Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO
sabato 28 novembre 2020
Rick Miller
RICK MILLER – Unstuck In Time
Eye 2 Eye
EYE
2 EYE – Nowhere Highway
Progressive
Promotion Records
Distribuzione: G.T. Music
Genere: Neo Prog
Supporto: cd – 2020
La
Francia ha avuto molte band importanti in ambito Rock Progressivo, la storia ci
lascia i Magma, gli Ange, i Minimum Vital, Mona Lisa, Pulsar ma moltissime altre
anche negli anni a venire, quindi non soltanto nei ’70, ’80 e ‘90. Il Neo Prog
francese è altrettanto fiorente ed interessante, gruppi come Drama, Saens,
Aside Beside, Skeem e Nemo solo per fare alcuni nomi, ne sono la prova. Fra i
più conosciuti ci sono anche gli Eye 2 Eye, quintetto composto oggi da Jack
Daly (voce), Bruno Pegues (chitarra), Philippe Benabes (tastiere), Etienne
Damin (basso, chitarra) e Didier Pegues (batteria). La loro musica è un
incrocio fra il Prog sinfonico, con la psichedelia legata ai Pink Floyd.
“Nowhere
Highway” è il quinto album in studio, ne sono già passati di anni dal buon
debutto del 2006 intitolato “One In Every Crowd”. Oggi l’album è un concept
dove il titolo principale (che si tramanda di brano in brano suddiviso in più
parti) è “Ghost”.
“Ghost
pt.1” però è contenuto nel precedente
album “The Light Bearer” edito nel 2017, quindi in “Nowhere Highway” si
comincia direttamente con “Behind The Vail (Ghosts Pt.2)”. Il concept narra la
storia di un artista il quale per trovare la sua vena creativa la ricerca
purtroppo nel Whisky, ma bicchiere dopo bicchiere entra in coma. Qui giunge
nell’”Autostrada del nulla” (Nowhere Higway) dove appunto inizia la lotta con i
propri fantasmi per cercare di uscirne fuori per ritrovare la vena artistica
sopita.
Nel
viaggio sonoro si coadiuvano special guest quali Michel Cerroni (voce narrante
e cori), Claudine Istri (cori), Marie Pascale Vironneau (violino) e Terry Lalet
(flauto).
L’inizio
psichedelico fa intendere attraverso la rumoristica che l’artista apre
bottiglie per poi perdersi nei fumi dell’alcool, “Behind The Veil (Ghosts Pt.2)”
può far venire alla memoria l’inizio di “Metropolis pt.3: Scenes From A Memory”
dei Dream Theater, per aprirsi susseguentemente ad una parte strumentale
prettamente Neo Prog, mellotron annesso. La chitarra elettrica ricopre nella
fase terminale il ruolo di protagonista.
“The
Hidden Muse (Ghosts Pt.3)” mostra la duttilità della voce di Daly, capace di
adattarsi a qualsiasi tipo di situazione. Peccato soltanto per la batteria
elettronica che a mio gusto personale in certi contesti proprio non ci entra.
La parte strumentale centrale si fa perdonare tutto. Con “The Choice (Ghosts
Pt.4)” si passa alla prima suite suddivisa in sei capitoli. Molta enfasi
iniziale con influenze Clive Nolan, sia per le tastiere che per certi episodi
sonori che si possono riscontrare durante l’ascolto di band come Arena o
Shadowland. Teatralità, musica cinematografica e in qualche momento anche
“Marillioniana” periodo Fish. Il Neo Prog necessita di questo come il pane e lo
sa alternare a frangenti pacati con chitarre alla Gilmour, in parole povere gli
Eye 2 Eye hanno capito bene la storia del genere, lo amano e lo rappresentano
più che degnamente. Della suite apprezzo anche il solo di violino che si
alterna alla chitarra elettrica, reminiscenze High Tide che però non credo i
nostri amici abbiano richiamato volutamente perché gli stili non combaciano.
In
“Moons Ago (Ghosts Pt.5)” tornano certi arpeggi alla Marillion, canzone
piacevole e bene eseguita, a dimostrazione della preparazione dei componenti.
Una tiratina d’orecchi alla qualità sonora di tutto l’album che ha un suono non
proprio nitido ma leggermente offuscato nell’insieme, se la cosa è voluta va
anche bene, ma non riscontra il mio ideale di suono. Il classico “De Gustibus”
ma per onore di cronaca devo dirlo. Chiude il concept la suite “Nowhere Highway
(Ghosts Pt.6)” con venti minuti spaccati di ottima musica bene orchestrata e
bilanciata nei crescendo e calando. In questo caso sono gli IQ ad essere
chiamati in causa, qui palesati in maniera convinta. Tante le belle emozioni.
Gli
Eye 2 Eye hanno realizzato un gran bel disco, Neo Prog con i fiocchi, esempio
di professionalità e capacità, ma occhio a certe sfumature perchè spesso fanno
la differenza. MS
venerdì 20 novembre 2020
Fiaba
FIABA – Di Gatti Di Rane Di
Folletti E D’Altre Storie
Lizard
Records
Genere:
Prog Folk Metal
Supporto: cd – 2020
Otto
lunghi anni distanziano “La Pelle Nella Luna” a questo atteso ritorno
intitolato “Di Gatti Di Rane Di Folletti E D’Altre Storie”. Ho sentito la
mancanza del giullare narratore Giuseppe Brancato, della batteria folcloristica
di Bruno Rubino e della chitarra di Massimo Catena. Sono ventisei anni che i
siracusani ci raccontano favole, questo fa si che non si ha più la volontà di
crescere, ma di lasciarsi travolgere da certi scenari e situazioni fantastiche,
in fondo l’uomo è sempre stato un eterno bambino, semplicemente perchè la
realtà è noiosamente squallida. Oggi a completare la band ci sono Graziano
Manuele (chitarra) e Davide Santo (basso).
