Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO

Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO
La storia dei generi enciclopedica

sabato 18 aprile 2020

Euphoria Station


EUPHORIA STATION - The Reverie Suite
Reverie Suite Records
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2019


A Los Angeles esiste una stazione dove ferma il treno dell’euforia, della gioia e del piacere, quello di condividere la buona musica, la fermata si chiama Euphoria Station. I capostazione sono due, la cantante Saskia Binder e il chitarrista Hoyt Binder, essi si incontrano ad Hollywood, in California e danno vita a questa collaborazione musicale nel 2015. La passione per il Prog degli anni ’60 e per il  Rock anni ’70 è grande e viene esternata nelle composizioni acustiche a venire.
Molto interessante il debutto discografico del 2017, “One Heart” dove si parla di amore e passione per la vita. Qui gli artisti si avvalgono della collaborazione di importanti special guest come Chris Quirarte (Redemption) alla batteria, Paulo Gustavo al basso e Mike Farrell alle tastiere.
Ispirati dalla bellezza del sud-ovest dell'America a partire da Sequoia in California e dalle esperienze di vita di Saskia, il duo Euphoria Station ritornano nel 2019 a trattare il Rock con la loro gentile eleganza che li contraddistingue con “The Reverie Suite”. L’album è composto da dodici canzoni, e nel realizzarle il duo si avvale della partecipazione della The Americana Daydream Revival Orchestra, formata da Ronald Van Deurzen (tastiere), Trevor Lloyd (strumenti a corda), Tollak Ollestad (armonica), Rebecca Kleinman (flauto), Paulo Gustavo (basso), Chris Quirarte (batteria), Mike Disarro (armonie di sottofondo) e Bobby Albright (percussioni).
Anche la copertina del disco lascia presagire influenze Folk, che in effetti non mancano, richiamando il sound di gruppi storici come Kansas e Jethro Tull su tutti. All’interno del disco si trova scritta una considerazione importante anche per la chiave di lettura dell’album: “Solo noi possiamo vedere attraverso gli occhi di un bambino. Una finestra, una finestra aperta dove tutti i nostri sogni diventano realtà”.
La lunga durata dell’album che supera i settantuno minuti non è sinonimo di pesantezza o d’inutile prolissità, piuttosto essa ben arrangiata e variegata, si lascia ascoltare in maniera gradevole.
Apre la strumentale “Prelude/ She’s Calling” ed ecco stagliarsi avanti alla nostra immaginazione proprio quel binario dritto del treno che parte dalla stazione. Il Folk con le classiche sonorità americane non è comunque scontato, grazie ad una struttura Prog con i consueti cambi di tempo e un insieme di strumentazioni che possono far venire alla mente molti gruppi, a partire dagli Echolyn ai Spock’s Beard, sempre comunque band dalle origini americane.
Flauto iniziale e arpeggi di chitarra per “Reverie”, bene interpretata da Saskia, una canzone solare e calda nella sua semplicità.
“One My Way” mostra la cultura musicale del duo ad ampio raggio, spaziando dal Rock al Blues passando per il Folk, brano gradevole e ben strutturato, fra i migliori dell’album. La parte centrale con l’armonica a bocca mi riporta ai tempi dei Canned Heat. “Heartbeat” emotivamente va in crescendo, con un inizio molto pop per le melodie voci e chitarra,  nel tempo raggiunte dal flauto che dona al tutto un aurea più dolce.
Torna il Rock elettrico in “Bridge Of Dreams” il quale grazie al violino rimanda ai tempi gloriosi dei Kansas. Quello che tuttavia funziona nelle canzoni degli Euphoria Station sono le melodie orecchiabili di facile memorizzazione.
“Queen Of Hearts” è un esempio di come siano stati importanti gli anni ‘70 per la musica Rock e il suo futuro.  Nel divertirsi a cambiare certe regole iniziarono nei ’60 i Beatles e qualche sprazzo (anche se magari in maniera inconscia), lo si può estrapolare dal contesto durante l’ascolto del brano. Questo è uno strumentale Prog a tutti gli effetti, uno dei massimi picchi dell’album.
Quasi dieci minuti per “Paradise Road”, qui si scomoda anche il maestro Elton John per certi interventi strutturali. Il piano sia all’inizio che nella fase centrale della canzone la racconta giusta. Personalmente ci sento anche qualcosa dei Supertramp, questo nella fase dell’armonica. Tutti questi accostamenti a grandi nomi della musica comunque non vorrei portasse a dire che il duo in questione sono solo dei semplici esecutori, perché in realtà sono dei bravi compositori e hanno anche una loro personalità ben definita. Tutto questo serve soltanto per dare paletti di comprensione a chi sta leggendo e non ascoltando.
La prova di carattere giunge da “Move On”, con un riff importante e molta energia positiva, canzone che potrebbe benissimo essere il singolo dell’album. Segue un pezzo molto acustico, sentito e rilassante intitolato “Seasons”, l’intervento del flauto lo innalza notevolmente. La canzone più breve si intitola “Reprise” ed è un altro lento di poco più di tre minuti, voce e piano. Il treno riparte e sembra sentirlo sbuffare fra le note di “Remind Me”  che traina l’ascoltatore sino alla conclusiva “Content”, altro tassello melodico di questo puzzle sonoro vario ed educato.
In conclusione “The Reverie Suite” è un disco molto piacevole, ricco di storia e di belle emozioni, cosa si desidera solitamente da un disco? Vedete voi. MS


