Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO

Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO
La storia dei generi enciclopedica

lunedì 28 dicembre 2020

martedì 15 dicembre 2020

Anandammide

 

ANANDAMMIDE – Earthly Paradise        
Lizard Records
Genere: Psichedelia Folk/Progressive Rock
Supporto: cd – 2020




C’è un album del 2003 che ricordo con estremo piacere e che ascolto ancora oggi di tanto in tanto, si intitola “Thirteen Tolls At Noon” (Lizard) ed è della band italiana Floating State. Non mi sono mai spiegato perché dopo un così interessante e ben fatto debutto, una band del genere non abbia proseguito il cammino. Stupito si ma non più di tanto, il mondo Prog è pieno di ottime band che rilasciano nel corso della loro esistenza un solo album, questo accade già a partire dagli anni ’70.
Nei Floating State al microfono c’è Michele Moschini e con piacere lo ritrovo oggi grazie alla Lizard Records autore di questo nuovo progetto internazionale denominato Anandammide. Il nome così complesso sta a definire un tipo di droga endocannabinoide recentemente scoperta nel 1992 nel laboratorio di Raphael Mechoulam dell’Università di Gerusalemme.
Il progetto getta le basi nel lontano 2007, ma vede prendere forma concreta nel 2017 quando a Moschini si aggrega il bassista britannico Owen Thomas. Per realizzare “Earthly Paradise“, il polistrumentista di Bari si circonda di artisti come Adrien Legendre (violoncello), Audrey Moreau (flauto), Stella Ramsden (violino, voce) e Pascal Vernin (basso). La musica proposta aleggia fra la psichedelia ed il Folk, con annesse influenze progressive.
Il disco si apre con un intro acustico folcloristico dal sapore antico e la voce narrante di Stella Ramsden intitolato “Singer Of An Empty Day” per passare subito alla title track “Earthly Paradise”. Atmosfere pacate  fanno sognare e ricordare i tempi di Simon & Garfunkel, il violoncello apporta all’insieme profondità mentre i fiati donano ventate di freschezza bucolica. Per chi li conoscesse dico che siamo ai livelli dei canadesi Harmonium, band culto del genere Prog Folk anni ’70.
“Lady Of The Canyon” si apre con arpeggi di chitarra acustica, la voce è sognante e soave, supportata da coralità che conducono l’ascolto verso mondi color pastello. Tutto il cantato è in lingua inglese.
Violoncello per “Porsmork”, ballata medioevale che nel proseguo lascia spazio alla bella voce di Moschini, il tutto sempre in maniera pacata e composta. Il mondo acustico prosegue con la breve “Anandi”, un piccolo riferimento a quello di Syd Barrett, qui il tempo sembra essersi fermato alla fine degli anni ’60. “Electric Troubadour” è decisamente english, lande verdi si stagliano all’ascolto fra flauti, violoncelli, chitarre e percussioni sempre pacate. In “Pilgrims Of Hope” la strumentazione cambia, questa volta fanno capolino anche le tastiere, ma non la sostanza.
“Satori In Paris” è un altro tassello Barrettiano e guarda caso il brano a seguire si intitola proprio “Syd”. “Iktsuarpok” e la conclusiva “Colette The Witch” suggellano il disco con tutti gli ingredienti descritti sino ad ora.
Un lavoro che non lascia spazio a schitarrate elettriche, a rullate di tamburi, bensì un magico tappeto volante su cui sdraiarsi e farsi trasportare in luoghi col
orati ricchi di pace ed amore, il tutto senza l’ausilio del  tempo. MS




sabato 12 dicembre 2020

Fabrizio Tavernelli

 

FABRIZIO TAVERNELLI – Homo Distopiens
Lo Scafandro
Genere: Cantautore - Alternative
Supporto: cd – 2020




Nel 2020 è difficile imbattersi con un cantautore, ce ne sono diversi direte voi ed è vero, ma sempre molto pochi rispetto a decine di anni fa. Non passano quasi mai per radio meno che meno in tv, al limite propongono sempre i soliti noti. Eppure sotto nell’underground c’è sempre fermento, basta cercare.
Fabrizio Tavernelli tuttavia non è assolutamente un nome nuovo nel campo musicale, anzi è  radicato nel tempo, inizia la carriera artistica negli anni ’80 con la band  En Manque D’Autre per poi passare negli Acid Folk Alleanza per tutti gli anni ’90. Ma ciò che lo rende più noto è la carriera solista composta da cinque album che intingono anche nel Rock alternativo.
Sagace, profondo, lungimirante, arguto, molti gli aggettivi che si addicono all’artista di Coreggio, la sua musica è importante in maniera equiparata ai testi, vera arma a sua disposizione. In questo ultimo lavoro intitolato “Homo Distopiens” si narra proprio dell’ ultima categoria umana, dopo l’uomo sapiens ecco giungere l’ultimo anello della nostra esistenza, ma forse proprio l’ultimo, ultimo! Dopo l’era della pietra, del bronzo, del ferro etc. oggi siamo in quella della plastica. L’uomo si autoinfligge guerre, inquinamento e chi più ne ha più ne metta, costringendolo probabilmente (ma questo vale soltanto per chi ha la possibilità economica) a fuggire dalla terra. Qui in questo pianeta resteranno probabilmente soltanto robot e creature che si sono adattate ai cambiamenti sia climatici che virali, oltre i virus stessi.
Tutto questo scenario è raccontato nel lavoro suddiviso in dodici brani contenuti in una elegante ed esaustiva edizione cartonata. Il disco si apre con un brano di oltre sei minuti del quale l’autore ne trae anche un video e si intitola “Cose Sull’Orlo”. La pacatezza dei suoni avvolti in una magica sfera psichedelica e la bella voce rilassata di Fabrizio, fanno contrasto con la durezza dei testi, una  drammatica narrazione di cose ed animali sull’orlo della loro estinzione. Certe chitarre sostenute e  tappeti tastieristici ricordano alcuni lavori di Steven Wilson. Sale il ritmo con “Distopia Muscolare” e prosegue l’apocalisse umana, uno scenario terrestre davvero desolato, un suggerimento dell’artista è quello di “…andarsene da questo mondo che ormai muore”. “Con Tormentoni E Tormenti” il suono è adagiato nell’elettronica Post Punk, la ricerca sonora è palese e nel dna di Tavernelli. Gli anni ’80 inoltrati sono presenti, e nella mia mente sopraggiungono frammenti di artisti passati come i nostrani Krisma.
Ritornano i suoni pacati in “Lune Cinesi”, buoni gli arrangiamenti anche per il gioco corale degli eco vocali. La melodia la fa da padrona, il gusto per l’armonia è marcato nella musica di Tavernelli. Chitarra acustica in apertura per “Spire”, brano ancora una volta avvolto nella Psichedelia, qui a tratti si hanno reminiscenze di Daniele Silvestri. Intrigante ed estroverso, è quasi un ossimoro fra musica e parole per un risultato affascinante, anche nel finale arabeggiante. Un coro di voci, quelle del Coro della Cappella Musicale San Francesco da Paola di Reggio Emilia diretto da Silvia Perucchetti, ci aprono un brano davvero profondo e magico, “Oumuamua”. La voce sussurrata e recitante spinge l’ascoltatore in uno scenario quasi cinematografico, mentre la tromba ha la capacità di addentrarci nel mondo magico di Ennio Moricone. Questo è uno dei brani più sperimentali e ricercati dell’album, davvero molto interessante. Ritorna il pessimismo cosmico in  “Il Mondo Senza Di Noi” altra analisi di un mondo privo di umanità. Il cantautore si apre introspettivamente all’ascoltatore nel brano “Secondo Fine”, mettendo a nudo alcuni lati del suo carattere, il tutto su una musica malinconica e ottimamente arrangiata grazie soprattutto all’uso della viola di Osvaldo Loi.
Sensazioni maggiormente grevi sopraggiungono in “L’Uccello Giardiniere”, cadenzata e lenta rappresentazione sonora di classe. A seguire la canzone “Pessimismo Co(s)mico” è più allegra, ma non per il testo e nuovamente Silvestri aleggia nell’aria. Torna la sperimentazione in “Ruscarola”,cantata in dialetto emiliano, qui la ricerca e la voglia di osare è palese,  mentre “Bargigli E Pappagorge” parla della vecchiaia in maniera graffiante e ruvida. Degno finale di un disco che ci ha vomitato addosso tutto il disagio umano, il pessimismo cosmico e solo a tratti piccoli spiragli di sole.
La musica di Fabrizio Tavernelli fa riflettere, un cantautore sempre attento al sociale e all’apertura mentale, questo fa di lui un artista non soltanto preparato, ma intelligente. Ascoltate perché ve lo consiglio. MS




sabato 28 novembre 2020

Rick Miller

RICK MILLER – Unstuck In Time
Progressive Rock Records
Distribuzione: G.T.Music
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2020