Voglio
subito spendere alcune parole per l’artwork, questa volta superiore ai
precedenti, il libretto che accompagna il disco è nutrito sia di testi, che di spiegazioni
oltre alla foto centrale a tutta pagina, ma la cosa che ci tengo di più a sottolineare
è il fatto che si legge tutto chiaramente, nero su bianco! Oggi trovare un
booklet leggibile ad un cd è quasi un miraggio. Complimenti.
Ascoltare
un disco dei Fiaba è distaccarsi dalla realtà, un momento di magia, ma che
musica stiamo ascoltando? E’ Metal? E’ Folk? E’ Prog? Io di base la definirei
Metal, le chitarre distorte lo certificano, eppure ha un fascino che cattura
anche il Prog fans. Non ci sono tastiere, ma due chitarre elettriche, altro
punto a favore del Metal, ma certi movimenti riportano quasi al medioevo,
sonorità del passato che hanno il loro inossidabile fascino.
La
voce di Brancato è una istituzione sempre possente ed impostata non tradisce
mai, il cappello a tre punte torna a incantare sin da “La Gemella Tradita”. Il
riff semplice si stampa in mente, nel brano molta storia del Metal passato, ma
anche incantevole liricità. Un folletto birbaccione (forse Martinetto?) inverte
le coppe di un vino avvelenato alle due sorelle, una di esse trama qualcosa di
losco…
“La
Rana E Lo Scorpione” è una ballata triste, la storia di una rana che aiuta uno
scorpione ad attraversare il fiume portandolo sulla schiena, ma la sua indole
naturale ed incontrollata lo conduce a trafiggere la rana alle spalle con il
suo aculeo, così muoiono entrambi, lei avvelenata e lui affogato. Ritmo
cadenzato per “Il Gatto Con Gli Stivali”, favola famosa bene arrangiata e supportata
da un groove potente. Questi tre brani sono quelli concepiti più recentemente, a
venire si susseguono pezzi sempre nuovi ma tratti da periodi differenti della
loro lunga esistenza.
La
medioeval Rock band prosegue con la breve “Il Re Bambino Del Paese Di
Quissadove”, una simpatica danza irriverente fra l’acustico e l’elettrico con
un Brancato in splendida forma. Segue un'altra ballata, questa volta
malinconica che narra della storia del principe ranocchio, in questo caso però
a parti invertite, “La Principessa Rana”. Ma i Fiaba sfoggiano altre influenze
sonore, anche psichedeliche come nel caso di “La Brace Loro”. Essa è la
leggenda della foresta di Paimpont nell’antica Broceliandia, attuale Bretagna.
Amano
molto giocare con le filastrocche, come potrebbe essere altrimenti? Ecco quindi
“Hambarabah Ciicci Cockoo”, classica filastrocca di un autore anonimo che
abbiamo recitato tutti nella nostra vita. Ritmo sostenuto ed irresistibile,
perfettamente atto ad una performance live coinvolgente. Torna la chitarra
acustica in “Il Gatto Del Campo Dei Biancospini”, stramba ballata progressiva con
un crescendo imponente in un continuo cambio umorale. Decisamente uno dei
migliori momenti dell’intero album. “E’ Male” con i suoi venti secondi porta a
“Dentro Il Cerchio Delle Fate”, di sicuro il brano live per eccellenza dei
Fiaba, qui sfoderato il loro dna cristallino, ciò che si deve capire della band
è sunto qui in questi quattro minuti. L’attenzione all’ascolto si sviluppa
brano dopo brano in un prosperante piacere come se i Fiaba volessero rapirci e
farci perdere nel bosco della fantasia. La chiusura è in mano a “I Passi Nel
Solaio”, altra ballata malinconica spolverata di quella magia infantile che ci
accompagna sempre, celata in un angolo del nostro cervello come se non volesse
essere scovata per paura di essere strappata via. Degna conclusione di un disco
altamente professionale, anche per qualità d’incisione.
Ha
senso oggi nel 2020 raccontare ancora delle favole? Non vorrei sembrare
polemico, ma in realtà ce ne raccontano quotidianamente, io però preferisco
queste di folletti e di boschi. Un ritorno gradito e maturo, a mio giudizio “Di
Gatti Di Rane Di Folletti E D’Altre Storie” è il loro migliore album,
consigliato per un bel momento di relax. MS
Zaal
ZAAL
– Homo Habilis
Lizard
Records / Open Mind
Genere: Jazz Rock / Fusion
Supporto: cd – 2020
In
questi anni non è che il tastierista Agostino Macor sia rimasto con le mani in
mano, La Maschera Di Cera, Finisterre, Blunepal, Rohmer, Ombra Della Sera, The Chanfrughen
sono soltanto alcune delle sue partecipazioni in ambito progressivo e dintorni.
Tuttavia sono passati dieci anni dal secondo lavoro in studio intitolato “Onda
Quadra” ed oggi si ripresenta al pubblico con un lavoro registrato in presa
diretta durante alcune sessioni. Il risultato si intitola “Homo Habilis”, una
ricerca sul rapporto uomo/macchina in questo periodo tecnologico moderno.