venerdì 3 aprile 2020

Marco Grieco


MARCO GRIECO – Nothing Personal
Musical Box Entertainment Association / CD Baby
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd - 2020


Marco Grieco è un vulcano di idee, un artista a tutto tondo, compositore, autore, regista, scrittore, cantante, polistrumentista, cineasta e scenografo virtuale. Noto in campo musicale anche come MacroMarco, è autore del buon album “Il Pianeta Degli Uomini Liberi” (AMS, Vinyl Magic) nel 2009. Vince anche premi letterari per le sue opere  scritte, come il premio "Parole In Corsa".
Ma veniamo al Marco Grieco musicista: amante del Progressive Rock e della musica in generale, nei suoi dischi suona tutti gli strumenti e canta in inglese, anche in questo ultimo lavoro intitolato “Nothing Personal”.
Il disco è suddiviso in nove tracce ad iniziare da “Last Chance”, canzone che si apre in stile Genesis con le tastiere in primo piano per poi procedere in coralità vocali alla Yes, i giochi sono già chiari. L’autore dimostra molto rispetto per il passato ed un buon bagaglio culturale al riguardo. L’enfasi è elevata, grandeur palesata con gioia e solarità.
In un ritmo spezzato subentra “The Eden”, tutto apparentemente molto semplice, in realtà c’è molta ricerca anche negli arrangiamenti, così le melodie sono orecchiabili anche se inevitabilmente possono far scaturire deja vu, ma questo è dato dal genere che resta circoscritto a certi stilemi.
Più aggressiva la title track “Nothing Personal”, proseguono i giochi vocali, non solo Yes, ma anche Gentle Giant. Per chi li conoscesse Grieco mi ricorda qualcosa dei lavori dei Magellan e dei Cairo.
La chitarra acustica apre la ballata “Am I Sleeping”, dolce e toccante nella sua apertura con ingresso tastiere e batteria. Il brano è messo al posto giusto nel momento giusto a spezzare l’ascolto, il Prog spesso è composto da tanto materiale che va spezzato per non rischiare di cadere in  una overdose di sonorità. La chitarra elettrica invece ricorda qualche assolo dei Pink Floyd senza strafare.
Uno dei momenti più belli del disco arriva da ”Falling Dreams”, Spock’s Beard a carico. Segue “Waiting Four” con un intro di piano davvero gradevole. Il brano è fra i più ricercati, molta carne al fuoco, per chi vi scrive è il più apprezzato, giusto equilibrio fra ricerca e buone melodie. Amo molto il finale, fra assolo di chitarra elettrica e crescendo sonoro.
La breve e pianistica “Waves” fa navigare fra le note in un aria dal profumo “Genesiano”, anima dell’artista coinvolto a pieno in questo progetto importante e vetrina per le sue doti tecniche.
“Hertics” è più drammatica, così nell’incedere ad aprirsi con le chitarre è il mondo dei Pink Floyd.
A chiudere la mini suite di quasi quindici minuti intitolata “Winter”, un riassunto delle capacità compositive e tecniche di Marco. Ancora una volta si può godere di un bel momento pianistico al centro del brano, compresa della psichedelia.
“Nothing Personal” è un disco consigliato a tutti gli amanti dei gruppi che ho citato, ma anche a coloro che si vogliono addentrare in questo infinito mondo musicale, ricco di emozioni e influenze che sembrano non essere relegate ad una data precisa, tanto sono sincere e quindi mai potranno passare di moda. MS

