O.R.k.
- Firehose Of Falsehoods Kscope Genere: Progressive Metal Supporto: Bandcamp /cd / lp – 2025
Abbiamo
spesso letto e sentito dire che la musica oggi non ha nulla di nuovo da
proporre, certo, il decennio ’65 / ’75 è stato prolifico e ricco d’idee, ma
qualcosa d’interessante c’è ancora. Per esempio, se il Progressive Metal oggi
ha un suono moderno rispetto alle radici passate, il merito è anche della band
anglo italiana O.R.k. E’
un quartetto formato da Lorenzo Esposito Fornasari/Lef (voce), Colin Edwin (basso),
Pat Mastelotto (batteria), e Carmelo Pipitone (chitarra), qui sicuramente i più
ferrati di voi avranno scorto dei nomi di ottima fama del circuito. Colin Edwin
è stato il bassista nel periodo più influente dei Porcupine Tree e Pat
Mastellotto ha militato in moltissime band, fra le quali i King Crimson, poi per
impreziosire ulteriormente questo parterre si coadiuvano della partecipazione
di John Wesley alla chitarra, anche lui nella band Porcupine Tree nelle
sessioni live, e di Giuseppe Negri sempre alla chitarra nel brano “The Other
Side”. Con questi preamboli non ci si può che attendere un lavoro di ottima
qualità e, lo dico subito, le aspettative non andranno deluse. “Firehose
Of Falsehoods” è il quinto disco in studio dopo l’ottimo “Screamnasium” del
2022, un grido contro le quotidiane bugie che ci bombardano su internet e nei
media in generale, tante da procurare alla società una sfiducia in se stessa. In
quest’album le canzoni sono della durata media di quattro minuti e poco più,
salvo il caso della bonus track “Dive In”, contenuta soltanto nel formato cd
della durata di quattordici minuti. Il
segreto della riuscita emotiva del lavoro risiede nel perfetto equilibrio che
si stanzia fra le melodie di base e le partiture maggiormente elaborate e
robuste. “Blast
Of Silence” mostra subito le qualità canore di “Lef”, che a tratti mi ricordano
quelle di Daniel Gildenlöw dei Pain Of Salvation. Il Metal Progressive proposto
mostra la classe cristallina degli arrangiamenti oltre a una struttura che si
alterna fra suoni pacati ed energici. “Hello
Mother” inizia con un riff dalle origini King Crimson per poi lasciarsi guidare
dal basso di Edwin verso territori altamente Rock situati fra i Led Zeppelin e i
Wolfmother. Le suddette qualità dell’ex bassista dei Porcupine Tree emergono
maggiormente in “The Other Side”, canzone che potrebbe benissimo risiedere in “Deadwing”
della band di Steven Wilson, e questo per i fans dell’albero del porcospino è
un messaggio non da poco. “16.000
Days” è curata nei particolari, un’altalena di sensazioni si appropriano dello
stato d’animo dell’ascoltatore travolto da suoni sì possenti, ma altresì pacati,
il tutto velato da un refrain malinconico e drammatico. Qui tornano i
riferimenti ai Pain Of Salvation. “PUTFP” prosegue l’andamento, questa volta
accompagnato da arpeggi di chitarra di sottofondo. “Seven Arms” è il singolo e riconduce
al sound ruvido del buon vecchio Rock influenzato dal Grunge. “Beyond Reach” è
uno dei vertici dell’album, un ulteriore passo verso quel Metal Prog infarcito
di brevi interventi psichedelici e un inciso strappacuore esaltato ancora una
volta da una prova vocale superba. Ho apprezzato la cura della vocalità messa
in “Mask Becomes The Face”, una ballata con assolo di chitarra da parte di John
Wesley che da solo vale il prezzo del disco. La suite “Dive In” è il sunto di
tutto il sound O.R.k. qui decorato anche da interventi dalla Pinkfloydiana
memoria. Questo
nuovo album dei O.R.k. conferma la qualità della band sia tecnica che
compositiva, una boccata d’aria fresca nel mondo del Metal Progressive, troppo
spesso legato ai virtuosismi dei Dream Theater che sono sempre gradevoli, ma
che non hanno più apportato nuova linfa vitale a un genere di cui loro stessi sono
i maestri. L’evoluzione passa attraverso la trasgressione della regola, niente
da dire. MS
Versione Inglese:
O.R.k. - Firehose Of Falsehoods Kscope Genre: Progressive Metal Support: bandcamp /cd / lp - 2025
We have often read and heard that music today has
nothing new to offer, sure, the decade of '65 / '75 was prolific and full of
ideas, but something interesting is still there. For example, if Progressive
Metal today has a modern sound compared to its past roots, credit is also due
to the Anglo-Italian band O.R.k. It is a quartet made up of Lorenzo Esposito
Fornasari/Lef (vocals), Colin Edwin (bass), Pat Mastelotto (drums), and Carmelo
Pipitone (guitar), here surely the more fervent of you will have discerned some
top names on the circuit. Colin Edwin was the bassist in Porcupine Tree's most
influential period and Pat Mastellotto has played in many bands, including King
Crimson, then to further embellish this parterre they are assisted by the
participation of John Wesley on guitar, also in the Porcupine Tree band in the
live sessions, and Giuseppe Negri also on guitar in the song “The Other Side”.
With these preambles, one can only expect a work of excellent quality and, I
will say it now, expectations will not be disappointed. “Firehose Of Falsehoods” is the fifth studio record
after the excellent ‘Screamnasium’ from 2022, a cry against the daily lies that
bombard us on the Internet and in the media in general, so many that they cause
society to distrust itself. On this album the songs average four minutes and a little
more, except in the case of the bonus track “Dive In”, contained only on the
fourteen-minute CD format. The secret of the work's emotional success lies in the
perfect balance that is appropriated between the basic melodies and the more
elaborate and robust scores. “Blast Of Silence” immediately displays the singing
qualities of ‘Lef’, which at times remind me of those of Daniel Gildenlöw of
Pain Of Salvation. The Progressive Metal on offer shows the crystalline class
of the arrangements as well as a structure that alternates between quiet and
energetic sounds. “Hello Mother” starts with a riff from King Crimson
origins and then lets Edwin's bass drive into highly Rock territories situated
between Led Zeppelin and Wolfmother. The aforementioned qualities of the former
Porcupine Tree bassist emerge most in “The Other Side,” a song that could well
reside in Steven Wilson's band's “Deadwing”, and this for Porcupine Tree fans
is no small message. ”16,000 Days” is meticulously crafted, a seesaw of
sensations take over the listener's state of mind overwhelmed by sounds that
are yes mighty, but also calm, all veiled by a melancholic and dramatic
refrain. Here the references to Pain Of Salvation return. “PUTFP” continues the trend, this time accompanied by
background guitar arpeggios. “Seven Arms” is the single and leads back to the
rough sound of good old Grunge-influenced Rock. “Beyond Reach” is one of the
peaks of the album, a further step toward that Prog Metal infused with brief
psychedelic interventions and a heart-wrenching aside enhanced once again by a
superb vocal test. I appreciated the vocal care put into “Mask Becomes The
Face,” a ballad with guitar solo by John Wesley that alone is worth the price
of the album. The suite “Dive In” is the epitome of the whole O.R.k. sound here
also decorated by interventions from Pinkfloydian memory. This new album by O.R.k. confirms the band's quality
both technically and compositionally, a breath of fresh air in the world of
Progressive Metal, too often tied to the virtuosity of Dream Theater, which is
always enjoyable, but which has no longer brought new life to a genre of which
they themselves are the masters. Evolution comes through transgression of the
rule, nothing to say. MS
WILSON
PROJECT – Atto Primo Ma.Ra.Cash
Records Genere: Rock Progressivo Supporto: digital / cd – 2025
Personalmente
mi fa un estremo piacere vedere giovani approcciarsi oggi al mondo del Rock
Progressivo, generalmente addossato a una generazione proveniente dagli anni
’60. I Wilson Project (Acqui Terme) infatti iniziano il cammino del progetto
poco più che ventenni ma già con le idee molto chiare, oltre che possessori di una
buona tecnica strumentale individuale. Lo stile proposto attinge dalla storia
italiana tracciata da gruppi come Premiata Forneria Marconi e Banco Del Mutuo
Soccorso in primis. Nel 2022 esordiscono con “Il Viaggio Da Farsi” (Ma.Ra.Cash
Records), un disco che li porterà a esibirsi live con artisti del calibro di
Giorgio “Fico” Piazza (PFM), New Trolls, Le Orme e Osanna, oltre che ricevere
premi come quello della critica al PEM Festival. Sono
una delle poche band di Rock Progressivo Italiano con voce femminile, in questo
caso risponde al nome di Annalisa Ghiazza (aerofono, voce), mentre il gruppo è
completato da Stefano Rapetti (basso, voce), Andrea Protopapa (tastiere, voce),
e Mattia Pastorino (batteria, voce). “Atto
Primo” non vuole che essere un omaggio all’opera lirica, da come scherzosamente
si può evincere anche dalla copertina forzatamente retrò. In effetti il genere
Prog Rock ben si combina con la teatralità della lirica, e sono cose in comune
pur essendo generi decisamente distinti sia storicamente che qualitativamente. Ogni
brano dei sei che formano l’album è rivolto a un compositore o a un’opera
storica, ma tutto ciò è semplicemente preso da spunto per comporre musica propria,
quindi nuovo stile e nuova veste. Un
disco così non può che in iniziare con una strumentale “Overture”, essa in due
minuti e poco più accompagna l’ascoltatore in questo mondo fatto di suoni
vintage e melodie teatrali. Ma è con “Taiji” che la formazione mette in campo
le proprie caratteristiche che passano attraverso l’esaltazione delle tastiere,
spesso protagoniste nella musica, e la soave voce di Annalisa Ghiazza. Gli
anni ’70 sono al nostro cospetto, evidenziati da una qualità discreta
dell’incisione. Tanta storia fra le note, quella che piace sicuramente ai fans
del genere. “Bolshoi”
è il singolo estratto, esso esalta la storia del noto teatro russo
disegnandogli un abito differente da quello istituzionale e monolitico che l’ha
reso famoso nel mondo, attraverso buone melodie e un andamento Rock supportato
dall’Hammond molto presente. I synth fanno da orchestra e donano sentori
barocchi che nel contesto si sposano alla perfezione. Inutile sottolineare che
nel corso dell’ascolto si possono apprezzare cambi di ritmo e di atmosfere, in
questo caso anche un buon assolo di batteria finale, cosa che in questi ultimi
tempi è andata quasi in disuso. “Atto
Primo” contiene anche due suite, la prima è “Ragnarok”, della durata di quasi
tredici minuti. Essa si apre con un buon giro di pianoforte per poi lasciare
spazio alle intuizioni strumentali della band, sempre ricercate e mai banali.