In
prevalenza fra le note di questo album completamente strumentale scaturisce un
Jazz Rock/Fusion molto interessante, ma le influenze sonore arrivano da ogni
parte, World, Prog, cameristica, Ambient ed altro ancora, questo grazie anche agli
ospiti che lo accompagnano in questo viaggio di otto motivi.
Una
mini orchestra composta da Emanuele
Ysmail Miletti (sitar), Sergio Caputo (violino) Paolo Furio Marasso
(contrabbasso), Melissa Del Lucchese (Violoncello), Francesco Mascardi (sax),
Roberto Nappi Calcagno (tromba), Andrea Monetti (flauto) e Alessandro Quattrino
(percussioni) sono la base della band. Gli ospiti sono importanti e conosciuti
nell’ambito Rock Prog, Edmondo Romano (legni e fiati), Mau di Tollo e Federico
Branca (batteria).
Le
aspettative sono alte e non nascondo che personalmente ho un debole per le
registrazioni in diretta, perché l’alchimia che si crea nello studio è più
sentita che mai, suonare guardandosi negli occhi porta ad avere un intesa
maggiore, una spinta che sa di sincera realtà emotiva. La classica marcia in
più.
Le
macchine hanno molteplici componenti così come il corpo umano, altra macchina
perfetta che riesce però nel miracolo di creare emozioni con le mani e la
mente. Capta nell’aria la chimica spirituale trasformandola in musica, sono
entrambi cose invisibili ma reali, l’ascolto di “Meccanica Naturale” ne è schietta
conferma. Sembra di stazionare nei primi anni ’70, il sitar dona un fascino
psichedelico avvolgente.
Il
pianoforte di Macor apre “Revéil (Post Big Bang)”, il brano più lungo
dell’album grazie ai quasi otto minuti di durata. Il suono diventa
cinematografico, l’ascoltatore spazia in queste quasi improvvisazioni fra fiati
e percussioni, ripercorrendo la strada evolutiva dell’uomo.
Ritmica
cadenzata, quasi un orologio che avanza sul tempo con il suo inesorabile
ticchettio in “Presences”, la tromba di Nappi Calcagno mi fa ritornare alla
mente certe sonorità dei Nucleus, questo lo dico per i più ferrati di voi in
questo settore musicale. Il crescendo sonoro è trascinante, l’ensemble si
intende a dovere, proprio a conferma del mio pensiero espresso sulla
registrazione in diretta.
Le
atmosfere si quietano, il sitar suona su di un tappeto di suoni fievoli
all’inizio di “Homo Habilis”, brano ricercato con influenze mediorientali e
ancora una volta in crescendo, questa formula funziona sempre. ”Jaime S*mmers”
è un breve e pacato strumentale fatto di tastiere, il suo minuto accompagna a
“Instruments”, vera e propria carovana di suoni. La ripresa di “Réveil” ancora
una volta è una passeggiata nella ricerca sonora, quasi cameristica, mentre
“Androids Void” è la traccia Ghost che
chiude l’album, qui c’è elettronica, il momento è quieto, spaziale e armonioso
mentre il piano sgocciola note come se stessero riflettendo su dove cadere.
Un
lavoro decisamente mirato ad un pubblico esigente, di certo non da ascoltare
con superficialità, si rischierebbe soltanto di paragonarlo ad un fastidio.
Serve silenzio ed il giusto approccio, quello della passione per la musica. MS
Scherzoo
SCHERZOO
– 05
Lizard
Records/Open Mind
Genere:
Progressive Rock – Zeuhl
Supporto: cd – 2020
I
Scherzoo provengono dalla Francia e precisamente da Lione. Si formano nel 2005
grazie all’idea del compositore e polistrumentista François Thollot. Inizialmente
la formazione non trova molta stabilità, essa la raggiungono circa intorno al
2011, anche se nel tempo le pedine cambiano nuovamente, tuttavia nel frattempo
la band si mette alle spalle molta esperienza suonando dal vivo.
La
musica proposta è completamente strumentale ed è un mix di generi che spaziano
dal Jazz Fusion al sound di Canterbury,
Zeuhl, RIO e Prog sinfonico classico. Come il titolo dell’album lascia
presagire con “05” siamo al quinto sigillo da studio, mentre gli album
precedenti hanno sempre il titolo con numero progressivo, iniziando da “01” che
è dell’anno 2011.
La
formazione oggi vede Clément Curaudeau alla batteria, Anthony Pontet alle
tastiere e sintetizzatori, Grégoire Plancher al piano e Mellotron e François
Thollot al basso. Il packeging che accompagna
il disco è molto semplice ed è in forma cartonata, mentre l’artwork risulta ad
opera di Blériotte.
Il
quartetto si presenta subito coeso in “Sunday Theraphy”, canzone dalla ritmica
spezzata ed interessante. Frammenti di Mellotron fanno capolino su una base
prettamente sorretta da tastiere, il profumo degli anni ’70 aleggia nell’aria,
pezzo ben strutturato e armonioso. Un intro Jazz Fusion apre “Le Réveil” in
maniera quasi sorniona per poi aprirsi in scale decise ed efficaci. Come avrete
capito nelle canzoni non ci sono chitarre, tuttavia qui si può estrapolare
qualche influenza King Crimson e Gentle Giant. I brani sono adiacenti come in
un'unica suite. Il gioco a doppia tastiera ha un fascino davvero intenso,
qualche volta una gioca il ruolo di ritmica, un poco come fanno i Supertramp,
anche se qui della band di Davis non c’è quasi nulla, piuttosto molto del
gigante gentile. Le fughe sonore improvvise a spezzare l’ascolto sono
decisamente un valore aggiunto.