Quel Che Disse Il Tuono


QUEL CHE DISSE IL TUONO – Il Velo Dei Riflessi
AMS Records
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2020


Di certo non si può dire che il genere Progressive Rock non abbia portato con se anche nel 2020 i nomi stravaganti delle band. Gli anni ’70 furono notoriamente un fiorire di Locanda Delle Fate, Banco Del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi, Quella Vecchia Locanda, Il Rovescio Della Medaglia, Balletto Di Bronzo etc. etc. Questo darsi un nome decisamente non scontato è nella lirica e nel dna del genere, vero e proprio sinonimo della musica proposta.
Oggi veniamo a conoscenza di una nuova band nel circuito RPI (Rock Progressivo Italiano) i Quel Che Disse Il Tuono. Dalla loro biografia si può leggere che “Il progetto nasce nel gennaio 2019 dall’incontro artistico di Francesca Zanetta (chitarra e string machines, ex Unreal City) con Roberto “Berna” Bernasconi (basso e voce solista) e Alessio Del Ben (batteria, tastiere e cori). Il trio viene presto raggiunto da Niccolò Gallani (pianoforte, tastiere, flauto e cori, già tastierista dei Cellar Noise).”.
Ebbene anche loro fanno parte delle nuove leve che uniscono il classico prog sinfonico degli anni ’70 (strumentazione annessa), al sound del Rock moderno di oggi. Per fare questo ovviamente ci si mette dentro del proprio. In qualche maniera si può affermare con convinzione che il RPI è vivo e vegeto, sempre alimentato da nuova linfa. Il debutto in analisi è impegnativo ed importante in quanto concept album, così ancora dalla biografia della band riguardo alla storia narrata: “Il Velo Dei Riflessi è un concept album nel quale vi è un protagonista che si trova, in medias res, da solo in
una sala a lui sconosciuta, circondato da grossi specchi rovinati. In ogni specchio è intrappolata una figura umana che si scopre essere nient’altro che la personificazione di un tratto di personalità del protagonista stesso, fino a questo momento non accettata, repressa, nascosta e considerata alla stregua di un’immonda deviazione. Al procedere della narrazione si apprende come ogni tratto di personalità patologico sia di fatto diventato alla stregua di una coscienza a parte, senziente e desiderosa di poter uscire dalla prigione dello specchio in cui è intrappolata da tutta la vita per riunirsi al protagonista. L’uomo non può quindi fare a meno che accettare questa nuova realtà e accorgersi di come non sia mai stato da solo, ma che tutti i soggetti spettrali e decadenti ora di fronte a lui, abbiamo sempre fatto parte di ciò che ha sempre riconosciuto come il proprio essere”.
Quello che poi succederà lo lascio alla vostra curiosità nell’ascolto.
Il disco è suddiviso in cinque tracce, ad iniziare da “Il Paradigma Dello Specchio (Primo Specchio)”. Subito suoni di flauto e Mellotron, immergono l’ascoltatore nel passato. La chitarra di Francesca Zanetta ripercorre sentieri passati con rinnovata freschezza, mentre le tastiere ricoprono un ruolo importante. Non da meno la ritmica impiegata in vari passaggi e controtempi impegnativi. La voce è quella che rispecchia la media delle band Prog italiane, sufficiente e basilare. Probabilmente in questo caso un poco più di enfasi non avrebbe guastato vista la teatralità del brano, tuttavia nel contesto ci può stare. Le Orme fanno capolino di tanto in tanto.
“Figli Dell’Uomo (Secondo Specchio)”, come il primo brano è della durata di quasi dieci minuti. Più ponderato e ricercato, il gruppo da ampio spazio alle melodie, su quelle si che noi italiani siamo maestri. Qui anche la voce di Roberto Bernasconi va in crescendo emotivo, palesando quell’enfasi a cui mi riferivo in precedenza e tutto assume un aurea maggiormente intensa. Passaggi barocchi ricordano anche certi Gentle Giant e ancora Orme.
“Chi Ti Chiama Accanto (Terzo Specchio)” è emozionante sotto molti aspetti, nella placida melodia, nel solo di chitarra sostenuto, nel piano e nel flauto. Tanto bagaglio culturale esposto fra le note da parte dei giovani musicisti. Più vigoroso e Hard “Il Bastone E Il Serpente (Quarto Specchio)”, bello nella ritmica dove il basso riesce a farsi notare in maniera decisa e convincente. Intriganti i passaggi più oscuri. Per chi li dovesse conoscere si possono paragonare ai svedesi Sinkadus. Il disco si conclude con la suite “Loro Sono Me (Catarsi)”degno epilogo del tutto e sunto delle caratteristiche descritte della band. Ai cultori della musica dico altresì che oltre al formato cd esiste anche il vinile 33 giri.
I Quel Che Disse Il Tuono dimostrano di essere una band coesa e se si considera che “Il Velo Dei Riflessi”  è un esordio, oltre ricordare che si sono formati da meno di un anno, allora si può tranquillamente annotare il nome della band nel taccuino delle promesse. Aspettiamo nuovi sviluppi, tuttavia se il buongiorno si vede dal mattino il PRI può dormire sonni tranquilli. Complimenti. MS

