, percussioni), Saverio Sisti (chitarre), Giacomo Soldani (basso) e Andrea Tinacci (clarinetto basso, sax). La voce narrante è di Riccardo Sati mentre troviamo anche il grande Fabio Zuffanti (Finisterre, La Maschera Di Cera, Rohmer, La Zona, Höstsonaten, L’Ombra Della Sera, La Curva Di Lesmo ed altre ancora) sempre al microfono nel brano “Intro”.
Inizia la storia narrata di Samuel nel brano “Entro Nell’Antro”, una ballata malinconica di buona presa, con forti tinte PFM anni 70, ma è solo una parvenza, l’energia dei Basta! fuoriesce  a metà brano evidenziando una ottima ritmica ben rodata.
“Il Muro Di Ritmini Strambetty” è senza dubbio un ottimo esempio di Crossover Prog, quello suonato anche dagli americani Spock’s Beard. Da ciò potete dedurre che la melodia è forte e ben eseguita, le linee compositive non vanno mai ad intrecciarsi con tecniche strumentali fine a se stesse. Ma la mediterraneità ha sempre la meglio, il sound ci è infine casalingo. Perfetta fotografia del simpatico animale caracollante è “Doombo (L’Elefante Del Destino)”, in un movimento sonoro caratterizzante e dedito anche a momenti più spaziali e sognanti. Prosegue “Zirkus” il discorso intrapreso, dove i Basta! mostrano la sopra citata coesione.
“Entro L’Antro” fa di nuovo escursione fra i frammenti della musica Prog anni ’70, e questo pone l’intero  “Elemento Antropico” in una posizione fra passato e presente davvero godibile e scorrevole. Proseguono le storie narrate di Samuel nel circo fino giungere alla pur breve “Intro” con la voce di Fabio Zuffanti. Più elettrica “Schiacciasassi”, canzone che racchiude in se un solo di chitarra davvero godibile. Per il resto lascio a voi il piacere della scoperta.
“Elemento Antropico” è un disco carico di energia, ben suonato e dalle caratteristiche ben definite, quelle che fanno del nostrano Progressive Rock davvero un mondo unico ed immortale.  
Macché Basta!... Ancora! MS


lunedì 13 novembre 2017

Mozaic

MOZAIC – Find A Place
Autoproduzione
Genere: Fusion, jazz, world music, prog
Supporto: cd – 2017


La musica come linguaggio comune, come supporto alle parole quando queste non bastano più ad esprimere un concetto o a descrivere un luogo. La World Music bene si adatta a ciò, se poi la si va ad arricchire con contaminazioni Jazz Fusion, elettronica e musica araba, allora tutto il contesto diventa ancora più intrigante. Questo è il campo d’azione per una band proveniente dalla Lombardia (Como/Milano) che con il debutto discografico dal titolo “Find A Place”, addentra l’ascoltatore in questi luoghi attraenti, loro si chiamano Mozaic.
Il gruppo prende forma da un idea della cantante, insegnante e direttrice di coro Yasmine Zekri, che estrapola il tutto dalla sua tesi di laurea in Canto Jazz "Il jazz e la musica araba", ricavando spunti da autori come Abdullah Ibrahim, Yusef Lateef, Randy Weston, ma soprattutto Dhafer Youssef e Rabih Abou-Khalil. In questo viaggio sonoro si coadiuva di artisti come Stefano De Marchi alla chitarra (Psicosuono), Daniele Cortese al basso ed Andrea Varolo alla batteria e percussioni. Ci sono anche due special guest, Achille Succi al clarinetto basso e Alberto Ricca all’elettronica.
Lo sforzo creativo dettato dagli innesti di generi, porta al risultato di dieci brani, e questo “Find A Place”  viene registrato nel luglio 2017 presso l'Artemista Recording Studio di Spessa (PV).
Musica che emana calore, sin dall’iniziale “No Place For Minds”, acceso dalla voce di Yasmine. Gli Area di Demetrio Stratos avrebbero detto “Popular Music”, traendo proprio il concetto dal loro modus operandi. Intrigante il momento corale voce e basso su suoni live.
Ed il basso è lo strumento che apre anche la successiva “Colours” dall’incedere decisamente Folk a dimostrazione dell’apertura mentale del progetto Mozaic. La ricerca suono/voce la si evince nell’ascolto di brani come “Mermaid”, mentre il Jazz fuoriesce in “African Rainy Day”.
Soffice e toccante “Daffodils” mentre gli Area questa volta sono chiamati in causa nel suono di  “White Rabbit”. E’ solo un momento che comunque traccia un percorso di gusto personale ben marcato da parte degli artisti. Seguono voce e suoni. La breve “In Fuga” mostra il lato giocoso della band, quello più sbarazzino e divertente, tuttavia sempre sperimentale ed improvvisato.
Percussioni e clarinetto aprono “Ainda”, vero calderone di sonorità con inseguimenti voce e strumenti, movimento sempre molto caro al Jazz. Il contesto è simile in “In The Moor”, vetrina sia per le qualità compositive che esecutive dei componenti, non solo di ricerca vocale. Il disco si conclude con “Hermit’s Lament”, nomen omen.
Nella musica dei Mozaic c’è cultura, ci sono colori come nella copertina, si respira voglia di approfondire e di esprimersi senza nessuna restrizione di regole. Un poco ciò che accadeva per certi gruppi anni ’70 anche in Italia. Tutto questo ovviamente fa di “Find A Place” un lavoro mirato ad un pubblico dalla mente aperta. Musica dai mille colori che investe l’ascoltatore e lo avvolge nel suo calore. MS