La seconda è la conclusiva “Duat” di altrettanti tredici minuti, in mezzo “Nihonga”,
variegata composizione molto affascinante sempre grazie alla qualità vocale di
Ghiazza e alle buone coralità di sostegno. Lo
scettro della storia Progressive Rock Italiana è ancora una volta in buone mani
grazie anche ai giovani Wilson Project, autori solamente di due dischi ma
entrambi di pregevole fattura, ascoltare per credere. MS
Versione Inglese:
WILSON PROJECT – Atto Primo Ma.Ra.Cash Records Genre: Progressive Rock Support: digital / cd - 2025
Personally, it gives me an extreme pleasure to see
young people today approaching the world of Progressive Rock, generally pinned
on a generation coming from the 1960s. The Wilson Project (Acqui Terme) in fact
begin the path of the project in their early twenties but already with very
clear ideas, as well as possessing a good individual instrumental technique.
The proposed style draws from the Italian history traced by groups such as
Premiata Forneria Marconi and Banco Del Mutuo Soccorso in primis. In 2022 they
made their debut with “Il Viaggio Da Farsi” (Ma.Ra.Cash Records), a record that
would lead them to perform live with the likes of Giorgio “Fico” Piazza (PFM),
New Trolls, Le Orme and Osanna, as well as receiving awards such as the
critics' award at the PEM Festival. They are one of the few Italian Progressive Rock bands
with female vocals, in this case answering to the name of Annalisa Ghiazza
(aerophone, vocals), while the group is completed by Stefano Rapetti (bass,
vocals), Andrea Protopapa (keyboards, vocals), and Mattia Pastorino (drums,
vocals). “Atto Primo” is meant to be nothing but a tribute to
opera, from as can also be jokingly inferred from the forcibly retro cover.
Indeed, the Prog Rock genre combines well with the theatricality of opera, and
they are things in common despite being decidedly distinct genres both
historically and qualitatively. Each track of the six that make up the album is
addressed to a composer or historical work, but all of this is simply taken as
a cue to compose music of one's own, thus new style and new look. Such an album can only in begins with an instrumental
“Overture”, it in two minutes and a little more takes the listener into this
world of vintage sounds and theatrical melodies. But it is with “Taiji” that
the lineup brings out its own characteristics, which come through the
exaltation of keyboards, often the protagonists in the music, and the suave
voice of Annalisa Ghiazza. The 1970s are before us, highlighted by a decent
quality of the recording. Lots of history among the notes, the kind that fans
of the genre are sure to enjoy. “Bolshoi” is the extracted single, it enhances the
history of the well-known Russian theater by drawing it a different dress from
the institutional and monolithic one that made it world famous, through good
melodies and a Rock trend supported by the very present Hammond. The synths act
as an orchestra and give baroque hints that in the context match perfectly.
Needless to emphasize that in the course of listening one can appreciate
changes of rhythm and atmosphere, in this case even a good final drum solo,
something that has almost gone out of fashion in recent times. “Act One” also contains two suites, the first being “Ragnarok”,
lasting almost thirteen minutes. It opens with a good piano turn and then
leaves room for the band's instrumental insights, which are always researched
and never banal. The second is the concluding “Duat” of as many thirteen
minutes, in between “Nihonga”, a varied composition that is very fascinating
always thanks to Ghiazza's vocal quality and good backing choruses. The scepter of Italian Progressive Rock history is
once again in good hands thanks to the young Wilson Project, authors of only
two records but both of fine workmanship, listen to believe. MS
JETHRO
TULL – Curious Ruminant (Inside Out - 2025)
Ventiquattresimo
sigillo in studio della band di Ian Anderson. Si, non è un caso che non li
chiamo Jethro Tull, perché oramai trattasi solamente del progetto solista del
geniale folletto inglese. L’artista si è distaccato definitivamente dal
Progressive Rock restando nel limbo Folk. Interventi di chitarra elettrica
ricordano che comunque trattasi sempre di Rock. Per la veneranda età (77 anni)
Ian è un supereroe, se non fosse per i problemi alle corde vocali che ha avuto
molti anni fa. I riff di flauto sono quelli caratteristici, brevi e facili da
memorizzare. Forse per il mio gusto canta troppo, sarebbe stato meglio una
parte strumentale più presente, ma va benissimo anche così. Voto 6,5
Con
una band di tutto rispetto, ritorna l’artista Progressive Rock di Wakefield,
Dominic Sanderson con il secondo album in studio dopo il buon “Impermanence”
del 2023. Il chitarrista, cantante e tastierista cresciuto a pane, King
Crimson, Pink Floyd e Marillion, si esibisce in un contesto prettamente
Canterburyano, rilasciando un album dalle mille sfaccettature. Sicuramente
Sanderson è una delle nuove realtà e speranze del futuro Progressive Rock e
questo “Blazing Revelation” è un bellissimo album che farà la gioia di tutti i
fans del genere. Una promessa. Voto: 8,0
MOSTLY AUTUMN – Seawater
(Autoproduzione - 2025)
Strana
la carriera di questa band inglese che inizia come cover band dei Pink Floyd.
Dopo un interessesostenuto da parte di
pubblico e critica avvenuto nella fine anni ’90 e primi ’00, subentrano nel
tempo una marea di tentativi di allinearsi a un sound più distaccato dalle
radici Folk Psichedeliche dei primi tempi. Le chitarre alla Pink Floyd sono
state per lungo tempo il loro punto di forza. Quindici gli album in studio, e
“Seawater” mi sembra essere uno sguardo indietro alla loro carriera iniziale, o
per meglio dire un equilibrio fra le loro esperienze passate. Solo il brano “If
Only For A Day” da solo vale il prezzo del disco. Per amanti dei Pink Floyd
ovviamente. Voto: 7,0
OPETH
-The Last Will And Testament (Reigning
Phoenix Music – 2024)
Il
discorso Opeth è analogo a quello della carriera musicale di Steven Wilson, o
li si amano o li si detestano. Qui siamo al cospetto di quel Metal gotico e
Black dalle forti tinte Progressive che solo i grandi musicisti sanno
affrontare. Sono ancora un punto di riferimento per moltissime band, anche se
gli ultimi album hanno fatto storcere il naso ai fans di prima carriera. E cosa
fanno oggi con il quattordicesimo album? Ritornano un passo indietro rispetto
gli ultimi quattro dischi rispolverando addirittura il mitico growl che li ha
resi famosi. Non mancano le fasi Progressive, ma meno marcate. Un album per i
die hard del gruppo con grandi intuizioni. Voto 8,0
KARFAGEN – Omni (Antony Kalugin
& Caerllysi – 2025)
La
band ucraina è un fiume in piena, basta dire che in quasi due anni realizzano
sette album in studio e tutti di buona fattura. Loro sono il frutto del
musicista e compositore poliedrico Antony Kalugin. Nella musica il solito
Canterbury sound (non a caso ospite c’è Richard Sinclair) e tanto Prog di
matrice The Flower King e anni ’70. Flauti, tastiere, chitarre alla Hackett,
violino elettrico, insomma tanto ben di Dio nelle dieci tracce che compongono
l’album. Scorrevole e colorato. Voto: 7,5
FIESTA ALBA – Pyrotechnic Babel Neontoaster Multimedia Dept / Bloody Sound Genere:
Alternative / Math Rock Supporto: cd /
digitale – 2025
Abbiamo
conosciuto i misteriosi Fiesta Alba attraverso l’EP omonimo del 2023, un
debutto sorprendente per fantasia sia sonora che scenica. Quattro musicisti e
lottatori che si celano dietro ad una maschera e con nomi di fantasia, Octagon
(composizioni, chitarra, graphic design), Dos Caras (produzione artistica,
suoni sintetici e digitali), Fishman (basso), e Pyerroth (batteria). La
musica proposta apporta dinamiche varianti che si aggirano attorno al mondo del
Math Rock contaminato dall’Hip-Hop, musica Afrobeat e Punk. Sperimentazione e
anticonformismo sembrano essere la parola d’ordine anche per questo ufficiale
debutto intitolato “Pyrotechnic Babel”. Interessanti gli spunti riconducibili
ai King Krimson e a Brian Eno, a testimonianza di una buona cultura musicale di
base. In
quest’album si avvalgono della collaborazione di artisti internazionali
provenienti dal Giappone, dall’Africa e dall’Italia stessa. Le tematiche
affrontate sono sottolineate da narratori contemporanei, filosofi e pensatori i
quali donano voce alle contraddizioni e alla complessità della società odierna. L’iniziale
“No Gods No Masters” vede la partecipazione alla voce di Katarina Poklepovic,
dove ci s’immerge in un impero dei sensi in cui non si necessitano di dei e
padroni. Il pezzo trascinante si circonda di elettronica e di un basso potente,
un Rap dal sapore Grunge. “Technofeudalism”
è immerso nel mondo crimsoniano in cui le chitarre apportano quell’incedere incalzante
e nervoso come Fripp insegna. La narrazione estrapolata dalla voce di Gianis Varoufakis
è profetica dei tempi moderni, qui il presente dispotico si abbandona alla
tecnologia e ai vari Spotify o Alexa del caso. Il ritmo pressante offre uno
scenario perfetto all’insieme. Proveniente
dal Senegal, la cantante Sister LB fa da legante all’elettronica e la
strumentazione essenziale in “Je Suis Le Wango”, pezzo alienante in cui si
manifesta la volontà dei Fiesta Alba di sperimentare in ambiti apparentemente
scontati. Il
primo movimento strumentale s’intitola “Collective Hypnosis”, una cascata di
Synth travolge l’ascolto, spezzati dai loop di chitarra e dell’immancabile
elettronica. Il pezzo ipnotico vuole essere colonna sonora della società
attuale. Judicious
Brosky è un rapper giapponese che racconta di un amore fugace accaduto in un
treno ad alta velocità nel brano “Waku Waku”. Le ritmiche serrate sono il pane
quotidiano dello stile Fiesta Alba e li conduce verso un Math Rock altamente
coinvolgente. Una