Attaccato
giunge “Plastic Lizard”, pezzo ricercato
ricco di cambi di tempo, alcune soluzioni derivano quasi dall’improvvisazione.
Dei passaggi mi fanno venire alla memoria composizioni di gruppi svedesi come i
Kaipa o i Sinkadus. Intensa l’apertura di “Xzioz”, altra dimostrazione
dell’intesa fra i componenti della band. Qui molto materiale per il Prog fans
che ha di che ascoltare. Ottima la parte centrale che rimanda anche ai nostrani
Goblin.
Sale
ancora il ritmo in “Tourmente Des Nombres” ma è soltanto un momento per poi
scorrere via sorniona, da apprezzare anche il lavoro del basso. Il brano più
breve dell’album con i suoi tre minuti e trentotto secondi s’intitola
“Bacchanales Bucoliques”, breve ma di personalità, lo stile dei Scherzoo è ben
definito. La lunga suite prosegue con “Le Baron Perché”, rispetto a tutto il
materiale sino ad ora ascoltato si può dire che questo è uno dei momenti più
melodici del disco, anche se non esiste una vera e propria ballata all’interno
ma soltanto momenti più pacati e ricercati. Suite a parte ci sono anche i
quattordici minuti conclusivi di “Tsunami”, grande dimostrazione di
composizione, groove e tecnica davvero notevoli.
“05”
si ascolta con piacere, non aggredisce mai e allo stesso tempo muta, sfugge. Un
lavoro onesto che fa di questa musica un gentile e rispettoso abbraccio al Prog
fans, sempre notoriamente esigente e mai sazio. MS
Qohelet
QOHELET
– Qohelet
Lizard
Records / Open Mind
Supporto: cd – 2020
Genere: Sperimentale
Quando
due personaggi importanti dell’ambito sperimentale italiano s’incontrano, non
possono che far scaturire forme d’arte
quantomeno inusuali. Il progetto Qohelet nasce dall’incontro del
polistrumentista friulano Alessandro Seravalle (Garden Wall, Officina F.lli
Seravalle) e del cantante/poeta bolognese Gianni Venturi (Altare Thotemico,
Moloch, Mantra Informatico).
La
musica è una forma d’arte che ha soltanto apparentemente delle regole, ossia si
basa su note con le quali si può comporre ogni tipo di sonorità. Dico soltanto
apparentemente perché pur essendo le note solamente sette, le soluzioni che
offrono sono immense, in quanto con la possibilità di poterle sostenere si ha
la classica situazione ad infinito.
Suoni
che mettono a disagio, disturbano, fanno riflettere, raccontano storie, una
rappresentazione adatta ad un vero e proprio spettacolo teatrale.
Il
Qoelet o Ecclesiaste, è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana, in
questo caso gli artisti lo adoperano come un messaggio mistico.
Lo
sviluppo del disco è avvenuto a distanza, i due musicisti in realtà non si sono
mai incontrati, Alessandro manda la musica e Gianni ci canta sopra tramite file
in rete. Dicono di Qohelet: “Con la voce mi sono accoccolato tra suoni e versi,
con melodie suoni mantrici e recitazione sospesa. (Gianni Venturi)”, “Un
dettato musicale lacerante si combina con i testi squartanti che divorano le
parole nel momento in cui esse sono pronunciate. Un disco che è un esperimento
di rottura dell’assurdo dell’esistere e l’assurdo dell’esistere è un tema
fondante delle parole di Qohelet. Una meravigliosa esperienza poetico musicale
destinata non a lasciare un segno ma a tracciare un solco di sangue nelle
parole che sprechiamo. Questo vostro e nostro Qohelet apre uno sguardo ancor
più disincantato sul nostro inferno dei viventi (Nicola Vacca)”, quest’ultima
descrizione è riportata anche all’interno del libretto che accompagna il cd.
La
metrica poetica di Gianni Venturi oramai è nota a tutti gli ascoltatori
minimamente amanti del Prog italiano, una voce graffiante, profonda, a tratti
sguaiata a seconda dell’occorrenza del caso, per poter dare vita alle parole,
mangiate e vomitate.
Sei
sono le tracce contenute per una durata totale di cinquanta minuti sonori.
Subito profonda la narrazione di Venturi su un giro di tastiere malinconico che
fanno da perfetto tappeto alla storia de ” Il Bipede Eretto”. Giochi di voci,
echi, squarciano le parole visionarie in un contesto surreale. Alienante e
psichico il lavoro di Seravalle, il fascino accresce se l’ascolto viene
effettuato a luci spente.
“Il
Sapiente Che Dice Di Sapere” ha una ritmica abbozzata dettata dalle voci sovra
incise, mentre Venturi urla la sua rabbia fra alti e bassi emotivi. Si passa
dal sussurrato al parlato sino al grido, oramai il cantante bolognese ci ha
abituati a queste straordinarie performance. “Avvinghiati A Un Algoritmo” ha maggiori
coralità, le tastiere s’improvvisano astruse compagne di viaggio per un
malessere che contagia l’ascolto, sensazioni scure e dolorifiche. La traccia
più lunga si intitola “Moto Perpetuo” grazie ai suoi dieci minuti. Canti
sciamani, profondità di suoni avvolgono l’ascolto.