Prosegue come una macchina schiacciasassi la vena compositiva del polistrumentista canadese Rick Miller, inesauribile talentuoso artista che da poco ha rilasciato l’album “Belief In The Machine” (2020 - Progressive Promotion Records). Il periodo di lookdown ha permesso a Miller di comporre ancora più alacremente, riuscendo quindi a realizzare un nuovo album a distanza di pochi mesi dal precedente. Il  titolo è “Unstuck In Time”, un poco lo scrollarsi di dosso il tempo che passa, un viaggio introspettivo che si svolge in nove tracce.
Assieme a lui suonano Barry Haggarty (chitarra), Kane Miller (violino, chitarra), Mateusz Swoboda (violoncello), Sarah Young (flauto) e Will (batteria).
Il mondo di Miller è un posto incantato per un Prog fans, dove le sonorità si associano a gemme senza tempo. I punti di riferimento sono sempre gli stessi, Genesis, Pink Floyd e Moody Blues su tutti.
L’apertura del disco è lasciata a “The Plauge” e alle sue chitarre “Pinkfloydiane”, il brano più lungo con dodici minuti e mezzo di durata. La voce è posata, quasi sussurrata in alcuni momenti. Un passaggio psichedelico si scontra con un movimento ecclesiastico per coralità ed il violino di Kane Miller, un mondo dal profumo antico dove in aggiunta il mellotron fa da catalizzatore. Molto bello il crescendo sonoro con la chitarra elettrica dopo un lungo barcamenare con l’acustica. Qualche brivido scorre inevitabilmente sulla pelle di chi come me è cresciuto quotidianamente con questa musica. Per chi mi ha capito aggiungo anche che molto spesso all’ascolto ci si chiudono gli occhi ed ovviamente non per la noia. Più canzone “State Of The Emergency”, narrazione di una realtà drammatica, quella che stiamo vivendo quotidianamente. Da sottolineare i buoni arrangiamenti, il gusto per il bello Miller lo ha acquisito negli anni, oggi professionista totale. Tre minuti tastieristici con innesti di elettronica per “Covid Concerto”, il titolo è più che esplicito. Il classicismo dato dai strumenti ad arco ed il suono moderno delle tastiere assieme raggiungono un risultato affascinante. Le atmosfere si fanno più tristi e cupe in “Fateful Apparitions”, il ritmo iniziale è molto lento dando la sensazione all’ascoltatore di aleggiare in una sorta di sospensione. Nel proseguo le condizioni peggiorano in una sensazione quasi spettrale salvo riaprirsi verso il finale con un assolo di chitarra dove i Pink Floyd hanno regnato nell’olimpo degli immortali.
Uno spicchio di sole arriva con “La Causa”, brano dal sapore iberico per l’approccio della chitarra acustica. Botta di King Crimson all’inizio di “Lost Continuum”, il mellotron ancora una volta colpisce per poi lasciare immediatamente il palco al flauto di Sarah Young e al violoncello. Uno strumentale intenso per emotività. Ritorna l’elettronica con “In Sync Whit The System”, inizialmente potrebbe benissimo essere la sigla di un programma televisivo degli anni ’70, questo per farvi capire l’ambiente sonoro. Per chi è a conoscenza della band americana Lands End dico che qui ci sono molte analogie, soprattutto nell’approccio vocale. “Broken Clocks” lancia schegge di
Simon & Garfunkel, ma è un breve lasso di tempo, appena due minuti e mezzo per poi arrivare alla title track “Unstuck In Time”, mini suite finale. Qui risiede l’anima di Miller e tutto il suo bagaglio sia tecnico che culturale riguardo questa musica.
 Quindici dischi in studio, un risultato ragguardevole che testimonia la passione e la creatività del musicista in questione, non si può restare indifferenti avanti a musica del genere, ascoltare per credere. MS




Eye 2 Eye

EYE 2 EYE – Nowhere Highway
Progressive Promotion Records
Distribuzione: G.T. Music
Genere: Neo Prog
Supporto: cd – 2020




La Francia ha avuto molte band importanti in ambito Rock Progressivo, la storia ci lascia i Magma, gli Ange, i Minimum Vital, Mona Lisa, Pulsar ma moltissime altre anche negli anni a venire, quindi non soltanto nei ’70, ’80 e ‘90. Il Neo Prog francese è altrettanto fiorente ed interessante, gruppi come Drama, Saens, Aside Beside, Skeem e Nemo solo per fare alcuni nomi, ne sono la prova. Fra i più conosciuti ci sono anche gli Eye 2 Eye, quintetto composto oggi da Jack Daly (voce), Bruno Pegues (chitarra), Philippe Benabes (tastiere), Etienne Damin (basso, chitarra) e Didier Pegues (batteria). La loro musica è un incrocio fra il Prog sinfonico, con la psichedelia legata ai Pink Floyd.
“Nowhere Highway” è il quinto album in studio, ne sono già passati di anni dal buon debutto del 2006 intitolato “One In Every Crowd”. Oggi l’album è un concept dove il titolo principale (che si tramanda di brano in brano suddiviso in più parti) è “Ghost”.
“Ghost pt.1”  però è contenuto nel precedente album “The Light Bearer” edito nel 2017, quindi in “Nowhere Highway” si comincia direttamente con “Behind The Vail (Ghosts Pt.2)”. Il concept narra la storia di un artista il quale per trovare la sua vena creativa la ricerca purtroppo nel Whisky, ma bicchiere dopo bicchiere entra in coma. Qui giunge nell’”Autostrada del nulla” (Nowhere Higway) dove appunto inizia la lotta con i propri fantasmi per cercare di uscirne fuori per ritrovare la vena artistica sopita.
Nel viaggio sonoro si coadiuvano special guest quali Michel Cerroni (voce narrante e cori), Claudine Istri (cori), Marie Pascale Vironneau (violino) e Terry Lalet (flauto).
L’inizio psichedelico fa intendere attraverso la rumoristica che l’artista apre bottiglie per poi perdersi nei fumi dell’alcool, “Behind The Veil (Ghosts Pt.2)” può far venire alla memoria l’inizio di “Metropolis pt.3: Scenes From A Memory” dei Dream Theater, per aprirsi susseguentemente ad una parte strumentale prettamente Neo Prog, mellotron annesso. La chitarra elettrica ricopre nella fase terminale il ruolo di protagonista.
“The Hidden Muse (Ghosts Pt.3)” mostra la duttilità della voce di Daly, capace di adattarsi a qualsiasi tipo di situazione. Peccato soltanto per la batteria elettronica che a mio gusto personale in certi contesti proprio non ci entra. La parte strumentale centrale si fa perdonare tutto. Con “The Choice (Ghosts Pt.4)” si passa alla prima suite suddivisa in sei capitoli. Molta enfasi iniziale con influenze Clive Nolan, sia per le tastiere che per certi episodi sonori che si possono riscontrare durante l’ascolto di band come Arena o Shadowland. Teatralità, musica cinematografica e in qualche momento anche “Marillioniana” periodo Fish. Il Neo Prog necessita di questo come il pane e lo sa alternare a frangenti pacati con chitarre alla Gilmour, in parole povere gli Eye 2 Eye hanno capito bene la storia del genere, lo amano e lo rappresentano più che degnamente. Della suite apprezzo anche il solo di violino che si alterna alla chitarra elettrica, reminiscenze High Tide che però non credo i nostri amici abbiano richiamato volutamente perché gli stili non combaciano.
In “Moons Ago (Ghosts Pt.5)” tornano certi arpeggi alla Marillion, canzone piacevole e bene eseguita, a dimostrazione della preparazione dei componenti. Una tiratina d’orecchi alla qualità sonora di tutto l’album che ha un suono non proprio nitido ma leggermente offuscato nell’insieme, se la cosa è voluta va anche bene, ma non riscontra il mio ideale di suono. Il classico “De Gustibus” ma per onore di cronaca devo dirlo. Chiude il concept la suite “Nowhere Highway (Ghosts Pt.6)” con venti minuti spaccati di ottima musica bene orchestrata e bilanciata nei crescendo e calando. In questo caso sono gli IQ ad essere chiamati in causa, qui palesati in maniera convinta. Tante le belle emozioni.
Gli Eye 2 Eye hanno realizzato un gran bel disco, Neo Prog con i fiocchi, esempio di professionalità e capacità, ma occhio a certe sfumature perchè spesso fanno la differenza. MS
 