Contatti:   yas.jj92@yahoo.it

sabato 11 novembre 2017

ROCK & WORDS a Radio Gold

ROCK & WORDS a RADIO GOLD


ROCK & WORDS sono Fabio Bianchi e Massimo “Max” Salari. Insieme raccontano la storia della musica Rock e dintorni, l’evoluzione e come nascono i generi musicali, tutto questo in conferenze supportate da audio e video. Assieme sono nel direttivo dell’associazione Fabriano Pro Musica. 
FABIO BIANCHI: Musicista, suona batteria e tromba. Ha militato in diverse band fra le quali i Skyline di Fabriano e l’orchestra Concordia. 
MASSIMO “Max” SALARI: Storico e critico musicale, ha scritto e scrive in riviste musicali di settore e webzine come Rock Hard, Flash Magazine, Andromeda, Rock Impressions, Musica Follia, Flash Forwards ed è gestore del Blog NONSOLO PROGROCK.

Sul sito web di RADIO GOLD aprono una rubrica musicale settimanale che potete leggere al seguente link:  http://www.radiogold.tv/?p=30227

venerdì 10 novembre 2017

Tazebao

Tazebao - Opium Populi
Ma.Ra.Cash
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2017


La forza delle parole, la fermezza della poesia ed il viatico musicale Rock sono un connubio artistico imponente, capace di scardinare i meandri del nostro cervello con la facoltà di far pensare. Di questi tempi fermarsi non solo ad ascoltare ma per giunta pensare, è un risultato quantomeno sorprendente. Le parole importanti quanto la musica, i debuttanti Tazebao sono un equilibrio di questo concetto e sono artisti che già conosciamo nell’ambito musicale, soprattutto in quello del Rock Progressivo.
Autore dei testi e voce inconfondibile è Gianni Venturi (Altare Thotemico,Vuoto Pneumatico, Lucien Morreau&Gianni Venturi - Moloch), alla batteria Gigi Cavalli Cocchi (C.S.I.,Ligabue,), al basso Valerio Venturi (Altare Thotemico), alle tastiere Luigi Cassarini e alla chitarra Nick Soric (Lady Godiva, Mauro "Pat" Patelli Band, Salvatore "Salva" Cafiero). Testi forti dunque, riguardanti la società del momento e soprattutto il potere delle religioni ed il radicarsi nella mente dei popoli.
“Opium Populi” è un grido contro ogni forma di estremismo in generale, vuol far pensare per far scaturire l’”Io” che abbiamo dentro ognuno di noi, il modo di pensare per ridare personalità all’individuo assoggettato da questo forte potere. Si va ad attingere nel Catarismo.
Anche la copertina del disco visivamente racconta molto, fra carro armato, foto e proiettili conduce inesorabilmente alla memoria dei lavori di Gianni Sassi per la Cramps negli anni ’70, casa discografica dai concetti importanti a partire da quelli narrati dagli Area. In realtà è ad opera di Gigi Cavalli Cocchi, esperto nel settore. Dieci canzoni che sferzano la testa aprendola come un apriscatole, dove la ritmica spesso ossessiva è degna accompagnatrice delle parole.
“Caedite” è un esempio lampante, anche a dimostrazione che la forma Progressiva è rispettata, cambi di tempo annessi. Attenzione anche per i ritornelli e le buone melodie. L'elettrica “Ecce Homo” fotografa la società del momento, fra richiami a Giordano Bruno e la spietata fotografia del nostro essere “cattivo animale”. Buono l’intervento delle tastiere dal sapore vintage. Più epica nel coro da cantare è la title track “Opium Populi”, canzone profonda e comunque appetibile. Resto colpito da “L’inquisitore”, brano che si sostiene su importanti linee di basso e voglioso di mostrare anche le capacità della band nel conoscere molto bene i passaggi del Prog in senso generale, non solo degli anni ’70. “Occitania” è fra i momenti più alti dell’intero disco, rammenta in me un certo cantautorato degli anni ’70 specie nell’inciso. La mia preferita è una semi ballata e si intitola “Omnia Munda Mundis”, trivellante fra cantato in latino ed italiano. Malinconica “Reincarnazione”, altra piccola perla riflessiva ed emotiva. Buone coralità in “Rex Mundi”, così il ritornello. Il disco si chiude con “La Via Catara” e l’intro elettronico. La ritmica ricopre nuovamente un ruolo basilare. Di tanto in tanto nel corso delle canzoni si è anche potuto ascoltare nei cori, le sperimentazioni vocali a cui Venturi ci ha abituati negli anni nei suoi progetti alternativi.