“21
Grammi” è un perfetto equilibrio di effetti, suoni a loop e voci che sembrano
strumenti. A mio parere il brano più interessante dell’album. Chiude “Fame Di
Vento” altra vetrina, l’ennesima, per la
bellezza dei testi di questo poeta che sembra essere un vulcano in eruzione
senza fine. Fondamentali restano tuttavia per la riuscita i suoni di Alessandro
Seravalle. Voglio fare i miei sinceri complimenti alla Lizard Records/Open Mind
perché è una finestra aperta in una stanza chiusa, quella del mercato della
musica scontata, la label si getta sempre anima e corpo su questi progetti che lacerano
di netto le regole del mercato musicale. Serve coraggio e lo so bene.
Questa
è difficile definirla musica, perché non c’è da cantare, non c’è da
fischiettare, poco di armonioso da memorizzare se non suoni psichedelici e
improvvisati. Un lavoro che è rivolto ad un pubblico molto preparato, un
pubblico che esige emozioni forti. Viaggiare con la mente e pensare, ne avete il coraggio? MS
sabato 14 novembre 2020
Deadburger Factory
DEADBURGER FACTORY – La Chiamata
Snowdonia
Distribuzione: Audioglobe
Genere: Sperimentale
Supporto: Cd/libro – 2020
Quante
volte ci siamo guardati dentro non soltanto per capire noi stessi, ma anche gli
altri, uno sguardo dall’altra parte dello specchio. Da una parte c’è la realtà,
dall’altra la nostra psiche, la fantasia, i desideri ed i ragionamenti che ci
poniamo quotidianamente. Sono passati sette anni dal monumentale triplo
cofanetto dei Deadburger Factory “La Fisica Delle Nuvole”, incredibile sforzo artistico
che ha analizzato il proprio essere, la parte dentro di noi, oggi con “La
Chiamata” la band di Vittorio Nistri vuole scrutare l’altro lato, quello della
realtà esterna. Nel booklet de “La Fisica” c’era un disegno di Paolo Bacilieri
che rappresentava Alice che entrava nello specchio, qui Alice spunta dall’altra
parte. Ed ecco che anche i suoni sono completamente differenti, quelli passati
si affidavano ad archi, flauto e chitarre acustiche, qui invece assenti (tranne
una chitarra in un brano) a vantaggio di strumenti più adatti alla cruda realtà
caotica ossia tamburi (veramente tanti), sax indemoniati e contrabbassi
percossi sul legno solo per farvi alcuni esempi.
Siamo
proprio dall’altra parte.
La
musica dei Deadburger Factory è sperimentale come sempre, sono venti anni che
il progetto esiste realizzando sei lavori, colonne sonore per spettacoli
teatrali, collaborazioni con scrittori, fumettisti e molti musicisti. Il nucleo
base di Deadburger è formato da Vittorio Nistri (elettronica, tastiere, arrangiamenti,
testi), Simone Tilli (voce), Alessandro Casini (chitarra) e Carlo Sciannameo
(basso), ma nel disco compaiono numerosissimi special guest, almeno una
ventina. Il parco percussioni è colmo di grandi musicisti, ci sono Zeno De
Rossi (Vinicio Capossela e molti altri), Cristiano Calcagnile (Cristina Donà e
molti altri), Bruno Dorella (Bachi Di Pietra e molti altri), Simone Vassallo
(Caveiras e molti altri) e Marco Zaniniello (Appaloosa, Honko) oltre che ai tre
batteristi Deadburger Silvio Brambilla, Lorenzo Moretto e Pino Gulli. Avrete
già intuito la potenza sonora che sprigiona questo nuovo concept. E poi
jazzisti, cantanti e una sezione fiati con Enrico Gabrieli e il sax di Edoardo
Marraffa.
Il
personaggio che è al centro della storia è uno sciamano, Alfio Antico offre la
sua voce all’occorrenza nel brano “Tamburo Sei Pazzo”. Esso si trova in un
centro commerciale, il suo aspetto è da cinquantenne malconcio, come lo si può
ammirare nella copertina ad opera di Paolo Bacilieri (grafica di Gabriele
Menconi e testi di Vittorio Nistri) con uno sguardo da folle. Il suo
atteggiamento è incomprensibile, batte il tamburo come in un rituale, con la
speranza che il suolo si possa spaccare per eruttare sulla gente che lo deride
e che lo fotografa con i telefonini. In realtà lo sciamano vuole far uscire dal
pavimento un qualcosa che bruci la cattiveria dalla testa della gente che
malgrado il lockdown e il desiderio di tornare ad una vita normale, dimostra ancora
maggiore aggressività, dura con il prossimo ed intollerante. Il tema è più che
mai attuale e veritiero.
Ma
il tamburo sembra non funzionare e lo sciamano se la prende con lo strumento,
tuttavia c’è uno spiraglio di positività, l’uomo si promette che “domani andrà
meglio”… O forse no.
La
cosa che sbalordisce di più è tutto il packaging che accompagna il disco, esso
contiene anche un mini poster ma soprattutto un libro con 62 facciate! C’è
molto da leggere, molteplici storie soprattutto sui tamburi il tutto per
entrare con entrambi i piedi dentro l’operato sonoro, tuttavia lascio questo
compito a voi per non rovinare tutta la sorpresa, visto poi che ho già molto
svelato.
Veniamo
alla musica, il disco è composto da sette brani roboanti, duri, anche nei testi
di Vittorio Nistri e cantati da Simone Tilli ad iniziare da “Onoda Hiroo”,
canzone dalla cadenza Punk. Sopra una ritmica ipnotica e cadenzata giunge “Un
Incendio Visto Da Lontano”, intervallato di tanto in tanto da un bel solo di
piano. Noto per approccio anche vocale alcune similitudini con la musica degli
Altare Thotemico, lo dico per chi li conoscesse.