 

venerdì 20 novembre 2020

Fiaba

FIABA – Di Gatti Di Rane Di Folletti E D’Altre Storie
Lizard Records
Genere: Prog Folk Metal
Supporto: cd – 2020




Otto lunghi anni distanziano “La Pelle Nella Luna” a questo atteso ritorno intitolato “Di Gatti Di Rane Di Folletti E D’Altre Storie”. Ho sentito la mancanza del giullare narratore Giuseppe Brancato, della batteria folcloristica di Bruno Rubino e della chitarra di Massimo Catena. Sono ventisei anni che i siracusani ci raccontano favole, questo fa si che non si ha più la volontà di crescere, ma di lasciarsi travolgere da certi scenari e situazioni fantastiche, in fondo l’uomo è sempre stato un eterno bambino, semplicemente perchè la realtà è noiosamente squallida. Oggi a completare la band ci sono Graziano Manuele (chitarra) e Davide Santo (basso).
Voglio subito spendere alcune parole per l’artwork, questa volta superiore ai precedenti, il libretto che accompagna il disco è nutrito sia di testi, che di spiegazioni oltre alla foto centrale a tutta pagina, ma la cosa che ci tengo di più a sottolineare è il fatto che si legge tutto chiaramente, nero su bianco! Oggi trovare un booklet leggibile ad un cd è quasi un miraggio. Complimenti.
Ascoltare un disco dei Fiaba è distaccarsi dalla realtà, un momento di magia, ma che musica stiamo ascoltando? E’ Metal? E’ Folk? E’ Prog? Io di base la definirei Metal, le chitarre distorte lo certificano, eppure ha un fascino che cattura anche il Prog fans. Non ci sono tastiere, ma due chitarre elettriche, altro punto a favore del Metal, ma certi movimenti riportano quasi al medioevo, sonorità del passato che hanno il loro inossidabile fascino.
La voce di Brancato è una istituzione sempre possente ed impostata non tradisce mai, il cappello a tre punte torna a incantare sin da “La Gemella Tradita”. Il riff semplice si stampa in mente, nel brano molta storia del Metal passato, ma anche incantevole liricità. Un folletto birbaccione (forse Martinetto?) inverte le coppe di un vino avvelenato alle due sorelle, una di esse trama qualcosa di losco…
“La Rana E Lo Scorpione” è una ballata triste, la storia di una rana che aiuta uno scorpione ad attraversare il fiume portandolo sulla schiena, ma la sua indole naturale ed incontrollata lo conduce a trafiggere la rana alle spalle con il suo aculeo, così muoiono entrambi, lei avvelenata e lui affogato. Ritmo cadenzato per “Il Gatto Con Gli Stivali”, favola famosa bene arrangiata e supportata da un groove potente. Questi tre brani sono quelli concepiti più recentemente, a venire si susseguono pezzi sempre nuovi ma tratti da periodi differenti della loro lunga esistenza.
La medioeval Rock band prosegue con la breve “Il Re Bambino Del Paese Di Quissadove”, una simpatica danza irriverente fra l’acustico e l’elettrico con un Brancato in splendida forma. Segue un'altra ballata, questa volta malinconica che narra della storia del principe ranocchio, in questo caso però a parti invertite, “La Principessa Rana”. Ma i Fiaba sfoggiano altre influenze sonore, anche psichedeliche come nel caso di “La Brace Loro”. Essa è la leggenda della foresta di Paimpont nell’antica Broceliandia, attuale Bretagna.
Amano molto giocare con le filastrocche, come potrebbe essere altrimenti? Ecco quindi “Hambarabah Ciicci Cockoo”, classica filastrocca di un autore anonimo che abbiamo recitato tutti nella nostra vita. Ritmo sostenuto ed irresistibile, perfettamente atto ad una performance live coinvolgente. Torna la chitarra acustica in “Il Gatto Del Campo Dei Biancospini”, stramba ballata progressiva con un crescendo imponente in un continuo cambio umorale. Decisamente uno dei migliori momenti dell’intero album. “E’ Male” con i suoi venti secondi porta a “Dentro Il Cerchio Delle Fate”, di sicuro il brano live per eccellenza dei Fiaba, qui sfoderato il loro dna cristallino, ciò che si deve capire della band è sunto qui in questi quattro minuti. L’attenzione all’ascolto si sviluppa brano dopo brano in un prosperante piacere come se i Fiaba volessero rapirci e farci perdere nel bosco della fantasia. La chiusura è in mano a “I Passi Nel Solaio”, altra ballata malinconica spolverata di quella magia infantile che ci accompagna sempre, celata in un angolo del nostro cervello come se non volesse essere scovata per paura di essere strappata via. Degna conclusione di un disco altamente professionale, anche per qualità d’incisione.
Ha senso oggi nel 2020 raccontare ancora delle favole? Non vorrei sembrare polemico, ma in realtà ce ne raccontano quotidianamente, io però preferisco queste di folletti e di boschi. Un ritorno gradito e maturo, a mio giudizio “Di Gatti Di Rane Di Folletti E D’Altre Storie” è il loro migliore album, consigliato per un bel momento di relax. MS




Zaal

ZAAL – Homo Habilis
Lizard Records / Open Mind
Genere: Jazz Rock / Fusion
Supporto: cd – 2020