delle composizioni più articolate è la strumentale “Post Math”, qui il gruppo
interseca fiati elettronici a tempi dispari, chitarre inquiete e synth per un
connubio dalla forte personalità. Gli
arrangiamenti sono presenti in forma di archi in “Learn To Ride Hurricanes”,
supportati dalla voce gentile di Alessandra Plini. Trattasi di una fiaba
riguardante i tempi moderni e il disagio che ci circonda. Il tutto ha una base
Rock che nuovamente va a cozzare con il suono dei King Crimson sempre a causa
della chitarra elettrica in modalità “Thela Hun Ginjeet”. Altro
strumentale poliedrico dalle caratteristiche già espresse è “Dromocracy”,
mentre “Safoura” narra l’amore per una donna irraggiungibile come una terra
lontana per voce di Pape Kanoute. Anche qui il Math Rock sale in cattedra. Il
disco chiude con il dub di “Mark Was Right”, dove il filosofo, sociologo
scomparso nel 2017 presta la sua voce. In
“Pyrotechnic Babel” c’è musica sia da ballare che da ascoltare, un’impresa non
semplice in un mondo sonoro contemporaneo in cui tendenzialmente ci si
accontenta dello scontato. MS
Versione Inglese:
FIESTA ALBA - Pyrotechnic
Babel Neontoaster Multimedia Dept
/ Bloody Sound Genre: Alternative / Math
Rock Support: cd / digital – 2025 We got to know the
mysterious Fiesta Alba through their self-titled EP from 2023, a stunning debut
in both sonic and stage imagination. Four musicians and wrestlers hiding behind
a mask and with fancy names, Octagon (compositions, guitar, graphic design), Dos
Caras (production art, synthetic and digital sounds), Fishman (bass), and
Pyerroth (drums). The proposed music brings
dynamic variations that hover around the world of Math Rock contaminated by
Hip-Hop, Afrobeat music and Punk. Experimentation and nonconformity also seem
to be the watchword for this official debut titled “Pyrotechnic Babel”. The
cues traceable to King Krimson and Brian Eno are interesting, testifying to a
good basic musical culture. On this album they draw on
the collaboration of international artists from Japan, Africa and Italy itself.
The themes addressed are emphasized by contemporary storytellers, philosophers
and thinkers who give voice to the contradictions and complexities of today's
society. The opening “No Gods No
Masters” features Katarina Poklepovic on vocals, where we are plunged into an
empire of the senses in which there is no need for gods and masters. The
dragging track surrounds itself with electronics and a powerful bass, a Rap
with a Grunge flavor. “Technofeudalism” is steeped
in the Crimsonian world in which the guitars bring that relentless, jittery
pace as Fripp teaches. The narrative extrapolated from the voice of Gianis
Varoufakis is prophetic of modern times, here the despotic present indulges in
technology and the various Spotify or Alexa of the case. The pressing rhythm
provides a perfect backdrop to the ensemble. Hailing from Senegal,
vocalist Sister LB binds electronics and essential instrumentation in “Je Suis
Le Wango”, an alienating piece in which Fiesta Alba's willingness to experiment
in seemingly obvious realms manifests itself. The first instrumental
movement is titled “Collective Hypnosis”, a cascade of Synths overwhelms the
listening, broken up by guitar loops and the ever-present electronics. The hypnotic
piece is meant to be a soundtrack to today's society. Judicious Brosky is a
Japanese rapper who tells of a fleeting love that happened in a high-speed
train in the track “Waku Waku.” Tight rhythms are the bread and butter of
Fiesta Alba's style, leading them into highly addictive Math Rock. One of the most articulate
compositions is the instrumental “Post Math”, here the group intersects
electronic horns at odd times, restless guitars and synths for a combination
with a strong personality. Arrangements are present in
the form of strings in “Learn To Ride Hurricanes”, supported by the gentle
voice of Alessandra Plini. This is a fairy tale concerning modern times and the
unease that surrounds us. The whole thing has a Rock base that again clashes
with the sound of King Crimson again because of the electric guitar in “Thela
Hun Ginjeet” mode. Another multifaceted
instrumental with characteristics already expressed is “Dromocracy”, while
“Safoura” tells of love for a woman as unattainable as a distant land by Pape
Kanoute's vocals. Math rock takes the stage here as well. The album closes with the
dub of “Mark Was Right”, where the philosopher, sociologist who died in 2017
lends his voice. In “Pyrotechnic Babel”,
there is music to both dance to and listen to, no easy feat in a contemporary
sound world where we tend to settle for the obvious. MS
WHEELS
OF FIRE – All In Art
Of Melody Music / Burning Minds Music Group Genere: Hard Rock Melodico Supporto: cd - 2025
Gli
Hard Rocker italiani Wheels Of Fire dal 2010 hanno saputo ritagliarsi un posto
d’onore nell’olimpo dell’Hard Rock melodico grazie a tre album pieni di buone
melodie e riff taglienti. La band si forma nel 2006 per iniziativa del cantante
Davide Barbieri. In seguito la collaborazione con Michele Luppi (Whitesnake) li
conduce a realizzare il primo album intitolato “Hollywood Rocks” dove il
pubblico e la critica accolgono subito il talento della band avvicinandola per
stile a capisaldi come Bon Jovi, White Lion, Raintimes e altri ancora. Il
successo viene confermato dalle date live importanti, come quelle intraprese
con Jeff Scott Soto, Bonfire e Kee Marcello, solo per fare tre nomi. “All
In” è il quarto disco in studio, molto curato anche nel libretto che contiene
le note di Martin Stark (Rock It! Magazine) e l’artwork per mano di Aeglos Art. La
formazione è composta da Davide “Dave Rox” Barbieri (voce, tastiere), Stefano
Zeni (chitarre), Simon Dredo (basso), e Fabrizio Uccellini (batteria). Simon
Dredo suona anche con i Room Experience. Una
prerogativa del sound Wheels Of Fire è l’uso della composizione a favore della
facile memorizzazione, grazie a incisi gradevoli, assolo penetranti, tastiere
presenti e riff diretti. Per raggiungere quest’obiettivo si necessita
inevitabilmente di una sezione ritmica quantomeno unisona che si adopera
proprio come un motore ben oliato. Il
singolo “Fool’s Paradise” apre le danze e racconta le percezioni che viviamo
nella vita odierna fra inganni, illusioni e inevitabili delusioni. Il
protagonista “Fool” è un illuso che crede di vivere in paradiso, ma per essere
rassicurato di questa sua esistenza agiata si affida a una cartomante. La verità
purtroppo è ben altra cosa. La sua coscienza alla fine gli mostra la pura e
cruda realtà delle cose per come realmente sono, il raggiro è sempre dietro
l’angolo. Il riff metallico rimanda ai Saxon anni ’80, il ritmo serrato conduce
l’ascoltatore in un balzo temporale a ritroso, dove la strada e la polvere sono
protagoniste. Immancabile il breve solo di chitarra tagliente e preciso. Tastiere
eteree iniziano “Under Your Spell”, altro pezzo robusto in cui si manifesta la
caratura tecnica e culturale della band, capace di assorbire le caratteristiche
del genere per poi riproporle con la propria personalità, sempre ricca di buone
melodie di fondo. Effetti
stereo iniziano “End Of Time”, qui la ritmica si stabilizza in un suono
cadenzato e ricco di cambi di tempo. La canzone si muove in diversi territori
pur restando radicata a un inciso diretto che farà la gioia degli estimatori di
Bon Jovi e White Lion. La
ballata ha il nome di “Resonate”, con tanto di piano e un’interpretazione
sentita da parte dell’ottimo Davide “Dave Rox” Barbieri. E’ qui che solitamente
la chitarra elettrica si distingue per l’immancabile solo toccante. Da sottolineare le buone coralità vocali. “99
Lies” ha un inizio tenebroso, quasi antico, per poi sfociare nel classico mondo
dell’Hard Rock melodico. Un esempio di come uno stile non s’improvvisa. “99
Lies” è trascinante, impossibile resistere al ritmo, durante l’ascolto vi
potreste trovare a fare headbanging. “Neverland” riporta nuovamente agli anni
’80, quando il genere mieteva vittime su vittime trascinando molte band alla
fama. Ma
non ci sono soltanto frangenti frivoli, esistono anche tematiche toccanti come la
malattia del cancro. “Invisible” parla proprio di questo nemico che ci potrebbe
condurre alla morte esaltando l’importanza di chi ci è vicino durante questi
ardui momenti. Piano e voce aprono la ballata ben congeniata. “Walking
On The Wire” torna a prenderci a schiaffi in faccia ricordandoci che siamo
sempre al cospetto dell’Hard Rock. A seguire la cadenzata “Heaven Is Sold Out”
e la conclusiva “Staring Out The Window”, piccola gemma sonora incastonata
nell’ulteriore semi ballata. I
Wheels Of Fire con “All In” dimostrano che la musica è gioia, sottofondo,
protagonismo, energia e molto altro, tuttavia ricordiamoci sempre che il Rock
in senso generale non è soltanto musica, ma un vero e proprio stile di vita. E bravi… MS
Versione Inglese:
WHEELS OF FIRE - All In Art Of Melody Music / Burning Minds Music Group Genre: Melodic Hard Rock Support: cd - 2025
Italian hard rockers Wheels Of Fire since 2010 have
been able to carve out a place of honor in the Olympus of melodic Hard Rock
thanks to three albums full of good melodies and sharp riffs. The band was
formed in 2006 on the initiative of singer Davide Barbieri. Later, the
collaboration with Michele Luppi (Whitesnake) leads them to make their first
album entitled “Hollywood Rocks” where the public and critics immediately welcome
the band's talent, bringing it closer in style to such cornerstones as Bon
Jovi, White Lion, Raintimes and others. The success is confirmed by important
live dates, such as those undertaken with Jeff Scott Soto, Bonfire and Kee
Marcello, just to name three. “All In” is the band's fourth studio album, which is
also highly polished in the booklet containing notes by Martin Stark (Rock It!