La forza espressiva a disposizione della formula canzone, la poesia, e la musica fanno di “Opium Populi” un pugno nello stomaco più che uno schiaffo, i Tazebao ci gridano: “Ci vogliamo svegliare si o no?”. Importante debutto, sotto molteplici aspetti, compresa la grande professionalità palesata ed una personalità che molte band di oggi possono solamente sognare. MS

The Forty Days

THE FORTY DAYS – The Colour Of Change
Lizard Records
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2017


Vedere oggi  in Italia un numero crescente di giovani musicisti che formano band di musica Progressive Rock fa veramente piacere. Nuova linfa, freschezza e idee.
I The Forty Days sono toscani (Pisa/Livorno) e nascono come cover band Rock di gruppi anni ’70. Fra le loro influenze ci sono Pink Floyd,  King Crimson, Supertramp, Led Zeppelin, ma anche gruppi più recenti come Porcupine Tree e quindi Steven Wilson, Marillion ed altri ancora.
Il nome The Forty Days deriva dal fatto che tra la prima prova ed il primo live sono intercorsi circa 40 giorni. La band nel tempo è soggetta a cambiamenti di line up, sino a giungere oggi alla formazione con Giancarlo Padula alla voce e tastiere,  Dario Vignale chitarra e voci, Massimo Valloni al basso e Giorgio Morreale alla batteria. “The Colour Of Change” si può considerare un concept album pur non avendo un vero filo conduttore narrativo, perchè racconta un certo periodo della vita attraverso molteplici punti di vista. Le canzoni vengono concepite nel corso degli anni 2015 e 2016.
Sette i brani contenuti nel disco accompagnato da un libretto dettagliato di testi (il cantato è in lingua inglese) disegnato da Giancarlo Padula, con l’artwork di Matteo Di Giacomo e le foto di Laura Messina.
Essendo i Pink Floyd nel loro background, il disco non si poteva che aprire con un tappeto sonoro mix fra “Shine On You Crazy Diamond” e “Sorrow”, il titolo è “Looking For A Change”. Ma ovviamente trattasi solamente dell’intro, il brano si svolge in successione fra cambi di tempo ed umore, anche con un piccolo balzello nel Neo Prog di matrice anni ’80. Davvero godibile il tutto in quanto spezzato anche da un solo di chitarra, seppure breve ed incisivo. La voce è grintosa ed ottima interprete.
Godibilissima la strumentale “Uneasy Dream”, qui le tastiere giocano un ruolo centrale fra fraseggi e rincorse con la chitarra elettrica. In questo frangente si esibiscono anche le buone doti tecniche dei singoli strumentisti. Un arpeggio di chitarra apre la bellissima “The Garden”, le atmosfere si fanno pacate ed il cantato è inizialmente più sussurrato, un mix di influenze che danno come risultato una canzone di classe e toccante, i The Forty Days puntano direttamente al cuore dell’ascoltatore. Trovo affinità anche con i tedeschi RPWL per chi li conosce. Personalmente poi i solo di chitarra così mi mettono ko. “Homeless” è quasi una suite con i suoi nove minuti abbondanti, la canzone più lunga dell’album. Ebbene qui troviamo un mix dei loro punti di riferimento sopra citati e ancora una volta molta enfasi e fughe strumentali.
Altro piccolo gioiello è “John’s Pool”, pacato all’inizio per lanciarsi nel crescendo emotivo e sonoro sempre di grande presa, assolo di chitarra annesso. Il piano apre “Restart”, altro volo pindarico con richiami Pink Floyd e Marillion. Finale stupendo che potrebbe trovare locazione anche nella discografia dei norvegesi Airbag. Il discorso è analogo per la conclusiva “Four Years In A While”.
Trattasi di debutto, e la cosa quindi diventa ancora più interessante, in quanto ci si attende anche una ulteriore crescita e visto quanto abbiamo ascoltato, le premesse sono tutte buone. Bel periodo, il Progressive Rock italiano può dormire sonni tranquilli. Bravi. MS