In questi anni non è che il tastierista Agostino Macor sia rimasto con le mani in mano, La Maschera Di Cera, Finisterre, Blunepal, Rohmer, Ombra Della Sera, The Chanfrughen sono soltanto alcune delle sue partecipazioni in ambito progressivo e dintorni. Tuttavia sono passati dieci anni dal secondo lavoro in studio intitolato “Onda Quadra” ed oggi si ripresenta al pubblico con un lavoro registrato in presa diretta durante alcune sessioni. Il risultato si intitola “Homo Habilis”, una ricerca sul rapporto uomo/macchina in questo periodo tecnologico moderno.
In prevalenza fra le note di questo album completamente strumentale scaturisce un Jazz Rock/Fusion molto interessante, ma le influenze sonore arrivano da ogni parte, World, Prog, cameristica, Ambient ed altro ancora, questo grazie anche agli ospiti che lo accompagnano in questo viaggio di otto motivi.
Una mini orchestra composta da  Emanuele Ysmail Miletti (sitar), Sergio Caputo (violino) Paolo Furio Marasso (contrabbasso), Melissa Del Lucchese (Violoncello), Francesco Mascardi (sax), Roberto Nappi Calcagno (tromba), Andrea Monetti (flauto) e Alessandro Quattrino (percussioni) sono la base della band. Gli ospiti sono importanti e conosciuti nell’ambito Rock Prog, Edmondo Romano (legni e fiati), Mau di Tollo e Federico Branca (batteria).
Le aspettative sono alte e non nascondo che personalmente ho un debole per le registrazioni in diretta, perché l’alchimia che si crea nello studio è più sentita che mai, suonare guardandosi negli occhi porta ad avere un intesa maggiore, una spinta che sa di sincera realtà emotiva. La classica marcia in più.
Le macchine hanno molteplici componenti così come il corpo umano, altra macchina perfetta che riesce però nel miracolo di creare emozioni con le mani e la mente. Capta nell’aria la chimica spirituale trasformandola in musica, sono entrambi cose invisibili ma reali, l’ascolto di “Meccanica Naturale” ne è schietta conferma. Sembra di stazionare nei primi anni ’70, il sitar dona un fascino psichedelico avvolgente.
Il pianoforte di Macor apre “Revéil (Post Big Bang)”, il brano più lungo dell’album grazie ai quasi otto minuti di durata. Il suono diventa cinematografico, l’ascoltatore spazia in queste quasi improvvisazioni fra fiati e percussioni, ripercorrendo la strada evolutiva dell’uomo.
Ritmica cadenzata, quasi un orologio che avanza sul tempo con il suo inesorabile ticchettio in “Presences”, la tromba di Nappi Calcagno mi fa ritornare alla mente certe sonorità dei Nucleus, questo lo dico per i più ferrati di voi in questo settore musicale. Il crescendo sonoro è trascinante, l’ensemble si intende a dovere, proprio a conferma del mio pensiero espresso sulla registrazione in diretta.
Le atmosfere si quietano, il sitar suona su di un tappeto di suoni fievoli all’inizio di “Homo Habilis”, brano ricercato con influenze mediorientali e ancora una volta in crescendo, questa formula funziona sempre. ”Jaime S*mmers” è un breve e pacato strumentale fatto di tastiere, il suo minuto accompagna a “Instruments”, vera e propria carovana di suoni. La ripresa di “Réveil” ancora una volta è una passeggiata nella ricerca sonora, quasi cameristica, mentre “Androids Void”  è la traccia Ghost che chiude l’album, qui c’è elettronica, il momento è quieto, spaziale e armonioso mentre il piano sgocciola note come se stessero riflettendo su dove cadere.
Un lavoro decisamente mirato ad un pubblico esigente, di certo non da ascoltare con superficialità, si rischierebbe soltanto di paragonarlo ad un fastidio. Serve silenzio ed il giusto approccio, quello della passione per la musica. MS





Scherzoo

SCHERZOO – 05
Lizard Records/Open Mind
Genere: Progressive Rock – Zeuhl
Supporto: cd – 2020




I Scherzoo provengono dalla Francia e precisamente da Lione. Si formano nel 2005 grazie all’idea del compositore e polistrumentista François Thollot. Inizialmente la formazione non trova molta stabilità, essa la raggiungono circa intorno al 2011, anche se nel tempo le pedine cambiano nuovamente, tuttavia nel frattempo la band si mette alle spalle molta esperienza suonando dal vivo.
La musica proposta è completamente strumentale ed è un mix di generi che spaziano dal Jazz Fusion  al sound di Canterbury, Zeuhl, RIO e Prog sinfonico classico. Come il titolo dell’album lascia presagire con “05” siamo al quinto sigillo da studio, mentre gli album precedenti hanno sempre il titolo con numero progressivo, iniziando da “01” che è dell’anno 2011.
La formazione oggi vede Clément Curaudeau alla batteria, Anthony Pontet alle tastiere e sintetizzatori, Grégoire Plancher al piano e Mellotron e François Thollot  al basso. Il packeging che accompagna il disco è molto semplice ed è in forma cartonata, mentre l’artwork risulta ad opera di Blériotte.
Il quartetto si presenta subito coeso in “Sunday Theraphy”, canzone dalla ritmica spezzata ed interessante. Frammenti di Mellotron fanno capolino su una base prettamente sorretta da tastiere, il profumo degli anni ’70 aleggia nell’aria, pezzo ben strutturato e armonioso. Un intro Jazz Fusion apre “Le Réveil” in maniera quasi sorniona per poi aprirsi in scale decise ed efficaci. Come avrete capito nelle canzoni non ci sono chitarre, tuttavia qui si può estrapolare qualche influenza King Crimson e Gentle Giant. I brani sono adiacenti come in un'unica suite. Il gioco a doppia tastiera ha un fascino davvero intenso, qualche volta una gioca il ruolo di ritmica, un poco come fanno i Supertramp, anche se qui della band di Davis non c’è quasi nulla, piuttosto molto del gigante gentile. Le fughe sonore improvvise a spezzare l’ascolto sono decisamente un valore aggiunto.
Attaccato giunge  “Plastic Lizard”, pezzo ricercato ricco di cambi di tempo, alcune soluzioni derivano quasi dall’improvvisazione. Dei passaggi mi fanno venire alla memoria composizioni di gruppi svedesi come i Kaipa o i Sinkadus. Intensa l’apertura di “Xzioz”, altra dimostrazione dell’intesa fra i componenti della band. Qui molto materiale per il Prog fans che ha di che ascoltare. Ottima la parte centrale che rimanda anche ai nostrani Goblin.
Sale ancora il ritmo in “Tourmente Des Nombres” ma è soltanto un momento per poi scorrere via sorniona, da apprezzare anche il lavoro del basso. Il brano più breve dell’album con i suoi tre minuti e trentotto secondi s’intitola “Bacchanales Bucoliques”, breve ma di personalità, lo stile dei Scherzoo è ben definito. La lunga suite prosegue con “Le Baron Perché”, rispetto a tutto il materiale sino ad ora ascoltato si può dire che questo è uno dei momenti più melodici del disco, anche se non esiste una vera e propria ballata all’interno ma soltanto momenti più pacati e ricercati. Suite a parte ci sono anche i quattordici minuti conclusivi di “Tsunami”, grande dimostrazione di composizione, groove e tecnica davvero notevoli.
“05” si ascolta con piacere, non aggredisce mai e allo stesso tempo muta, sfugge. Un lavoro onesto che fa di questa musica un gentile e rispettoso abbraccio al Prog fans, sempre notoriamente esigente e mai sazio. MS

Qohelet

QOHELET – Qohelet
Lizard Records / Open Mind
Supporto: cd – 2020
Genere: Sperimentale