Una
chitarra elettrica introduce la title track “La Chiamata”, arrabbiata al punto
giusto, con cambi di tempo, sforzi vocali e coralità incisive. Il riff è molto
orecchiabile, così come l’esposizione del testo. Nel finale anche sax tenore e
un frammento di Jazz. Inizio psichedelico per “Tryptich”, rivisitazione di un
brano di Max Roach. Esso in origine è un canto di rivoluzione per sola voce e
batteria. Qui Cristiano Calcagnile e Zeno De Rossi alla batteria dialogano con
voci, grida ed altre percussioni, tutto
ciò potrebbe benissimo risiedere nella discografia degli Area. La partitura è
polifonica.
“Tamburo
Sei Pazzo” vede lo sciamano in azione in un parlato dalla cadenza sicula. Il
brano è diviso in quattro parti, narrate e strumentali, un approccio molto
“progressivo” e ricercato, soprattutto nella sezione dei fiati. Per la prima
volta compare la chitarra acustica in “Manifesto Cannibale”, canzone
psichedelica di nove minuti e forse anche la più “popolare” dell’album come la
conclusiva “Blu Quasi Trasparente”, ancora una volta slalom fra formula canzone
e ricerca sperimentale. Buoni gli arrangiamenti e le coralità.
“La
Chiamata” è un lavoro davvero consistente, coraggioso e di personalità, i
Deadburger Factory hanno scritto una pagina importante , così hanno prodotto un
lavoro che a dire esaustivo è davvero riduttivo per i motivi citati sopra. Curiosità,
tutti i brani sono a doppia batteria.
Sciamano,
aiutaci a togliere le scorie dai cervelli per essere veramente migliori, come
ci auspicavamo nel lockdown, pensaci tu con il tuo tamburo perché noi da soli
non ne siamo capaci.
Deadburger
Factory, alla prossima opera! MS
lunedì 9 novembre 2020
Faro
FARO – Luminance
Andromeda Relix
Genere: Progressive Metal
Supporto: cd – 2020
Fra
Chieti e Pescara nel 2007 nasce il
progetto Faro, grazie ad un idea di Rocco De Simone (voce, tastiere). Nel 2011
con l’album “Gemini” i Faro si fanno notare per un Metal Prog molto intrigante,
raccogliendo consensi sia di pubblico che di critica. Il trio Rocco De Simone,
Angelo Troiano (chitarra, tastiere, basso) e Fabrizio Basco (chitarra) come
guest, approdano all’Andromeda Relix di Gianni Della Cioppa, sempre vigile a tutto
ciò che accade nel mondo musicale nel suolo italico. Il sound Faro nel 2020 si
smussa ma non perde di energia e questo lo si può constatare anche nella
visione del videoclip che anticipa l’album “Luminance” dal titolo “Fragments”.
Il
disco suddiviso in sette tracce si apre con “Pure”, sin dalle prime note
sgocciolate di chitarra ciò che balza all’orecchio è una buona incisione,
mentre il sound è in bilico fra gli anni ’80 ed il Post Prog. Tanta melodia
semplice da immagazzinare, sensazioni che alcuni di voi aventi una certa età
hanno già provato nell’ascolto di certa New Wave.
“Fragment”
palesa il lato Metal che antecedentemente definivo smussato, un gradevole gioco
di stili che rendono la canzone misteriosa ed affascinante grazie anche ad
arpeggi ed effetti sonori. “December” si apre con altri effetti e riverberi,
nel suono aleggia sempre un velo di malinconia mentre la voce pacata non cerca
mai di essere un aggiunta standard al sound, piuttosto uno strumento che bene è
spalmato nella fetta sonora. Non sono a conoscenza se la band abbia mai
ascoltato i Type O Negative, tuttavia qualcosa si può accostare per certe
soluzioni proposte, questo anche in “Lucas”. Musica curata nei particolari,
raffinata, mai caotica, tutto è sistemato nel posto giusto al momento giusto,
un grande esempio lo si ha in “Tears” dove la melodia la fa da padrona e gli
arrangiamenti sono il valore aggiunto.
Il
brano più lungo dell’album supera i sette minuti e si intitola “Down”, qui i
Faro cercano cambi di ritmo pur rimanendo sempre dentro canoni grevi ed oscuri.
Proprio come rappresenta l’artwork ad opera di Pino Giannini. Di tanto in tanto
rasoiate Metal a spezzare arpeggi lievi, il tutto sopra una ritmica curatissima
e sincopata. Nei tre minuti di “Autumn” è palesata molta personalità oltre che
una spiccata arguzia nel compore melodie orecchiabili. “Luminance” chiude
l’album che per titoli e in certe occasioni sonore possono far venire in mente
anche i nordici Soen.
Un
disco maturo a dimostrazione della crescita artistica dei Faro, un mondo sonoro che grazie
a quel velo di malinconia sembra essere avvolto nel mistero e nell’emotività,
prerogativa per un viaggio mentale affascinante da non mancare. MS
Il Tusco
IL TUSCO – Abbandonare La Città
Andromeda Relix
Distribuzione: G.T. Music
Genere: Rock
Supporto: cd – 2020
Come
sappiamo tutti perché lo stiamo ancora vivendo in diretta, il Covid ha reso la
nostra vita molto più difficile, settaria e in alcuni frangenti addirittura
monastica. Tutto si è ripercosso soprattutto contro il mondo artistico, in cui
il distanziamento ha fatto da mannaia fino a bloccare ogni tipo di evento. Il
musicista che vive di concerti è il primo ad aver subito questo interminabile
torto. Durante il lockdown molti si sono riversati sui strumenti per ingannare
questo tempo di reclusione, creando molto, ad esempio il cantautore valdostano
Diego Tuscano in arte Il Tusco ha pensato e composto “Abbandonare La Città”
proprio come una sorta di fuga dalla realtà, per ritrovare nella musica la
purezza dell’infanzia.