Magazine) and artwork at the hands of Aeglos Art. The lineup consists of Davide “Dave Rox” Barbieri
(vocals, keyboards), Stefano Zeni (guitars), Simon Dredo (bass), and Fabrizio
Uccellini (drums). Simon Dredo also plays with Room Experience. A prerogative of the Wheels Of Fire sound is the use
of composition in favor of easy memorization, thanks to pleasing etchings, penetrating
solos, present keyboards and direct riffs. Achieving this goal inevitably
requires at least a unison rhythm section that works just like a well-oiled
engine. The single “Fool's Paradise” opens the dances and
tells about the perceptions we live in today's life among deceptions, illusions
and inevitable disappointments. The protagonist “Fool” is a deluded man who
believes he is living in paradise, but to be reassured of his comfortable
existence he relies on a fortune teller. Unfortunately, the truth is quite
different. His conscience eventually shows him the pure and raw reality of
things as they really are; deception is always just around the corner. The
metallic riff harkens back to 1980s Saxon, the tight rhythm takes the listener
on a backward time jump, where the road and dust take center stage. Unmissable
is the short, sharp, precise guitar solo. Ethereal keyboards begin “Under Your Spell”, another
robust piece in which the band's technical and cultural caliber manifests
itself, capable of absorbing the genre's characteristics and then repurposing
them with its own personality, always full of good background melodies. Stereo effects begin “End Of Time”, here the rhythm
settles into a cadenced sound full of tempo changes. The song moves into different
territories while remaining rooted to a straightforward aside that will delight
admirers of Bon Jovi and White Lion. The ballad has the name “Resonate”, complete with
piano and a heartfelt performance by the excellent Davide “Dave Rox” Barbieri.
It is here that the electric guitar usually stands out with the ever-present
touching solo. Good vocal choruses
should be noted. “99 Lies” has a gloomy, almost ancient beginning, then
blurs into the classic world of melodic Hard Rock. An example of how a style
does not improvise. “99 Lies” is dragging, impossible to resist the beat, while
listening you may find yourself headbanging. “Neverland” takes you back to the
1980s again, when the genre reaped victim after victim dragging many bands to
fame. But there are not only frivolous junctures, there are
also touching themes such as the disease of cancer. “Invisible” speaks of this
very enemy that could lead us to death by extolling the importance of those
close to us during these arduous moments. Piano and vocals open the
well-crafted ballad. “Walking On The Wire” returns to slap us in the face
reminding us that we are always in the presence of Hard Rock. This is followed
by the cadenced “Heaven Is Sold Out” and the closing “Staring Out The Window”,
a small sonic gem embedded in the further semi-ballad. Wheels Of Fire with “All In” prove that music is joy,
background, prominence, energy and much more, yet let us always remember that
Rock in a general sense is not just music, but a real way of life. And bravo...
MS
Anni fa, durante l’attesa di un concerto, ero vicino a due
ragazzi che parlavano degli Iron Maiden, alla fine della discussione uno disse
all’altro qualcosa del tipo: “… si però gli Iron Maiden non sono veramente
metal, loro sono più hard rock”. Questa affermazione, per me sorprendente, mi è
sempre rimasta impressa, perché i Maiden possono essere considerati come il
gruppo di punta della New Wave Of British Heavy Metal (detta in gergo anche
NWOBHM), ovvero il movimento che ha dato il via ufficiale all’heavy metal. È
vero che oggi troviamo nel circuito metal band che fanno una musica
esponenzialmente più potente e cattiva dei Maiden, ma cos’è l’hard rock? Con
questo speciale vogliamo tentare di raccontarvi la nascita e l’evoluzione di
questo particolare genere musicale che, nella storia della musica pop moderna,
è stato fra i più amati dal pubblico e al tempo stesso fra i più bistrattati e
snobbati dai media, da buona parte della critica “colta” e dai puritani del
suono. Eppure, pochi sono i generi musicali che hanno potuto vantare la
longevità e lo stesso seguito di appassionati dell’hard rock. Nel presente
articolo cercheremo di scavare più a fondo possibile nei suoi vasti meandri,
per arrivare idealmente fin verso i primi anni ‘80, con qualche rapido accenno
ai tempi odierni, facendo una specie di gioco di rimando alle due sponde
dell’Atlantico, con la consapevolezza che non riusciremo a ricordare tutti i
gruppi e nemmeno ad esaurire tutti gli aspetti (non vuole essere un articolo
enciclopedico), per cui ci scusiamo per tutte le possibili lacune e vi saremo
davvero grati se avrete la pazienza e la cortesia di volercele eventualmente
segnalare. Buona lettura.
L’hard rock si è sviluppato principalmente in America e in
Inghilterra, com’è noto la prima è stata la culla del rock, il paese dove tutto
ha avuto inizio, la seconda però non ha vissuto di riflesso ed ha partorito
alcuni dei gruppi più influenti di tutto il movimento, mentre gli altri paesi
per lo più sono rimasti a guardare, con pochissime, seppur valide, eccezioni.
C’è sempre stata una forte rivalità fra le due sponde dell’Oceano, quando si
parla di hard rock tutti pensano subito alla triade Led Zeppelin, Deep Purple e
Black Sabbath, che è tutta inglese, ma anche in America troviamo una triade
importante composta da Aerosmith, Kiss e Blue Öyster Cult. Il fenomeno musicale
è stato molto più complesso di quanto potrebbe apparire, in parte a causa di
una genesi articolata e in parte per tutti i sottogeneri e le ramificazioni che
questo tipo di musica col tempo ha prodotto, per cui se è vero che ci sono
fattori comuni fra i vari gruppi, come l’abbondante uso della distorsione nei
suoni, è anche vero che sono molte di più le singole peculiarità. Per fare una
carrellata di esempio possiamo citare i seguenti sottogeneri: dark, prog, glam,
boogie, southern, AOR, kraturock, psichedelia, space, folk…, tutti molto
diversi tra loro, ma tutti con caratteristiche proprie che li distinguono dagli
altri, per cui non si può certo dire che il sound blues dei Mahogany Rush suoni
come quello acido e rivoluzionario degli Edgar Broughton Band, che il boogie
rock dei Bad Company assomigli al songwriting visionario degli Atomic Rooster,
che i pomposi Queen siano accostabili ai progressivi Gravy Train, che i
seminali ed epici Dust abbiano qualcosa in comune col funky degli sperimentali
Trapeze, che gli spaziali Hawkwind siano paragonabili al southern rock dei
Lynyrd Skynyrd, che i campioni di melodia Boston abbiano lo stesso impatto dei
ruvidi Lucifer’s Friend, così pure il folk irlandese degli Horslips è
radicalmente diverso dal proto punk degli spregiudicati New York Dolls e così
via. Tutti fanno hard rock, ma tutti hanno un’identità diversa, forte e ben
definita.