Quando due personaggi importanti dell’ambito sperimentale italiano s’incontrano, non possono che far scaturire forme d’arte  quantomeno inusuali. Il progetto Qohelet nasce dall’incontro del polistrumentista friulano Alessandro Seravalle (Garden Wall, Officina F.lli Seravalle) e del cantante/poeta bolognese Gianni Venturi (Altare Thotemico, Moloch, Mantra Informatico).
La musica è una forma d’arte che ha soltanto apparentemente delle regole, ossia si basa su note con le quali si può comporre ogni tipo di sonorità. Dico soltanto apparentemente perché pur essendo le note solamente sette, le soluzioni che offrono sono immense, in quanto con la possibilità di poterle sostenere si ha la classica situazione ad infinito.
Suoni che mettono a disagio, disturbano, fanno riflettere, raccontano storie, una rappresentazione adatta ad un vero e proprio spettacolo teatrale.
Il Qoelet o Ecclesiaste, è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana, in questo caso gli artisti lo adoperano come un messaggio mistico.
Lo sviluppo del disco è avvenuto a distanza, i due musicisti in realtà non si sono mai incontrati, Alessandro manda la musica e Gianni ci canta sopra tramite file in rete. Dicono di Qohelet: “Con la voce mi sono accoccolato tra suoni e versi, con melodie suoni mantrici e recitazione sospesa. (Gianni Venturi)”, “Un dettato musicale lacerante si combina con i testi squartanti che divorano le parole nel momento in cui esse sono pronunciate. Un disco che è un esperimento di rottura dell’assurdo dell’esistere e l’assurdo dell’esistere è un tema fondante delle parole di Qohelet. Una meravigliosa esperienza poetico musicale destinata non a lasciare un segno ma a tracciare un solco di sangue nelle parole che sprechiamo. Questo vostro e nostro Qohelet apre uno sguardo ancor più disincantato sul nostro inferno dei viventi (Nicola Vacca)”, quest’ultima descrizione è riportata anche all’interno del libretto che accompagna il cd.
La metrica poetica di Gianni Venturi oramai è nota a tutti gli ascoltatori minimamente amanti del Prog italiano, una voce graffiante, profonda, a tratti sguaiata a seconda dell’occorrenza del caso, per poter dare vita alle parole, mangiate e vomitate.
Sei sono le tracce contenute per una durata totale di cinquanta minuti sonori. Subito profonda la narrazione di Venturi su un giro di tastiere malinconico che fanno da perfetto tappeto alla storia de ” Il Bipede Eretto”. Giochi di voci, echi, squarciano le parole visionarie in un contesto surreale. Alienante e psichico il lavoro di Seravalle, il fascino accresce se l’ascolto viene effettuato a luci spente.
“Il Sapiente Che Dice Di Sapere” ha una ritmica abbozzata dettata dalle voci sovra incise, mentre Venturi urla la sua rabbia fra alti e bassi emotivi. Si passa dal sussurrato al parlato sino al grido, oramai il cantante bolognese ci ha abituati a queste straordinarie performance. “Avvinghiati A Un Algoritmo” ha maggiori coralità, le tastiere s’improvvisano astruse compagne di viaggio per un malessere che contagia l’ascolto, sensazioni scure e dolorifiche. La traccia più lunga si intitola “Moto Perpetuo” grazie ai suoi dieci minuti. Canti sciamani, profondità di suoni avvolgono l’ascolto.
“21 Grammi” è un perfetto equilibrio di effetti, suoni a loop e voci che sembrano strumenti. A mio parere il brano più interessante dell’album. Chiude “Fame Di Vento”  altra vetrina, l’ennesima, per la bellezza dei testi di questo poeta che sembra essere un vulcano in eruzione senza fine. Fondamentali restano tuttavia per la riuscita i suoni di Alessandro Seravalle. Voglio fare i miei sinceri complimenti alla Lizard Records/Open Mind perché è una finestra aperta in una stanza chiusa, quella del mercato della musica scontata, la label si getta sempre anima e corpo su questi progetti che lacerano di netto le regole del mercato musicale. Serve coraggio e lo so bene.
Questa è difficile definirla musica, perché non c’è da cantare, non c’è da fischiettare, poco di armonioso da memorizzare se non suoni psichedelici e improvvisati. Un lavoro che è rivolto ad un pubblico molto preparato, un pubblico che esige emozioni forti. Viaggiare con la mente  e pensare, ne avete il coraggio? MS




sabato 14 novembre 2020

Deadburger Factory

 

DEADBURGER FACTORY – La Chiamata
Snowdonia
Distribuzione: Audioglobe
Genere: Sperimentale
Supporto: Cd/libro – 2020




Quante volte ci siamo guardati dentro non soltanto per capire noi stessi, ma anche gli altri, uno sguardo dall’altra parte dello specchio. Da una parte c’è la realtà, dall’altra la nostra psiche, la fantasia, i desideri ed i ragionamenti che ci poniamo quotidianamente. Sono passati sette anni dal monumentale triplo cofanetto dei Deadburger Factory “La Fisica Delle Nuvole”, incredibile sforzo artistico che ha analizzato il proprio essere, la parte dentro di noi, oggi con “La Chiamata” la band di Vittorio Nistri vuole scrutare l’altro lato, quello della realtà esterna. Nel booklet de “La Fisica” c’era un disegno di Paolo Bacilieri che rappresentava Alice che entrava nello specchio, qui Alice spunta dall’altra parte. Ed ecco che anche i suoni sono completamente differenti, quelli passati si affidavano ad archi, flauto e chitarre acustiche, qui invece assenti (tranne una chitarra in un brano) a vantaggio di strumenti più adatti alla cruda realtà caotica ossia tamburi (veramente tanti), sax indemoniati e contrabbassi percossi sul legno solo per farvi alcuni esempi.
Siamo proprio dall’altra parte.
La musica dei Deadburger Factory è sperimentale come sempre, sono venti anni che il progetto esiste realizzando sei lavori, colonne sonore per spettacoli teatrali, collaborazioni con scrittori, fumettisti e molti musicisti. Il nucleo base di Deadburger è formato da Vittorio Nistri (elettronica, tastiere, arrangiamenti, testi), Simone Tilli (voce), Alessandro Casini (chitarra) e Carlo Sciannameo (basso), ma nel disco compaiono numerosissimi special guest, almeno una ventina. Il parco percussioni è colmo di grandi musicisti, ci sono Zeno De Rossi (Vinicio Capossela e molti altri), Cristiano Calcagnile (Cristina Donà e molti altri), Bruno Dorella (Bachi Di Pietra e molti altri), Simone Vassallo (Caveiras e molti altri) e Marco Zaniniello (Appaloosa, Honko) oltre che ai tre batteristi Deadburger Silvio Brambilla, Lorenzo Moretto e Pino Gulli. Avrete già intuito la potenza sonora che sprigiona questo nuovo concept. E poi jazzisti, cantanti e una sezione fiati con Enrico Gabrieli e il sax di Edoardo Marraffa.
Il personaggio che è al centro della storia è uno sciamano, Alfio Antico offre la sua voce all’occorrenza nel brano “Tamburo Sei Pazzo”. Esso si trova in un centro commerciale, il suo aspetto è da cinquantenne malconcio, come lo si può ammirare nella copertina ad opera di Paolo Bacilieri (grafica di Gabriele Menconi e testi di Vittorio Nistri) con uno sguardo da folle. Il suo atteggiamento è incomprensibile, batte il tamburo come in un rituale, con la speranza che il suolo si possa spaccare per eruttare sulla gente che lo deride e che lo fotografa con i telefonini. In realtà lo sciamano vuole far uscire dal pavimento un qualcosa che bruci la cattiveria dalla testa della gente che malgrado il lockdown e il desiderio di tornare ad una vita normale, dimostra ancora maggiore aggressività, dura con il prossimo ed intollerante. Il tema è più che mai attuale e veritiero.
Ma il tamburo sembra non funzionare e lo sciamano se la prende con lo strumento, tuttavia c’è uno spiraglio di positività, l’uomo si promette che “domani andrà meglio”… O forse no.
La cosa che sbalordisce di più è tutto il packaging che accompagna il disco, esso contiene anche un mini poster ma soprattutto un libro con 62 facciate! C’è molto da leggere, molteplici storie soprattutto sui tamburi il tutto per entrare con entrambi i piedi dentro l’operato sonoro, tuttavia lascio questo compito a voi per non rovinare tutta la sorpresa, visto poi che ho già molto svelato.
Veniamo alla musica, il disco è composto da sette brani roboanti, duri, anche nei testi di Vittorio Nistri e cantati da Simone Tilli ad iniziare da “Onoda Hiroo”, canzone dalla cadenza Punk. Sopra una ritmica ipnotica e cadenzata giunge “Un Incendio Visto Da Lontano”, intervallato di tanto in tanto da un bel solo di piano. Noto per approccio anche vocale alcune similitudini con la musica degli Altare Thotemico, lo dico per chi li conoscesse.
Una chitarra elettrica introduce la title track “La Chiamata”, arrabbiata al punto giusto, con cambi di tempo, sforzi vocali e coralità incisive. Il riff è molto orecchiabile, così come l’esposizione del testo. Nel finale anche sax tenore e un frammento di Jazz. Inizio psichedelico per “Tryptich”, rivisitazione di un brano di Max Roach. Esso in origine è un canto di rivoluzione per sola voce e batteria. Qui Cristiano Calcagnile e Zeno De Rossi alla batteria dialogano con voci, grida  ed altre percussioni, tutto ciò potrebbe benissimo risiedere nella discografia degli Area. La partitura è polifonica.
“Tamburo Sei Pazzo” vede lo sciamano in azione in un parlato dalla cadenza sicula. Il brano è diviso in quattro parti, narrate e strumentali, un approccio molto “progressivo” e ricercato, soprattutto nella sezione dei fiati. Per la prima volta compare la chitarra acustica in “Manifesto Cannibale”, canzone psichedelica di nove minuti e forse anche la più “popolare” dell’album come la conclusiva “Blu Quasi Trasparente”, ancora una volta slalom fra formula canzone e ricerca sperimentale. Buoni gli arrangiamenti e le coralità.
“La Chiamata” è un lavoro davvero consistente, coraggioso e di personalità, i Deadburger Factory hanno scritto una pagina importante , così hanno prodotto un lavoro che a dire esaustivo è davvero riduttivo per i motivi citati sopra. Curiosità, tutti i brani sono a doppia batteria.
Sciamano, aiutaci a togliere le scorie dai cervelli per essere veramente migliori, come ci auspicavamo nel lockdown, pensaci tu con il tuo tamburo perché noi da soli non ne siamo capaci.
Deadburger Factory, alla prossima opera! MS