Apprezzato
artista nella band SanniDei, Il Tusco realizza da solista nel tempo tre album a
partire dal 2015 sino a giungere oggi a questo quarto capitolo formato da otto
tracce sonore. L’album viene registrato nel giugno 2020 e potete capire dopo un
lungo periodo di astinenza sonora quello che si può provare nel ritrovarsi
assieme e poter suonare guardandosi negli occhi. La gioia è immensa e questa si
ripercuote inevitabilmente sull’esito del lavoro. Gli autori di questo incontro
sono Diego Tuscano (voce), Gianluca Chamonal (batteria), AleAlle (basso) e Erik
Noro (chitatra).
Il
Rock proposto è elegante, non mancano sia riferimenti al passato che al
presente, uno sguardo a 360 gradi nel mondo del Rock e nelle basi del Blues.
Riff
classici riversati in “L’Ultimo Film Porno”, brano apripista dell’album con un
solo di chitarra che spettina per intensità. Qui siamo sul classico, un
territorio sonoro rassicurante e comunque ruvido come sapeva fare il grande
Ivan Graziani nei suoi momenti migliori. Perché il Rock è questo, semplicità e
sincerità, ed il concetto è assolutamente amplificato in “Abbandonare La
Città”, vero pezzo che potrebbe risiedere nella discografia del rocker
abruzzese/marchigiano. “Dolce Sorriso” ha un sapore più vintage, Il Tusco ne è
buon interprete vocale con la sua voce pulita e mai sguaiata.
Scusate
se ritorno a parlare di Ivan ma “Strada Contromano” per un fans come me è un
pugno nostalgico allo stomaco. Questa è una ballata non scontata, ricercata ed
elegante con quel velo di malinconia che si posa sulla mente come un banco di
nebbia. Ritorna il ruvido e quatto Rock in
“Animaccia Mia”, testi non scontati con metriche differenti, un insieme
rispettoso del genere senza mai risultare banale, un pregio grande
difficilmente riscontrabile oggi. Otto minuti per uno dei spaccanti più alti
dell’intero lavoro. “Mostro” è un bello sberleffo irriverente, una storia
schietta ricca di passaggi sonori che fanno da evidenziatore al tutto il
concetto.
Fuoco
alle polveri con “Dosi Omeopatiche”, vi ritroverete a muovervi durante
l’ascolto a vostra insaputa, magia del Rock. E per concludere “Il Trionfo Di
Hobbes”, brano ricercato, suadente, mutevole e perché no anche psichedelico in
alcuni momenti. Apprezzo molto il solo di basso, finalmente qualcuno che lo
registra! Quando la chitarra elettrica parte c’è di che godere per l’atmosfera
creata.
Sono
passati 45 minuti come fossero stati 5 e questo già basta per farvi capire che
disco è “Abbandonare La Città”, ed ora scusatemi che vado a premere di nuovo
play. MS
Silenzio Profondo
SILENZIO PROFONDO – Ritornato Dall’
Incubo
Andromeda Relix
Distribuzione: G.T.Music
Genere: Heavy Metal
Supporto: cd – 2020
In
Italia dobbiamo essere fieri della numerosa qualità delle band Metal, siamo al
cospetto di tante piccole realtà che colpiscono il segno con dischi
professionali e di ottima qualità. Il Metal sappiamo bene che è un genere di
nicchia, ma soprattutto tacciato di vita breve negli anni ’80 dagli “espertoni”
musicali che scrivevano allora nelle riviste musicali. E invece eccoci sempre qua,
fra mille difficoltà, sappiamo bene che
la musica oggi non la compera più nessuno, ma la passione e la tenacia sono intaccabili.
Il tutto potrebbe sintetizzarsi in: Amore per la musica.
Dopo
la luttuosa perdita a causa di un incidente stradale del chitarrista Matteo
Fiaccadori la band fa gruppo attorno a se per omaggiare e portare avanti il
progetto sonoro con più motivazione che mai, questo prima dell’album d’esordio. Oggi sono formati
da Maurizio Serafini (voce), Gianluca Molinari (chitara), Manuel Rizzolo
(chitarra), Tommaso Bianconi (basso) e Alessandro Davolio (batteria).
I
Silenzio Profondo li incontriamo nuovamente dopo tre anni dal buon “Silenzio
Profondo” (Andromeda Relix) più in forma che mai. Il tempo aiuta la maturazione
della band della provincia di Mantova. Il nuovo album si intitola “Ritornato
Dall’Incubo” ed è formato da nove canzoni. Ciò che salta subito all’orecchio è
la scelta del cantato in lingua italiana, in questo periodo davvero
controcorrente. Personalmente ritengo questa scelta indovinata, la comprensione
maggiore dei concetti espressi è un valore aggiunto. I testi sono importanti,
così quanto la musica.
“Incubo”
è potente e con un solo di chitarra che rimanda alla memoria la band Iron
Maiden, non dimentichiamo le radici del gruppo proveniente da anni di concerti
cover (Metallica, Iron Maiden, Judas Priest). Questo è servito per un
importante base di partenza su cui costruire la struttura musicale attraverso
la propria personalità. Gli anni ’80 fuoriescono anche dalle note di
“Supernova”, la voce di Serafini è pulita oltre che ottima interprete dei
testi, intelligente la scelta di non impelagarsi in pericolose scale alte.