giovedì 2 aprile 2020

Polis


POLIS – Weltklang
Progressive Promotion Records
Distribuzione: G.T. Music
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2020


Avere la sensazione di essere dentro gli anni ’70 nel 2020 è una emozione che capita raramente di provare. Essa scaturisce quando si ascolta un disco vintage, ma più raramente quando si è all’ascolto di un disco concepito e registrato oggi. Questo è a mio gusto personale un pregio, così come è piacevole ascoltare quella psichedelia dettata anche dalle erbe che quella volta tanto andavano di moda per elaborare certe percezioni. La musica che si sostituisce ad una droga è la quadratura del cerchio. La mente va spesso ingannata, come lo si fa con la masturbazione, pensando di essere in un vero e proprio rapporto fisico a discapito della realtà, che in definitiva punta semplicemente dritta all’egoistico risultato finale. Questo è quello che conta, lo scopo emozionale.
I Polis sono una comunità tedesca e cantano in tedesco, hanno base in un vecchio edificio industriale, con pavimenti in legno e pannelli su pareti e soffitti. Anche la strumentazione è vintage, l’Hammond B3 ha sempre un suo certo fascino, così le chitarre che fuoriescono da un vecchio amplificatore. Hanno all’attivo tre album, e “Weltklang” è proprio il terzo, dopo “Sein” prodotto sei anni fa. L’artwork che accompagna il disco in versione cartonata, ben descrive le sensazioni che si provano durante l’ascolto. L’essenza del tempo passato con immagini ingiallite e comunque immerse nella natura, con la band presa di spalle a torso nudo, proprio per godere al meglio del contatto con la natura, è un perfetto viatico.
Non tanto per la musica proposta ma per l’approccio ad essa, mi fanno tornare alla memoria i svedesi Anglagard. Nelle otto tracce contenute nell’album fuoriescono inevitabilmente i richiami a gruppi come Pink Floyd, ed Uriah Heep su tutti. I Polis sono così vintage che anche la durata del cd è favorevole al supporto vinilico con i suoi 40 minuti.
Chitarre grevi aprono “Tropfen”, il mondo si mette in stand by mentre tutto attorno assume un significato inconsistente. Musica semplice, diretta, che il tempo ha forgiato per essere considerata una materia eterna. Brano strepitoso e contagioso.
“Gedanken” prosegue con il suo incedere monolitico, le chitarre aprono di tanto in tanto spiragli di luce per un paesaggio ipoteticamente arioso e spazioso. La fantasia non ha freni durante l’ascolto del brano che a sua volta non esula di cambi di tempo e d’umore, in perfetto stile Prog per indole. Buoni anche i giochi vocali. Più sognante “Leben”, canzone più lunga dell’album con sette minuti abbondanti di musica. Non nascondo che ha rilasciato in me residui di Landberk, altra band svedese che adoro, anche per la veste del suono della chitarra. Questo brano lo consiglio a tutti gli amanti della musica in senso generale.
Un breve strumentale dal titolo “Abendlied”, una sorta di ninna nanna, accompagna all’ascolto di “Sehnsucht”, brano più strutturato e con un cantato gradevole nella melodia.
Tutto “Weltklang” scorre via con piacere.