lunedì 9 novembre 2020

Faro

 

FARO – Luminance
Andromeda Relix
Genere: Progressive Metal
Supporto: cd – 2020




Fra Chieti e Pescara nel 2007  nasce il progetto Faro, grazie ad un idea di Rocco De Simone (voce, tastiere). Nel 2011 con l’album “Gemini” i Faro si fanno notare per un Metal Prog molto intrigante, raccogliendo consensi sia di pubblico che di critica. Il trio Rocco De Simone, Angelo Troiano (chitarra, tastiere, basso) e Fabrizio Basco (chitarra) come guest, approdano all’Andromeda Relix di Gianni Della Cioppa, sempre vigile a tutto ciò che accade nel mondo musicale nel suolo italico. Il sound Faro nel 2020 si smussa ma non perde di energia e questo lo si può constatare anche nella visione del videoclip che anticipa l’album “Luminance” dal titolo “Fragments”.
Il disco suddiviso in sette tracce si apre con “Pure”, sin dalle prime note sgocciolate di chitarra ciò che balza all’orecchio è una buona incisione, mentre il sound è in bilico fra gli anni ’80 ed il Post Prog. Tanta melodia semplice da immagazzinare, sensazioni che alcuni di voi aventi una certa età hanno già provato nell’ascolto di certa New Wave.
“Fragment” palesa il lato Metal che antecedentemente definivo smussato, un gradevole gioco di stili che rendono la canzone misteriosa ed affascinante grazie anche ad arpeggi ed effetti sonori. “December” si apre con altri effetti e riverberi, nel suono aleggia sempre un velo di malinconia mentre la voce pacata non cerca mai di essere un aggiunta standard al sound, piuttosto uno strumento che bene è spalmato nella fetta sonora. Non sono a conoscenza se la band abbia mai ascoltato i Type O Negative, tuttavia qualcosa si può accostare per certe soluzioni proposte, questo anche in “Lucas”. Musica curata nei particolari, raffinata, mai caotica, tutto è sistemato nel posto giusto al momento giusto, un grande esempio lo si ha in “Tears” dove la melodia la fa da padrona e gli arrangiamenti sono il valore aggiunto.
Il brano più lungo dell’album supera i sette minuti e si intitola “Down”, qui i Faro cercano cambi di ritmo pur rimanendo sempre dentro canoni grevi ed oscuri. Proprio come rappresenta l’artwork ad opera di Pino Giannini. Di tanto in tanto rasoiate Metal a spezzare arpeggi lievi, il tutto sopra una ritmica curatissima e sincopata. Nei tre minuti di “Autumn” è palesata molta personalità oltre che una spiccata arguzia nel compore melodie orecchiabili. “Luminance” chiude l’album che per titoli e in certe occasioni sonore possono far venire in mente anche i nordici Soen.
Un disco maturo a dimostrazione della crescita  artistica dei Faro, un mondo sonoro che grazie a quel velo di malinconia sembra essere avvolto nel mistero e nell’emotività, prerogativa per un viaggio mentale affascinante da non mancare. MS




Il Tusco

 

IL TUSCO – Abbandonare La Città
Andromeda Relix
Distribuzione: G.T. Music
Genere: Rock
Supporto: cd – 2020




Come sappiamo tutti perché lo stiamo ancora vivendo in diretta, il Covid ha reso la nostra vita molto più difficile, settaria e in alcuni frangenti addirittura monastica. Tutto si è ripercosso soprattutto contro il mondo artistico, in cui il distanziamento ha fatto da mannaia fino a bloccare ogni tipo di evento. Il musicista che vive di concerti è il primo ad aver subito questo interminabile torto. Durante il lockdown molti si sono riversati sui strumenti per ingannare questo tempo di reclusione, creando molto, ad esempio il cantautore valdostano Diego Tuscano in arte Il Tusco ha pensato e composto “Abbandonare La Città” proprio come una sorta di fuga dalla realtà, per ritrovare nella musica la purezza dell’infanzia.
Apprezzato artista nella band SanniDei, Il Tusco realizza da solista nel tempo tre album a partire dal 2015 sino a giungere oggi a questo quarto capitolo formato da otto tracce sonore. L’album viene registrato nel giugno 2020 e potete capire dopo un lungo periodo di astinenza sonora quello che si può provare nel ritrovarsi assieme e poter suonare guardandosi negli occhi. La gioia è immensa e questa si ripercuote inevitabilmente sull’esito del lavoro. Gli autori di questo incontro sono Diego Tuscano (voce), Gianluca Chamonal (batteria), AleAlle (basso) e Erik Noro (chitatra).
Il Rock proposto è elegante, non mancano sia riferimenti al passato che al presente, uno sguardo a 360 gradi nel mondo del Rock e nelle basi del Blues.
Riff classici riversati in “L’Ultimo Film Porno”, brano apripista dell’album con un solo di chitarra che spettina per intensità. Qui siamo sul classico, un territorio sonoro rassicurante e comunque ruvido come sapeva fare il grande Ivan Graziani nei suoi momenti migliori. Perché il Rock è questo, semplicità e sincerità, ed il concetto è assolutamente amplificato in “Abbandonare La Città”, vero pezzo che potrebbe risiedere nella discografia del rocker abruzzese/marchigiano. “Dolce Sorriso” ha un sapore più vintage, Il Tusco ne è buon interprete vocale con la sua voce pulita e mai sguaiata.
Scusate se ritorno a parlare di Ivan ma “Strada Contromano” per un fans come me è un pugno nostalgico allo stomaco. Questa è una ballata non scontata, ricercata ed elegante con quel velo di malinconia che si posa sulla mente come un banco di nebbia. Ritorna il ruvido e quatto Rock  in “Animaccia Mia”, testi non scontati con metriche differenti, un insieme rispettoso del genere senza mai risultare banale, un pregio grande difficilmente riscontrabile oggi. Otto minuti per uno dei spaccanti più alti dell’intero lavoro. “Mostro” è un bello sberleffo irriverente, una storia schietta ricca di passaggi sonori che fanno da evidenziatore al tutto il concetto.
Fuoco alle polveri con “Dosi Omeopatiche”, vi ritroverete a muovervi durante l’ascolto a vostra insaputa, magia del Rock. E per concludere “Il Trionfo Di Hobbes”, brano ricercato, suadente, mutevole e perché no anche psichedelico in alcuni momenti. Apprezzo molto il solo di basso, finalmente qualcuno che lo registra! Quando la chitarra elettrica parte c’è di che godere per l’atmosfera creata.
Sono passati 45 minuti come fossero stati 5 e questo già basta per farvi capire che disco è “Abbandonare La Città”, ed ora scusatemi che vado a premere di nuovo play. MS




Silenzio Profondo

 