La vitalità dell’hard
rock è derivata senza dubbio dalla sua capacità di trasformarsi, di
contaminarsi e rinascere ciclicamente, fino ad arrivare ai giorni nostri in
piena salute. Infatti se da un lato ci sono i vecchi leoni che continuano a
ruggire, dall’altro sono molti i giovani artisti che si rifanno a sonorità che
possiamo definire “datate” o, se preferite un termine alla moda, “vintage”. Da
alcuni anni è nato spontaneamente tutto un movimento, ancora molto uderground,
di gruppi che suonano musica in pieno seventies style. E molti musicisti vengono
da band di metal estremo, come un ideale percorso all’indietro.
Di certo figli dell’hard rock sono il grunge di Nirvana,
Soundgarden e Pearl Jam e lo stoner di Kyuss, Fu Manchu, Spiritual Beggars e
Orange Goblin, ma anche moltissimo crossover e praticamente tutta la scena
alternative degli anni ’90 a partire dai Jane’s Addiction per arrivare fino ai
Rage Against The Machine può essere considerata come la naturale evoluzione del
genere. Sempre negli ultimi anni sono emerse band come Placebo, Skunk Anansie,
HIM, Cranberries, Muse, Rasmus, che hanno avuto successo suonando un rock
decisamente “duro”.
In tutto questo discorso non abbiamo ancora accennato al
punk, il movimento musicale e politico che alla fine degli anni ’70 ha generato
un vero e proprio tsunami nella scena musicale mondiale. Come tutti sanno, il
punk ha scardinato tutti i grandi gruppi storici, che apparivano ormai spompati
e privi di idee, spesso stritolati da logiche più commerciali che artistiche,
ma anche questo genere, nelle sue forme più ruvide, ha pescato a piene mani
nella tradizione hard rock, tanto che i Sex Pistols, i padri indiscussi del
punk, sono considerati ai limiti del genere, mentre i Motorhead, icona metal
per antonomasia, figuravano insieme alle Girl School nelle prime compilations
punk. Negli anni a venire poi ci saranno gruppi figli del punk e di certa new
wave che torneranno a sonorità prettamente seventies, come hanno fatto ad
esempio i Cult dell’album Love e più ancora con Electric o i Lords of the New
Church di Method to Our Madness, e ancora i Mission, gli Hoodoo Gurus e Zodiac
Mindwarp, ma questa è un’altra storia.
ATTO PRIMO. LA NASCITA DEL MOVIMENTO,
IL SUONO SI FA “DURO”
Facciamo un piccolo passo indietro. Negli anni ’50 prende
sempre più forma una nuova classe sociale, quella dei “teenagers”. Bisogna
sapere che prima di allora i teenagers non esistevano, nel senso che non si
parlava di loro e dei loro problemi. Con l’avvento dell’industrializzazione i
giovani hanno cominciato ad avere sempre più tempo libero (prima si andava a
lavorare a undici dodici anni) e questo fenomeno ha preso rilievo con il boom
economico di quegli anni. Da un lato i giovani hanno assunto una nuova
consapevolezza e si sono aggregati in gruppi sempre più grandi, da un altro
lato il mondo “adulto” ed economico ha cominciato ad accorgersi di loro e a
considerarli come una risorsa e un possibile business. Hanno cominciato a
diffondersi nuove mode e nuovi linguaggi musicali, per i giovani aggregarsi e
suonare è stato un fenomeno in rapida espansione. Con il passare degli anni
questo fenomeno si è amplificato sempre più.
All’inizio degli anni ’60 spadroneggiavano i grandi folk
singer alfieri del pacifismo come Pete Seeger, Joan Baez, Bob Dylan, Phil Ochs,
Donovan, che avevano portato i giovani ad appassionarsi di politica, c’era la
guerra in Vietnam, che tanto peso aveva avuto sull’opinione pubblica, mentre la
gente comune ormai si stava rendendo conto che il bel sogno americano degli
anni ’50 era rimasto tale e la disillusione, mista ad un peggioramento
progressivo del tenore di vita di alcune classi sociali, aveva prodotto nel
tessuto sociale un crescente malcontento.
Le tensioni hanno portato i giovani ad ascoltare musica
“nuova”, più aggressiva, arriva il beat con gli “urlatori”, e in questo caso è
stata la scena inglese che ha preso il soppravvento con Yardbirds, Rolling
Stones, The Who, Kinks, Them, che iniziano a scardinare con prepotenza il canonico
pop edulcorato del tempo.
Non secondario nel diffondere il rock è stato
l’atteggiamento repressivo espresso dall’establishment americano negli anni
‘60, che vedeva nel nascente movimento musicale un pericoloso veicolo di idee
trasgressive, ma questo di fatto ha spinto ancor più a fondo l’acceleratore
ottenendo l’effetto opposto, cioè ha favorito una diffusione sempre più rapida
del movimento musicale.
La protesta, inizialmente cavalcata dai folk singer, che per
lo più proponevano ballate melodiche in chiave acustica, verso la metà degli
anni sessanta comincia a tradursi in suoni elettrici scarni ed essenziali, che
presto diventano decisamente duri. Questo inasprirsi ovviamente rendeva meglio
l’idea stessa di protesta, una vera e propria valvola di sfogo e una forma di
denuncia, che con tutta probabilità ha permesso a molti giovani di manifestare
la propria rabbia attraverso la musica piuttosto che con altre espressioni più
pericolose (che comunque negli anni a venire non sono mancate). L’avvento del
rock “elettrificato” segnò in buona parte la fine dell’epoca dei folk singer e
Bob Dylan fu il primo ad accorgersene. In musica presero sempre più piede le
vibrazioni elettriche, che gridavano il disagio dell’individuo ed esprimevano
una profonda contestazione per aver visto disattese le speranze di quella vita
spensierata e pacifica promessa dai media negli anni ’50, ma nei fatti mai
concretizzata. Anche il grande raduno di Woodstock ha cambiato profondamente le
cose. Per qualcuno è stato l’inizio di una nuova era, ma qualcun altro vi ha visto
un enorme pericolo. Non era mai successo che tanti giovani si riunissero
insieme e non si trattava solo di musica, in campo c’era una profonda
contestazione del sistema sociale e soprattutto di quello economico, sembrava
più un raduno politico-religioso che non di mero intrattenimento musicale.
L’impegno politico diretto nei testi delle canzoni comunque inizia pian piano a
sfumare e lo spirito di protesta viene affidato più all’impatto sonoro che non
ai contenuti. I testi si fanno più egocentrici, al centro non esiste che
l’“Io”. Col passare degli anni i riferimenti nelle canzoni si fanno sempre più
espliciti e toccano primariamente argomentazioni sentimentali e sessuali.
Curioso è che in quasi ogni disco, accanto ai brani “muscolosi” non mancassero
delle bellissime ballate strappacuore, i cosiddetti “lenti”.
Queste tendenze nate in America ebbero facile presa anche
sull’altra sponda dell’oceano, dove si erano create sacche di emarginazione
nelle classi operaie senza lavoro, vittime della “rivoluzione industriale”. Il
movimento musicale inglese prese talmente forza che si iniziò a parlare di
British Invasion, riferendosi al successo riscosso dai gruppi inglesi nella
patria culla del rock, ribaltando in un certo senso il flusso musicale. Questo
ideale conflitto culturale tra giovani è ben testimoniato dal famoso film
Quadrophenia, con le indimenticabili musiche degli Who.
Se questa è stata la genesi “sociologica” del movimento c’è
anche quella più prettamente musicale. La radice prima dell’hard rock è la stessa
del rock più in generale, quindi si tratta di un misto di folk e di blues,
portati all’esasperazione dall’amplificazione degli strumenti. Si può
certamente affermare che le basi su cui in seguito si svilupperà il suono
“duro” sono rintracciabili nella scena blues delle grandi città industriali del
Nord America come Detroit (omaggiata dai Kiss con il cavallo di battaglia
“Detroit Rock City”) e Chigago, dove sono emersi alcuni artisti molto
innovativi come Bo Diddley e John Lee Hooker, che diedero vita ad un blues
“sporco” e carico di elettricità. Questi artisti battevano sul beat, sul tempo,
enfatizzando la parte più ritmica. Il cambio di sound è stato influenzato con
molta probabilità dalle difficili condizioni sociali e dalle tensioni che si
sono acuite in quelle zone, non a caso proprio da Detroit partiranno alcuni dei
gruppi più “cattivi” e “politicamente scorretti” di sempre come MC5, Stooges,
Grand Funk Railroad e gli Amboy Dukes del selvaggio Ted Nugent, senza
dimenticare il grande istrione Alice Cooper.
ATTO SECONDO: LA RINCORSA FRA LE DUE
SPONDE DELL’OCEANO
In Inghilterra intanto fra i giovani comincia a diffondersi
l’amore per il blues e molti musicisti ne subiscono il fascino. Sorta di guru e
catalizzatore di talenti è John Mayall, che ha lanciato quasi tutti i più
grandi musicisti di quel periodo. Nasce il blues bianco. Fra i primi a fare
tesoro delle intuizioni di questi artisti blues ci sono gli Yardbirds, vera
fucina di talenti, non a caso hanno avuto in formazione chitarristi epocali
come Eric Clapton (che avrà il grande onore di vedere il suo nome accanto a
quello di Mayall sullo storico album del 1966), Jimmy Page e Jeff Beck. Il loro
primo album The First Recordings esce su etichetta L+R Records nel 1963.