La musica è un fatto mentale, le sensazioni che scaturiscono all’ascolto risiedono nel nostro esistere, nella memoria che ha fotografato le nostre situazioni esistenziali e queste vengono sollecitate dall’ascolto di questo album che in effetti palesa qualcosa di magico. MS

Rick Miller


RICK MILLER – Belief In The Machine
Progressive Promotion Records
Distribuzione: G.T.Music
Genere: Progressive Rock
Formato: cd – 2020


L’artista e polistrumentista canadese Rick Miller ha una discografia veramente cospicua, “Belief In The Machine” è il quattordicesimo album da studio. Esordisce discograficamente nel 1983 con “Starsong”, un album di successo viste le oltre 30.000 copie vendute. Disco dopo disco, l’artista si avvicina sempre di più al Rock Progressivo di stampo Genesis, Pink Floyd e Moody Blues.
La sua musica è incentrata soprattutto attorno alle emozioni forti date dalle melodie semplici e toccanti, come spesso hanno saputo fare i Pink Floyd in alcuni storici assolo di chitarra, così Steve Hackett. La media qualitativa delle  produzioni è ampiamente elevata, in una costanza invidiabile per molti altri artisti. C’è addirittura una maturazione ulteriore, una ricerca attenta per le atmosfere, soprattutto espressa nei momenti strumentali. Miller ha passione e competenza, un connubio davvero importante per chi è di questo mestiere.
“Belief In TheMachine” è composto da dieci brani ed una bonus track, fra canzoni semplici e mini suite, a cominciare da “Correct To The Core”. Un approccio psichedelico apre il brano fra incedere di basso e di percussioni, un percorso Pinkfloidiano era “The Wall” e dintorni. Miller è un artista intelligente, capisce dove la musica deve andare a parare, la mente si apre e si lascia penetrare senza neanche accorgersene.
Molto spesso non servono grandi scorpacciate di tecniche autocelebrative, neppure liriche logorroiche, bensì un equilibrio ben molto più semplice, ma questo risiede  nel sapere di chi considera la musica soltanto un bene per l’anima oltre che per il corpo.
“That Inward Eye”  è un breve strumentale nostalgico, fra arpeggi di chitarra e flauto, quello di Sarah Young. Nel disco compaiono altri special guest, Mateusz Swoboda al violoncello, Barry Haggarty alla chitarra Stratocaster e Will alla batteria e percussioni.
Resto colpito dalle melodie di “The Need To believe”, Steven Wilson sembra aver avuto un'altra vittima. Tutto lineare, senza impennate.
“Prelude To The rial” è un frangente rumoristico/psichedelico supportato oltre che dai synth, dal violoncello. Uno strumentale con assolo di chitarra che fa parte dei momenti d’atmosfera a cui mi riferivo in precedenza.
La malinconia regna anche in “That Inward Eye”, arie soavi e un cantato quasi sussurrato come Miller ci ha solitamente abituati. Il percorso giunge ai dieci minuti di “The Trial”, un sunto dell’intero lavoro che bene veste l’anima dell’artista. Oserei per certi versi definire l’album Belief In The Machine” un disco cinematografico per il susseguirsi di immagini che lascia creare durante l’ascolto.
La bonus track è un momento di chitarra elettrica ben eseguito e concepito.
Niente di più che quanto detto, un altro disco di  Rick Miller che scalda il cuore, senza mai alzare la voce, prerogativa per pochi e sicuramente disco che piace a chi ama Pink Floyd e certi Porcupine Tree. MS