SILENZIO PROFONDO – Ritornato Dall’ Incubo
Andromeda Relix
Distribuzione: G.T.Music
Genere: Heavy Metal
Supporto: cd – 2020




In Italia dobbiamo essere fieri della numerosa qualità delle band Metal, siamo al cospetto di tante piccole realtà che colpiscono il segno con dischi professionali e di ottima qualità. Il Metal sappiamo bene che è un genere di nicchia, ma soprattutto tacciato di vita breve negli anni ’80 dagli “espertoni” musicali che scrivevano allora nelle riviste musicali. E invece eccoci sempre qua, fra mille difficoltà, sappiamo bene  che la musica oggi non la compera più nessuno, ma la passione e la tenacia sono intaccabili. Il tutto potrebbe sintetizzarsi in: Amore per la musica.
Dopo la luttuosa perdita a causa di un incidente stradale del chitarrista Matteo Fiaccadori la band fa gruppo attorno a se per omaggiare e portare avanti il progetto sonoro con più motivazione che mai, questo  prima dell’album d’esordio. Oggi sono formati da Maurizio Serafini (voce), Gianluca Molinari (chitara), Manuel Rizzolo (chitarra), Tommaso Bianconi (basso) e Alessandro Davolio (batteria).
I Silenzio Profondo li incontriamo nuovamente dopo tre anni dal buon “Silenzio Profondo” (Andromeda Relix) più in forma che mai. Il tempo aiuta la maturazione della band della provincia di Mantova. Il nuovo album si intitola “Ritornato Dall’Incubo” ed è formato da nove canzoni. Ciò che salta subito all’orecchio è la scelta del cantato in lingua italiana, in questo periodo davvero controcorrente. Personalmente ritengo questa scelta indovinata, la comprensione maggiore dei concetti espressi è un valore aggiunto. I testi sono importanti, così quanto la musica.
“Incubo” è potente e con un solo di chitarra che rimanda alla memoria la band Iron Maiden, non dimentichiamo le radici del gruppo proveniente da anni di concerti cover (Metallica, Iron Maiden, Judas Priest). Questo è servito per un importante base di partenza su cui costruire la struttura musicale attraverso la propria personalità. Gli anni ’80 fuoriescono anche dalle note di “Supernova”, la voce di Serafini è pulita oltre che ottima interprete dei testi, intelligente la scelta di non impelagarsi in pericolose scale alte.
Il territorio New Wave Or British Heavy Metal sembra far trovare i componenti a proprio agio, come navigate star del contesto, la conferma proviene da “Falsa Illusione”. Tempo cadenzato (mid tempo) per “Danza Macabra”, canzone molto sentita ed interpretata in modo quasi recitato. Interessante il ritornello, perché non dimentichiamoci che stiamo ascoltando un gruppo italiano, quindi con la melodia incastonata nel dna.
Judas Priest in cattedra con “Elettroshock”, la buona musica non morirà mai questo è poco ma sicuro, bene lo sanno i Silenzio Profondo. “Nella Tela” nulla aggiunge e nulla toglie a quanto detto, mentre “Veleno” è un ottimo strumentale che spazia nei cambi di ritmo e di umore, vetrina per le doti tecniche dei strumentisti. “Solo Carne, Solo Sangue” è la canzone più lunga dell’album grazie ai sette minuti di durata. Qui scusate il gioco di parole con il titolo ma c’è davvero tanta carne al fuoco, la band dimostra di aver assimilato al 100% la lezione dei vecchi maestri. Per chi vi scrive è il pezzo più bello in assoluto dell’album, una semi ballata davvero ben congeniata dove  la voce è al top, davvero emozionante. Il disco si conclude con “Ri(tor)nato”, perfetto suggello di un lavoro che al suo interno gode di ottime idee oltre che di una buona registrazione. Complimenti. MS
 
 

The C.Zek Band

 

THE C. ZEK BAND – Samsara
Andromeda Relix
Distribuzione: G.T. Music
Genere: Rock – Blues
Supporto: cd – 2020



Essere liberi come il Rock, questo è un augurio che faccio a tutti voi con il quale mi piace iniziare questa recensione, perché la libertà è creatività, gioia, in parole povere è vita. Il Rock è vita, si ha alcune regole derivate dalle basi Blues e quindi la sua bella storia, ma è un genere che mai si è sopito sugli allori. Ha centinaia di derivazioni, e di base è puro, cristallino, una sorgente dove dissetare anima e corpo.
In Italia esistono molte band che fanno del Rock uno stile di vita, una di queste si chiama The C. Zek Band. Si formano nell’ottobre del 2015 dopo la scissione del trio Blues Almost Blue grazie all’idea del chitarrista cantante e compositore Christian Zecchin. Amanti del Rock Blues contaminato anche da Hard, Funky e Soul, la band si contorna di musicisti validi e tecnici in questo nuovo lavoro intitolato “Samsara”, secondo album dopo il debutto di “Set You Free” del 2017.
Nelle nove tracce proposte ci sono richiami al passato, come certa Psichedelia degli anni ‘60/’70 con  stili vicini a Jimi Hendrix, John Coltrane, Santana, Alman Brothers, Pink Floyd, Beatles e molti altri ancora.
La formazione è composta da Christian Zecchin (chitarra, voce), Roberta Dalla Valle (voce), Nicola Rossin (basso), Matteo Bertaiola (tastiere) e Enea Zecchin (batteria).
Lo stile di vita e lo spirito libero è immediatamente  palese nell’ascolto di “In The Storm”, brano aperto, arioso, semplice e diretto al bersaglio. L’interpretazione di Roberta Dalla Valle è schietta, mentre la chitarra elettrica svolge il ruolo di protagonista. Il Rock sudista americano si presenta in “Each Day A Crossroad” e qui è Christian Zecchin a duettare  con Roberta. Il frangente strumentale è notevole, con il rispetto del passato e una grande apertura al tecnicismo mai fine a se stesso. Greve  e cadenzato “Another Train” fra Hendrix, Steve Ray Voughan e Allman Brothers, protagonisti di un tempo mai andato, un piacere riscontrarlo anche nel 2020. Sappiamo che la chitarra è il simbolo del Rock, e la The C.Zek Band sa bene come esprimere il concetto oltre che estrapolarne il meglio.
“Black River” non si discosta da quanto ascoltato sino ad ora, per avere un piccolo mutamento di direzione giunge “This Is The Right Day To Cry”, ballata Blues veramente sorniona ed intrigante, ancora una volta Voughan è presente, il suo spirito malgrado la dipartita fisica è sempre presente fra le note. I brividi scorrono sulla pelle. A questo punto giungono i due capitoli “Samsara”, parte 1 e parte 2, qui la band mostra il lato più creativo del suo modo di esprimere il genere, “Part1” è tastieristica e psichedelica, uno spezzare l’ascolto che fa bene alla fluidità dell’insieme, mentre “Part2” in certi versi si può definire Progressiva. Due strumentali che da soli valgono l’acquisto del disco. Ritorna la voce di Roberta in “Feel So Good”, così il profumo degli anni ’70 si conclude con il brano più lungo (otto minuti) intitolato “Stolen Soul”, altro spaccato più ricercato del sound C.Zek Band.
Un disco che sa raccontare una storia mai sopita, alzare la polvere come solo il Rock sa fare, un lavoro che può essere sia colonna sonora di un viaggio che amico di serate in compagnia. Facile all’ascolto ma credetemi se vi dico che una cosa facile paradossalmente non è semplice da concepire, questa è  prerogativa solo di pochi. Buon ascolto. MS  




sabato 31 ottobre 2020

Libro NEO PROG - Storia e Discografia

 NEO PROG - Storia e Discografia

Di Massimo Salari

 
(Arcana Edizioni)

Nella settimana 29 ottobre e 4 novembre esce il mio terzo lavoro enciclopedico dedicato alla storia del NEO PROG. 

In esso descrizione, storia ed approfondimenti sulle band più importanti del genere e le più interessanti al mondo divise per nazioni.