Seguono i famigerati Rolling Stones del primo album omonimo, che vede la luce
il 14 aprile del 1964 su etichetta Deram ed è un vero spartiacque. Cambiano le
regole del gioco, anche se non è ancora il via ufficiale al movimento, perché è
difficile stabilire con esattezza la nascita dell’hard rock. Le orchestrazioni
armoniose delle big band e dei grandi ensambles lasciano il posto a gruppi di
massimo cinque o sei elementi, gli arrangiamenti diventano sempre più scarni ed
essenziali. Oltre ai già citati Rolling Stones si fanno strada con forza i
rivali Kinks, che sul primo album omonimo pubblicato il 2 ottobre del 1964 su
etichetta Pye piazzano l’epocale “You Really Got Me”, la band spopola in
patria, tuttavia la crudezza dei testi spesso molto espliciti, ma talvolta
anche poetici come in “David Watts”, testi che trattano di argomeni spinosi
come ad esempio l’omosessualità, fa del gruppo la band più “politically
uncorrect” dell’epoca, impedendo di fatto al gruppo di Ray Davies di contendere
agli Stones la palma di miglior gruppo rock del decennio. Poi ci sono gli Who
dell’inno “My Generation” edita sull’omonimo album pubblicato il 3 dicembre del
1965 su etichetta Brunswick. Altra band rivoluzionaria, i loro dischi sono
intramontabili, ma molto importante è anche l’atteggiamento fisico, l’energia
sprigionata ai concerti, l’approccio sul palco, i salti dello stesso
chitarrista, la distruzione sistematica degli strumenti e tante altre gesta
scatenate, che hanno cambiato il modo di essere musicista rock. Sin dal nome si
mette in discussione un’intera generazione, nascono i Mods, Peter Meaden (che
nel 1964 è il loro manager) dichiara in una intervista: “Essere Mod è cercare
di vivere al meglio, anche quando le circostanze e gli eventi ti sono avversi”.
Il film “Quadrophenia” è il rock, l’Lp “My Generation” è l’emblema di una
generazione, la rabbia degli Who è hard rock nella sua essenza più pura. È una
rivoluzione caotica, disordinata, proprio perché di vera rivoluzione si tratta
e non ci sono regole, anzi la vera regola è infrangere tutte le regole, ogni
band sperimenta a modo suo i nuovi suoni, la distorsione viene prodotta “in
casa”, non c’erano ancora le diavolerie che oggi la tecnologia mette a
disposizione dei musicisti, tutti si dovevano arrabattare in qualche modo per
creare i suoni che stavano prendendo piede, non solo fra i giovani musicisti,
ma soprattutto nei gusti del pubblico. L’11 maggio del 1966 esce il debutto
omonimo degli Small Faces su Decca, altra band Mod per antonomasia. Del gruppo
fa parte Steve Marriott, che più avanti fonderà i grandi Humble Pie insieme a
Peter Frampton. Il 9 dicembre 1966 su etichetta Polydor arriva Fresh Cream, il
primo album dei Cream, praticamente il primo “supergruppo” del rock ed anche
uno dei più formidabili power trio di sempre, alla chitarra ritroviamo Eric
“Slow Hand” Clapton, al basso c’è l’ottimo Jack Bruce e alla batteria c’è
l’eccezionale Ginger Baker.
Anche i Beatles, con qualche anno di ritardo, danno il loro
bravo contributo al nuovo genere con l’asprezza sorprendente di “Helter
Skelter” del famigerato White Album, pubblicato il 22 novembre del 1968 su
Apple. Paul era rimasto molto impressionato dall’ascolto di I Can See For Miles
degli Who, pubblicata l’anno prima, così volle sperimentare a sua volta l’energia
di quel nuovo sound definito come “ un concentrato di suoni caotici”. Altri
nomi di spicco sono quelli dei Them di Van Morrison e, in modo minore (per
l’hard rock), i melodici ma essenziali Procol Harum. Poi come dimenticare i
Frost, ma durarono troppo poco.
Il blues “sporco” diventava rock blues e i giovani musicisti
dell’epoca compongono brani retti su riff di organo o di chitarra ripetuti
ossessivamente. La scena del cosiddetto “blues bianco” o “british blues”
capitanata da John Mayall cresce a dismisura sull’impulso di formazioni come
gli Animals di Eric Burdon, dei Ten Years After di Alvin Lee, dei Taste di Rory
Gallagher, e ancora i Fleetwood Mac di Peter Green, i Flamin’ Groovies, i Savoy
Brown, i Groundhogs, mentre sull’altra sponda dell’oceano Atlantico si risponde
al fuoco con i fratelli Johnny ed Edgar Winter in compagnia di Rick Derringer,
i Mountain del mastodontico Leslie West (detti anche i Cream Americani), poi
ancora Allman Brothers Band, Randy Holden, gli Zephyr di Tommy Bolin (il grande
chitarrista di origini pellerossa, che per primo ha avuto l’onere di sostituire
Ritchie Blackmore nei Deep Purple).
Con la British Invasion la vecchia Gran Bretagna sembra
battere ai punti i giovani States, in una rincorsa appassionante, perché negli
USA non mancano gruppi epocali come i Creedence Clearwater Revival, di John
Fogherty, che canta con una ruvidezza inedita, come gli Iron Butterfly, che con
il disco d’esordio “Heavy” (nome profetico) pubblicato dalla Atco nel 1968 e
ancor più con i diciassette minuti di “In A Gadda Da Vida”, title track del
disco successivo uscito lo stesso anno, dettano i canoni della nuova strada da
intraprendere. A San Francisco troviamo i vulcanici Blue Cheer che propongono
un suono sporco e grezzo, prodotto dalla chitarra, torturata a tutto volume da
Leigh Stephens. Il trio in questione nel 1967 fa dell’eccesso uno stile di
vita, dando al rock un significativo cambiamento, mentre il disco d’esordio
Vicebus Eruptum è una vera scossa tellurica, tra l’altro presenta una versione
irresistibile del classico Summertime Blues. A New York ci sono i Velvet
Underground di Lou Reed e John Cale, band molto sperimentale ed intellettuale,
considerata proto punk per eccellenza. Il loro secondo album White Light White
Heat, edito il 30 gennaio 1968 su Verve Records e realizzato in collaborazione
col geniale Andy Warhol, è un capolavoro assoluto del rock, da notare in
particolare la forza della loro immagine, siamo in pieno flower power, una
grande esplosione di colori e loro si presentavano vestiti di nero in aperta
controtendenza. Dal Canada arrivano i selvaggi Steppenwolf del tedesco John
Kay, poi trasferitisi sulla sponda orientale degli States a San Francisco. Sono
stati una delle band più influenti e alcuni loro brani sono dei veri classici.
Da ricordare in particolare che nella loro canzone “Born To Be Wild” del loro
terzo singolo del 1968 esce il neologismo “Heavy Metal”, che in precedenza era
apparso nel racconto Soft Machine del 1962 di W.S. Burroughs e poi ancora nel
1964 in Nova Express, ma di questo parliamo più avanti. Inoltre negli USA ci
sono degli importanti gruppi di rottura come gli MC5 e gli Stooges di Iggy Pop.
I suoni sono durissimi, molto acidi, si parla anche in questo caso di proto
punk e almeno il primo album Kick Out the Jams degli MC5 è un vero manifesto
politico, un impegno che scomparirà con disco seguente e che porterà la band ad
un prematuro scioglimento, nonostante il grande successo iniziale. Poi ci sono
i Mountain, la band del possente chitarrista Leslie West, di vita breve (anche
se si sono più volte riformati), ma che hanno prodotto una serie di veri
gioielli sonori, erano chiamati i Cream americani per l’amicizia con Jack
Bruce. Non a caso, dopo lo scioglimento West formerà, assieme agli amici Corky
Laing e Jack Bruce, un’altra delle icone dell’hard rock: i West, Bruce &
Laing. Sempre a New York troviamo i Vanilla Fudge, che nel ’66 rileggono in
chiave nuova grandi successi di altre band come i Beatles, ma il boom arriva
con la pubblicazione in chiave hard rock di You Keep Me Hangin’ On delle
Supremes.
Ma tutto prende una violenta accelerazione quando il 16 dicembre
del 1966 esce il singolo Hey Joe della The Jimi Hendrix Experience capitanata
appunto da tale Jimi Hendrix, il guitar hero per eccellenza. Il 12 maggio del
1967 esce l’album Are You Experienced, si tratta di uno dei dischi più
importanti e influenti del rock. Hendrix è uno dei rari musicisti di colore a
suonare rock, ed è considerato come il padre putativo dell’hard rock. È bene
chiarire che l’hard rock non nasce (solo) con lui, ma dall’indimenticabile
chitarrista afroamericano si eredita l’approccio tutto nuovo allo strumento,
tanto che girano varie leggende sui commenti dei grandi guitar heroes
dell’epoca, che restavano ammutoliti davanti alle performance di questo
introverso ragazzo di colore, che sul palco arriverà addirittura ad incendiare
letteralmente la sua sei corde in un suggestivo rito sacrificale. Questo
indimenticabile figlio dei fiori stabilisce un rapporto fisico con la sua
chitarra, la distorsione viene portata all’estremo, l’uso violento che egli
propone mette in luce un nuovo modo di concepire il rock ed il blues. Proprio
il lamento metallico, quasi raccapricciante, che si produce durante la
distruzione, può essere considerato come il primo vero vagito dell’hard rock.
Purtroppo la carriera folgorante di Jimi, il genio della chitarra, si spegne
prematuramente e molto misteriosamente. La causa ufficiale è l’abuso di quelle
maledette sostanze che tante vittime hanno fatto nel mondo del rock. Ci sono
anche ipotesi controverse e comunque la sua morte rimane un vero mistero.