Il
territorio New Wave Or British Heavy Metal sembra far trovare i componenti a
proprio agio, come navigate star del contesto, la conferma proviene da “Falsa
Illusione”. Tempo cadenzato (mid tempo) per “Danza Macabra”, canzone molto
sentita ed interpretata in modo quasi recitato. Interessante il ritornello,
perché non dimentichiamoci che stiamo ascoltando un gruppo italiano, quindi con
la melodia incastonata nel dna.
Judas
Priest in cattedra con “Elettroshock”, la buona musica non morirà mai questo è
poco ma sicuro, bene lo sanno i Silenzio Profondo. “Nella Tela” nulla aggiunge
e nulla toglie a quanto detto, mentre “Veleno” è un ottimo strumentale che
spazia nei cambi di ritmo e di umore, vetrina per le doti tecniche dei
strumentisti. “Solo Carne, Solo Sangue” è la canzone più lunga dell’album
grazie ai sette minuti di durata. Qui scusate il gioco di parole con il titolo
ma c’è davvero tanta carne al fuoco, la band dimostra di aver assimilato al
100% la lezione dei vecchi maestri. Per chi vi scrive è il pezzo più bello in
assoluto dell’album, una semi ballata davvero ben congeniata dove la voce è al top, davvero emozionante. Il
disco si conclude con “Ri(tor)nato”, perfetto suggello di un lavoro che al suo
interno gode di ottime idee oltre che di una buona registrazione. Complimenti.
MS
The C.Zek Band
THE
C. ZEK BAND – Samsara
Andromeda
Relix
Distribuzione:
G.T. Music
Genere:
Rock – Blues
Supporto: cd – 2020
Essere
liberi come il Rock, questo è un augurio che faccio a tutti voi con il quale mi
piace iniziare questa recensione, perché la libertà è creatività, gioia, in
parole povere è vita. Il Rock è vita, si ha alcune regole derivate dalle basi
Blues e quindi la sua bella storia, ma è un genere che mai si è sopito sugli
allori. Ha centinaia di derivazioni, e di base è puro, cristallino, una
sorgente dove dissetare anima e corpo.
In
Italia esistono molte band che fanno del Rock uno stile di vita, una di queste
si chiama The C. Zek Band. Si formano nell’ottobre del 2015 dopo la scissione
del trio Blues Almost Blue grazie all’idea del chitarrista cantante e
compositore Christian Zecchin. Amanti del Rock Blues contaminato anche da Hard,
Funky e Soul, la band si contorna di musicisti validi e tecnici in questo nuovo
lavoro intitolato “Samsara”, secondo album dopo il debutto di “Set You Free”
del 2017.
Nelle
nove tracce proposte ci sono richiami al passato, come certa Psichedelia degli
anni ‘60/’70 con stili vicini a Jimi
Hendrix, John Coltrane, Santana, Alman Brothers, Pink Floyd, Beatles e molti
altri ancora.
La
formazione è composta da Christian Zecchin (chitarra, voce), Roberta Dalla
Valle (voce), Nicola Rossin (basso), Matteo Bertaiola (tastiere) e Enea Zecchin
(batteria).
Lo
stile di vita e lo spirito libero è immediatamente palese nell’ascolto di “In The Storm”, brano
aperto, arioso, semplice e diretto al bersaglio. L’interpretazione di Roberta
Dalla Valle è schietta, mentre la chitarra elettrica svolge il ruolo di
protagonista. Il Rock sudista americano si presenta in “Each Day A Crossroad” e
qui è Christian Zecchin a duettare con
Roberta. Il frangente strumentale è notevole, con il rispetto del passato e una
grande apertura al tecnicismo mai fine a se stesso. Greve e cadenzato “Another Train” fra Hendrix,
Steve Ray Voughan e Allman Brothers, protagonisti di un tempo mai andato, un
piacere riscontrarlo anche nel 2020. Sappiamo che la chitarra è il simbolo del
Rock, e la The C.Zek Band sa bene come esprimere il concetto oltre che estrapolarne
il meglio.
“Black
River” non si discosta da quanto ascoltato sino ad ora, per avere un piccolo
mutamento di direzione giunge “This Is The Right Day To Cry”, ballata Blues
veramente sorniona ed intrigante, ancora una volta Voughan è presente, il suo
spirito malgrado la dipartita fisica è sempre presente fra le note. I brividi
scorrono sulla pelle. A questo punto giungono i due capitoli “Samsara”, parte 1
e parte 2, qui la band mostra il lato più creativo del suo modo di esprimere il
genere, “Part1” è tastieristica e psichedelica, uno spezzare l’ascolto che fa
bene alla fluidità dell’insieme, mentre “Part2” in certi versi si può definire
Progressiva. Due strumentali che da soli valgono l’acquisto del disco. Ritorna
la voce di Roberta in “Feel So Good”, così il profumo degli anni ’70 si
conclude con il brano più lungo (otto minuti) intitolato “Stolen Soul”, altro
spaccato più ricercato del sound C.Zek Band.
Un
disco che sa raccontare una storia mai sopita, alzare la polvere come solo il
Rock sa fare, un lavoro che può essere sia colonna sonora di un viaggio che
amico di serate in compagnia. Facile all’ascolto ma credetemi se vi dico che
una cosa facile paradossalmente non è semplice da concepire, questa è prerogativa solo di pochi. Buon ascolto. MS
Iscriviti a:
Post (Atom)