Prefazioni di Fabio Bianchi e Loris Furlan.



                                                 Video di AREA PROG (Brasile)








giovedì 22 ottobre 2020

Geometry Of Chaos

 

GEOMETRY OF CHAOS - Soldiers Of The New World Order
Autoproduzione
Genere: Metal Progressive
Supporto: file digitale – 2020




Il genere Metal Progressive in Italia è composto da validi musicisti, la ricerca in questo campo non si è mai assopita, si dava negli anni ’80 il Metal un genere a breve scadenza ed invece si è sempre saputo rinnovare sino ai giorni nostri. Dirò di più, è spesso da qui che nascono interessanti sonorità dettate da innesti coraggiosi.
Personalmente ho apprezzato anche la musica cinematografica, ossia colei che riesce a darti immagini solo ascoltandola, colonna sonora spesso di concept album abbastanza filosofici. Un esempio in Italia ce lo propone questo nuovo progetto di Fabio La Manna (chitarra, basso) e Davide Cardella (batteria). Provenienti da Torino i Geometry Of Chaos si propinano un nome che è un ossimoro e si formano nel 2014 dopo aver lasciato la band Galileo’s Spectacles. La musica proposta rispecchia il nome ma soprattutto il concept che narra di un nuovo ordine mondiale, esso pur essendo di poche unità riesce a comandare il popolo terrestre. Ognuno del popolo lavora per mantenere poche persone al potere. La storia è ovviamente più attuale che mai e la musica ben rispecchia le caratteristiche.
“Soldiers Of The New World Order” è composto da otto brani ricercati su ritmiche spezzate e riff  taglienti. La tecnica è pulita e superiore alla media, così il suono.
“Idrolatry” mette subito in tavola le carte vincenti, fra cambi di tempo, assolo di chitarra e una voce graffiante espressa in un buon inglese. Banale ricercare somiglianze con altri artisti perché in questa musica risiedono tutte le caratteristiche del genere, oltretutto penalizzante in quanto i Geometry Of Chaos hanno una forte personalità. Apprezzabile dunque lo sforzo dei musicisti a propinarci un disco mai scontato. “Jocker’s Dance” è il singolo del quale ne scaturisce anche un video, brano divertente dal profumo fine anni ’80 primi ’90, con un ritornello di facile memorizzazione. Bello il frangente acustico che rilascia un velo aristocratico di nostalgia, così l’immancabile assolo. Tutti i brani sono di medio/lunga durata, mai inferiori ai sei minuti abbondanti. “Spiral Staircase” ha buoni arrangiamenti e riconduce al concetto iniziale di musica cinematografica, in esso anche storia, Rock  e Metal, così una punta di Dream Theater, quelli più introspettivi. Rispetto gli altri brani ascoltati sino ad ora potrei anche definirlo il più “progressivo” nel senso generale del termine.
“Garage Evil” è un pezzo strumentale articolato e ben strutturato, ottima vetrina per le qualità tecniche del duo in azione.
Il basso apre “Observer”, una struttura sonora che si alterna fra schiaffo e bacio, analogo il discorso per “Saturated”. i Geometry Of Chaos si scatenano in “Premonition” lanciando reminiscenze Savatage e Queensryche. Il disco si conclude con la title track “Soldiers Of The New World Order” e come di consuetudine si può dire dulcis in fundo.
Metal Progressive non scontato questo dei Geometry Of Chaos, proprio alla fine dell’ascolto ci si rende effettivamente conto del nome azzeccatissimo. Un disco molto curato anche nei particolari.
Ricordo infine la buona carriera solista di Fabio La Manna con due dischi interessanti dal titolo “Res Parallela” (2014 – autoproduzione) e “EBE” (2016 – autoproduzione) che potrete ordinare tramite mail all’indirizzo: fabiolamanna79@libero.it
. MS




mercoledì 21 ottobre 2020

Instant Curtain

 

INSTANT CURTAIN – Let Tear Us Apart
Autoproduzione
Distribuzione: G.T.Music
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd - 2020




Instant Curtain, la debuttante band marchigiana di Macerata ha già nel suo nome  intrinseco l’amore per la scuola di Canterbury e le band di Robert Wyatt, soprattutto nei confronti dei Matching Mole visto che nei titoli di diverse canzoni si possono estrapolare le parole Instant e Curtain. In effetti la musica proposta in questo debutto dal titolo “Let Tear Us Apart” ha molto del genere ma anche di tutta quell’area vintage dal suono nervoso creato dalla chitarra di Robert Fripp (King Crimson). Ho fatto nomi importanti per una band che esordisce, come minimo serve una tecnica strumentale non banale, allora andiamo a vedere chi sono i componenti:
Giuseppe Petrucci inizia a suonare la chitarra da autodidatta e si appassiona alla musica di importanti guitar heroes come Hendrix, Malmesteen e molti altri ancora. Nei primi anni ’90 entra a far parte della band  Flying Gipsy e successivamente apre una scuola di chitarra, la Giuseppe Petrucci Guitar School. Ascolta Genesis, Yes e la scena elettronica tedesca.
Fabrizio Paggi è di Milano, apprezzato bassista ed esponente importante della scena locale in ambito Jazz e Rock. Suona lo strumento e lo studia dall’età di 12 anni. Nel 2008 si trasferisce nelle Marche dove inizia anche ad insegnare.
Carlo Maria Marchionni è colui che si adopera in studio per le registrazioni, oltre che svolgere seminari e concerti in tutta Italia sulla batteria.
Massimo Gerini è la voce. Inizia a cantare a cinque anni, a quattordici già fa parte di una band Pop Rock, per farla breve ha cantato per Ian Paice, batterista dei Deep Purple, il che la dice lunga.
Dopo le presentazioni arriviamo al disco che è composto da nove tracce. Ma prima di passare alla musica lasciatemi fare una constatazione, sempre di più il Progressive Rock anche in Italia si fa portavoce di una situazione societaria non appagante, anche la musica cosiddetta colta attraverso  i testi si sa lamentare come il padre Rock ha sempre saputo fare negli anni. I testi dei brani narrano dunque della situazione societaria nella nostra era e sono cantati in lingua inglese.
Fa comunque effetto nel 2020 ascoltare questo tipo di musica, “Reverse In The Sand” fa scorrere brividi sulla pelle dell’ascoltatore amante del vintage. Gradevole il giro del basso, 12 corde acustica, Mellotron, non vedo cosa altro un appassionato del genere possa desiderare.
“Tell The Tales, My I…” è un brano articolato sorretto da buone melodie e in alcuni frangenti anche struggente. “The Beginning”  è un frammento sonoro ampio, ricco di richiami storici ma anche molto attuale, il lato più ricercato degli Instant Curtain i quali nel ritornello richiamano (forse inconsciamente) anche i Beatles, colonna portante di tutto il Rock a venire post anni ’60. Molto buona la prova vocale e ancora una volta le chitarre sono in stile King Crimson.
“All White” si sbobina sul Mellotron e l’Hammond  in una  ritmica ricercata legata dalla chitarra 12 corde. Qui la band dimostra davvero una notevole personalità. “And The Ship Battle Down” probabilmente ha numerosi déjà vu, Genesis compresi, tuttavia sa farsi apprezzare nei suoi sette minuti abbondanti.
“The Rest Divide Us”  fra stop & go e progressioni risulta orecchiabile e gradevole con tanta storia alle spalle. Più solare “Safe As The World” (mi ritornano in mente gli Echolyn), in alcuni casi anche psichedelica, questo grazie soprattutto all’uso del sitar. “Stay” è uno dei momenti più melodici e malinconici dell’intero album, ed “April” conclude l’ascolto fra arpeggi e synth, un tassello importante del dna della band, un ponte fra il passato ed il presente.
 Concludo dicendo che nel 2020 è un piacere ascoltare dischi di questa caratura, alla faccia di chi dice che oggi la buona musica non esiste più. Signori, basta semplicemente aggiornarsi. MS