Sull’esempio di Jimi i chitarristi Jeff Beck, Eric Clapton, Alvin Lee, Jimmy
Page, Ritchie Blackmore iniziano a lavorare su nuovi suoni. L’organo hammond,
tanto caro e indispensabile negli anni ’60, pian piano cede il passo alla
chitarra Fender e il chitarrista diventa la figura simbolo e vero leader del
gruppo.
Se questa è
l’evoluzione dei “grandi” gruppi, non dobbiamo dimenticare l’importante
contributo dei cosiddetti “minori”. Allora via al garage rock coi seminali
Music Machine (anche loro vestono di nero), il cui unico disco Turn On the
Music Machine del ’66 è un vero must. I riff sono per lo più sostenuti
dall’hammond, ma sono secchi e ossessivi, tanto che potremmo parlare di proto
hard rock, bellissima la loro versione di Hey Joe. Poi ancora come non
ricordare gli Shadows of Knight, i Misunderstood, i Litter, gli SRC, gli Zior e
una miriade di altri gruppi oggi dimenticati da molti, ma autori di dischi
veramente belli. Tutte queste band iniziano a sperimentare e definire la distorsione
del suono, dando un contributo molto importante. Una band sperimentale che ha
avuto un forte impatto sono stati i Love di Arthur Lee, uno dei chitarristi più
innovativi dell’epoca. Nel loro disco di esordio omonimo, datato ’66 compare
un’altra splendida versione di Hey Joe. Anche loro in bilico tra garage e
psichedelia acida, con un sound tagliente e molto duro. Altra band molto
importante sono stati gli Argent di Rod Argent (ex Zombies) e dell’hit maker
per antonomasia Russ Ballard (cercate il suo disco Barnett Dogs, hard rock di
gran classe), le loro linee armoniche saranno la base di molte formazioni, in
particolare avranno un notevole influsso sul pomp.
Sempre fra i “minori” si possono annoverare talenti
notevoli, a cui poi il tempo ha reso un po’ di giustizia. Sul fronte inglese
troviamo per esempio formazioni come gli Andromeda del chitarrista cantante
John DuCann, il quale dopo il disco omonimo “Andromeda” (RCA-1969), andrà a
militare nelle file dei più considerati Atomic Rooster e poi ancora nei
durissimi Hard Stuff. Nel disco si possono ascoltare ottime intuizioni, molta
chitarra con riff Hendrixiani e della psichedelia. In definitiva un lavoro di
hard prog. Un discorso analogo si potrebbe affrontare anche con il leggendario
gruppo High Tide, proveniente si dal progressive rock a tinte dark, ma in
possesso di una durezza sonora davvero sconcertante, ottenuta tra l’altro con
un uso rivoluzionario del violino. E’ proprio lo strumento di Simon House a
tessere melodie oscure, mentre la pesantezza viene relegata alla chitarra
elettrica di Tony Hill, che già aveva dato dei segnali importanti coi
precedenti Misunderstood. I due dischi prodotti, “Sea Shanties” (Liberty-1969)
e “High Tide” (Liberty-1970), sono dei veri capolavori, gli altri titoli
disponibili sul mercato sono tutti postumi. Mentre negli USA fra i “minori”
troviamo gruppi eccezionali come i Dust e i Bang, autori di vere gemme anche se
commercialmente sfortunate.
Tornando ai nomi più noti, una menzione a parte merita uno
dei chitarristi più influenti di sempre: Jeff Beck degli Yardbirds, che
rifiuterà qualsiasi compromesso commerciale (clamoroso il suo rifiuto di
entrare nei Rolling Stones) per portare avanti le sue idee, con una carriera
solista irreprensibile, anche se non sempre ricca di soddisfazioni economiche.
Insieme al grande Rod Steward e successivamente con la band Beck, Bogert and
Appice, scriverà delle pagine veramente indimenticabili. Negli States, invece,
è stato un chitarrista molto influente Rick Derringer, che aveva fatto fortuna
al fianco dei fratelli John ed Edgar Winter, ma anche da solista ha creato veri
gioielli, spesso venati di hard blues.
Altro elemento di spicco, come abbiamo detto, sono stati i
cantanti, che hanno fatto la fortuna di molte formazioni. Cosa sarebbero stati
i Deep Purple senza Ian Gillan, i Led Zeppelin senza Robert Plant o i Queen
senza Freddy Mercury? Uno dei primi singer con la voce perfetta per il genere
che stava nascendo è stato John Fogerty dei Creedence Clearwater Revival. La
sua voce roca e graffiante prendeva nettamente le distanze dai cantanti rock
pop dell’epoca. Poi c’è stata la personalità di artisti come Iggy Pop e Alice
Cooper, ma queste considerazioni ci porterebbero troppo lontano. Comunque
vogliamo citare un altro singer fondamentale Bob Seger, la cui voce roca sarà
un punto di riferimento per Bruce Springsteen. Seger si approssima
stilisticamente a gruppi come Grand Funk Railroad, pur senza eccessivi
riconoscimenti di vendite. Solo verso la metà degli anni ’70 raggiunge a pieno
la maturità artistica ed il giusto successo commerciale.
Altro genere musicale fondamentale, a cui abbiamo accennato,
è stata la psichedelia, che ha avuto un’influenza meno diretta del beat e del
garage, a livello di impatto sonoro, ma la sua importanza si è espressa a
livello compositivo ed esecutivo. Le lunghe jam session improvvisate di Deep
Purple e Led Zeppelin probabilmente non ci sarebbero state senza le intuizioni
di Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service, Spirit e
del visionario Syd Barrett dei Pink Floyd. In questo mondo di eccessi non
vengono meno le droghe, ereditate proprio dai movimenti psichedelici del
periodo. L’abbondante uso di LSD fu spesso il pretesto per la composizione di
brani stralunati, ma quello che era sembrato un paradiso artificiale si
dimostrò presto un vero inferno con l’arrivo dei primi decessi illustri. La
deriva autodistruttiva prese inizio al maledetto concerto di Altamont del 1969
dove venne ucciso Meredith Hunter per mano di un membro del personale della
sicurezza formato dagli Hells Angels. I sogni di pace e amore si spengono
bruscamente e finisce un’epoca.
ATTO TERZO: IL MOVIMENTO DILAGA
C’è voglia di superare ogni limite e fra coloro che amano
gli eccessi ci sono gli inglesi Humble Pie, che prendono in consegna le
sonorità anni ’60 e le trasformano per i ’70. Persino l’atteggiamento rissoso
di quel periodo da parte dei giovani viene fuso nel suono della band. La
personalità è ovviamente forte, così come la voce calda di Marriott e l’oscura
chitarra di Peter Frampton. Saranno “Only A Roach’ Earth And Water” e “The Light”
tratti dall’ottimo “Humble Pie” (A&M-1970) a dettare loro la strada
dell’hard rock.
Verso la fine degli anni ’60 questo movimento sonoro
innovativamente violento inizia a spargersi a macchia d’olio, accorrono anche
tipi poco raccomandabili, come il “signore delle tenebre” Ozzy Osbourne. I suoi
Black Sabbath hanno un suono mai sentito fino ad ora e questo per merito della
chitarra pesantissima di Tony Iommi, una John Diggins JD. La tecnica limitata
della band fa si che tutto si basi su riff semplici, granitici e ripetitivi. Il
tocco di Iommy è unico a causa della mancanza di alcune falangi della mano
perse in un incidente, mentre la voce di Ozzy è sgraziata ma terribilmente
suggestiva. Mai prima di allora c’era stato un tale connubio fra tematiche
oscure e suoni sepolcrali, il movimento del dark rock è nato alcuni anni prima
del debutto dei Black Sabbath, ma la forza evocativa del sound di questa band
ha fatto breccia nel pubblico, divulgando contenuti altrimenti poco accettati.
Curioso il fatto che la band abbia scelto di munirsi di enormi crocefissi per
difendersi in qualche modo dalle energie negative che avevano evocato.
Nello stesso periodo dilaga anche un altro genere musicale
diventato col tempo sempre più importante, il colto rock progressivo di Genesis,
King Crimson, Van Der Graaf Generator, Jethro Tull, Yes e Pink Floyd. Molti di
questi gruppi hanno sperimentato la distorsione, in particolare i King Crimson,
che hanno prodotto alcuni degli album più duri del prog. Anche i Jethro Tull
del menestrello Ian Anderson sperimenteranno suoni molto duri, si pensi ad
Acqualung. Comunque per lo più il progressive si è distinto per eleganza, con
magnificenti spettacoli dal vivo, molto colorati ed interpretativi.
Diametralmente opposti i concerti dell’hard rock, scarni di scenari e
focalizzati principalmente sul carisma del chitarrista o del cantante. Di
questi il più sensuale ed ammaliante è sicuramente Robert Plant, leader dei
famigerati Led Zeppelin, per meglio dire la storia dell’hard rock. Cosa
aggiungere su questa band che non sia stato già detto? Credo più nulla, se non
forse sottolineare il modo violento ed inusuale per i tempi, con cui John
Bonham percuote la batteria. Il duo Plant-Page ha un’intesa inverosimile e le
loro composizioni sono a dir poco variegate, a volte molto blues, melodiche e
sensuali per poi lasciarsi andare quasi all’improvviso in cavalcate hard di
rara potenza.