Force Of Progress


FORCE OF PROGRESS – A Secret Place
Progressive Promotion Records
Distribuzione: G.T. Music
Genere: Progressive Rock/Metal Progressive
Supporto: cd – 2020


A tre anni di distanza dal debutto intitolato “Calculated Risk” (Progressive Promotion Records), ritornano i Force Of Progress con il loro Prog Rock strumentale al limite del Metal. Formazione che vince non si tocca, per cui Hanspeter Hess (The Healing Road) alle tastiere, Dominik Wimmer (Sweety Chicky Jam) alla batteria, tastiere e chitarra, Chris Grundmann (Cynity) alle tastiere, chitarra e basso, e Markus Roth (Marquette, Horizontal Ascension) alle tastiere, chitarra e basso, restano ben saldi ai loro posti.
Sette brani tutti di medio-lunga durata, a partire dai quasi sei minuti al brano di dodici, il progressive rock si sa, è anche questo.
Il fattore Metal è abbastanza evidente, specie su scale veloci alla Dream Theater, così l’incedere granitico della chitarra distorta che fa da base ritmica. Ciò lo si può ascoltare sin dall’iniziale “The Hand Sculpted Heart”. La musica esprime uno stato d’animo triste, quasi catastrofico per certi versi, proprio uno scenario come ben descrive l’artwork ad opera di Jef De Corte e Tama66 (Pixabay). Tuttavia le tastiere hanno lo scopo di rasserenare molto le atmosfere, rientrando nei canoni del classico Neo Prog anni ’80. I Force Of Progress alternano nella musica differenti stili, anche il funky ed il jazz come in “The Perfect Element”, dove una tromba subentra sopra una ritmica spensierata, spezzata soltanto dai variegati cambi umorali del brano. Un vortice emozionale davvero importante, una giostra, ogni minuto del brano incolla l’ascoltatore avanti allo stereo. Una menzione a parte anche per l’incisione, pulita e ben equilibrata.
“New Reality” è il brano più breve dell’album, un macigno iniziale roboante e poi un viaggio nel mondo dei Dream Theater.
Un passaggio nel Prog totale lo si ha in “Circus Maximus”, qui si hanno tutti gli ingredienti del caso. Un mix di situazioni più o meno note, assemblate con sapienza e professionalità. La title track “A Secret Place” è una canzone orecchiabile nell’incedere, il piano disegna fughe, “The Steps To The Precipice” è altrettanto ricca di controtempi e tasti d’avorio in cattedra. La chitarra si comporta solamente da ritmica e supporto. A chiudere “Agressor”, più ruvida e greve.
La musica è un linguaggio e dove le parole non arrivano più, essa subentra nella carenza e i Force Of Progress conoscono molto bene questa lingua, la parlano perfettamente. MS