Ma il guitar hero per eccellenza del tempo porta il nome
dell’americano Ted Nugent. Proveniente dagli Amboy Dukes si produce in assoli
elettrici a dir poco tirati, tutti dotati di stupefacente energia. Diventa
personaggio influente e questo lo riscontriamo ad esempio in gruppi come il
trio Highway Robbery. Michael Stevens è il chitarrista e compositore dei pezzi,
tutti potenti e ruvidi, un hard rock a tratti feroce per questo periodo. Anche
grazie a lui il genere prende una determinata fisionomia. Rimanendo in tema di
chitarristi d.o.c. arriviamo inevitabilmente a Ritchie Blackmore. La tecnica
dimostrata è sopraffina, la sua band proveniente nientemeno che dal prog e ha
lo storico nome di Deep Purple. Il suono propostoci è particolare, molto
barocco e neoclassico, grazie anche all’apporto dell’Hammond di John Lord, ma
sono le tre scarne note di “Smoke On The Water” (1972), ad essere la vera icona
dell’intero movimento, tre sole note molto facili da strimpellare e che si
stampano subito in testa dopo un solo ascolto. Rock duro e tecnica eccellente
sono dunque l’arma vincente di questa band, ma c’è anche un cantante dalla voce
incredibile dal nome Ian Gillan. I Deep Purple sono una delle poche band ad
essere sopravvissute fino ai giorni nostri, anche se la formazione è stata
continuamente rimaneggiata, con una discografia molto dignitosa. Nei Purple ha
militato per un certo tempo come bassista il grande Glenn Hughes, che merita
una menzione. Il nostro in realtà è un cantate eccezionale, ribattezzato “the
Voice of Rock”. Aveva tentato fortuna coi Trapeze, insieme a Mel Galley e Dave
Holland, una band che aveva fuso il funky all’hard rock. Hughes poi ha dato
vita ad una lunga carriera solista che arriva sino ai giorni nostri, costellata
di ottimi dischi. Da ricordare anche la sua collaborazione coi Black Sabbath
per Seventh Star e sfociata poi sui bellissimi album a nome Iommi.
A proposito dei grandi non possiamo non ricordare la band di
Freddie Mercury, i pomposi Queen. I primi dischi da loro prodotti sono
assolutamente hard rock e della miglior pasta, poi sappiamo tutti il percorso
che il quartetto ha intrapreso in seguito, con successi planetari annessi, ma
sempre meno hard rock. A questo punto la storia scorre velocemente, come avrete
capito è davvero difficile fare una cronologia perfetta. I semi cominciano a
dare i frutti, ecco allora spuntare dappertutto band di inestimabile valore,
come Uriah Heep, Atomic Rooster, Blue Öyster Cult, ZZ Top, solo per fare
qualche nome.
Gli Uriah Heep sono una band inglese che ha avuto un
successo planetario, raggiungendo perfino la Russia e hanno venduto nella
carriera più di 40 milioni di album. I primi passi vengono fatti dal
chitarrista Mick Box e dal cantante David Byron nel 1966 sotto il logo Spice.
Nel 1970 la line up si stabilizza temporaneamente con Paul Newton (basso), Alex
Napier (batteria) e Ken Hensley (tastiere). Il disco d’esordio del Giugno 1970
“Very ‘eavy, Very ‘Umble” (Vertigo-1970) viene accolto malamente dalla critica,
a dir poco viene stroncato, ma il pubblico riserva loro ben altre
soddisfazioni. Gli album a seguire tratteranno di argomentazioni legate alla
mitologia ed il 1972 sarà senza dubbio il loro anno più prolifico a livello
d’ispirazione.
Una delle formazioni più influenti e meno ricordate sono
stati i gallesi Budgie, autori di un hard rock selvaggio, hanno dettato gli
stilemi ripresi anni più tardi dagli alfieri della NWOBHM. Ascoltate la canzone
"Breadfan", il ritmo veloce accompagnato da un heavy blues
trascinante è stato di ispirazione per molte band fra cui Iron Maiden, Judas
Priest e Metallica, che ne hanno fatto una cover. Tra l’altro pare siano stati
il primo gruppo hard rock occidentale a suonare oltre la cortina di ferro.
Facciamo ora un piccolo passo indietro per occuparci
nuovamente di sonorità sulfuree. Non solo Black Sabbath nell’hard rock, ci sono
in giro anche altri personaggi “particolari”, fra i quali spicca il nome di
Alice Cooper. Questo prende il nome da una strega realmente esistita e bruciata
viva a Salem dai puritani. Gli spettacoli dal vivo proposti hanno fatto storia.
Sangue, situazioni crude e violente, serpenti e suore nude, fanno parte del
baraccone. Ma quello che Alice crea è il face-paint, il viso pitturato di
bianco con occhi neri disegnati, una rivoluzione che apre una nuova serie di
proseliti. Da notare che tra i primissimi gruppi (forse il primo in assoluto)
ad usare il trucco facciale figurano gli italianissimi Osanna, seguiti poi dai
Genesis di Peter Gabriel. Successivamente saranno moltissimi altri artisti che
svilupperanno questa idea, come i Kiss, fino a giungere ai giorni nostri con
miriadi di gruppi black metal.
Proprio i Kiss agli inizi degli anni ’70 giocano con il
trucco ed inventano personaggi. Paul Stanley è l’uomo sexy, Gene Simmons il
vampiro, Ace Frehley l’uomo venuto dallo spazio e Peter Criss l’uomo gatto.
Fuochi pirotecnici, pedane che si alzano, ancora sangue e luci, tante luci
fanno degli spettacoli dei Kiss un appuntamento veramente unico ed
indimenticabile. Come per Alice Cooper, uno dei pochi casi in cui l’hard rock
si arricchisce con l’immagine.
In Inghilterra comunque troviamo il duca bianco, David
Bowie, insieme a Marc Bolan dei T-Rex (in precedenza Tyrannosaurus Rex) che
puntano molto sull’immagine, il primo poi con i suoi Spiders From Mars, sarà
uno dei musicisti più influenti di tutta la scena inglese. Con loro nasce il
glam, movimento molto romantico, ma anche pieno zeppo di eccessi. Purtroppo per
Marc questi saranno fatali: morirà nel ’77 a causa di un incidente stradale.
Ma non solo America ed Inghilterra, infatti il genere prende
campo anche in altri luoghi fra cui la lontana Australia. I fratelli Malcom ed
Angus Young propinano uno spettacolo diametralmente opposto a quello milionario
dei Kiss, Bon Scott è un buon animale da palco, ma è il chitarrista indiavolato
Angus Young a catalizzare l’attenzione sugli AC/DC. Niente scene incredibili,
solo tanto sudore e Angus vestito da scolaretto che scorrazza per il palco
dimenando continuamente il capo (come diamine farà?). I riff sono vincenti, la
formula è scarna ed essenziale, grezza al punto giusto con tanto di ritornelli
da cantare assieme a squarciagola durante i concerti. Tuttavia è ancora la
droga a mietere l’ennesima illustre vittima e Scott se ne va. Gli AC/DC
proseguono il cammino inesorabilmente fino ai giorni nostri con la consueta
grinta, senza cambiare una virgola al sound e con Brian Johnson al microfono.
L’hard rock prosegue la propria evoluzione con naturalezza,
con gruppi che sapranno unire melodie incredibili a riff taglienti come gli
UFO, di Phil Mogg, Pete Way e Michael Schenker. La voce di Phil è fra le
migliori in circolazione (ancora oggi è calda è potente come se il tempo non
fosse passato), mentre il lunatico Schenker è sicuramente uno dei migliori
chitarristi che il panorama ci propone. Cosa dire poi degli Aerosmith?
Considerati da molti la più grande band di rock’ n’ roll del mondo, nei
seventies sono distanti da come li conosciamo oggi. Più sporchi, rozzi, cattivi
e drogati, rientrano a pieno merito nel vocabolario dell’hard rock. L’esordio
discografico del 1973 è limitato dall’inesperienza, ma lascia intuire le potenzialità
del quintetto capitanato dal carismatico Steven Tyler. Sono il perfetto esempio
di rock di successo: soldi, donne, droga ed alcol, uno stile di vita
assolutamente insostenibile, ma dannatamente hard rock.
Qualche volta a dominare la scena non è stato un chitarrista
ma un bassista, come nel caso dell’irlandese (mi piace che non si parli solo di
inglesi) Phil Lynott. La sua carriera è stata contrassegnata dall’amicizia con
Gary Moore, si conosceranno negli storici Skid Row (ovviamente non quelli di
fine anni ’80 capitanati dal bellone Sebastian Bach). Poi Phil darà vita ai
Thin Lizzy, una band epocale. Il dominio di Lynott all’interno della band porta
a diversi screzi, per cui i membri vicino a lui si allontanano per altre
strade, intercalandosi con nuovi, forse proprio per questo motivo che i Thin
Lizzy non riescono a sfondare sul mercato come avrebbero meritato. Molte band a
venire li hanno citati come importante influenza. Sono Irlandesi, con la
passione per il folk celtico, che andrà ad influenzare i primi lavori, a
partire dal 1970. La lunga carriera giunge fino al 1984 ed è ricca di buoni
frutti. Purtroppo nel Natale del 1985, Lynott collassa per poi spegnersi
definitivamente il quattro gennaio del 1986, un’altra vittima dell’eroina. I
Thin Lizzy sono stati un vero e proprio contenitore di grandi artisti. Ecco
alcuni nomi: Midge Ure (futuro Ultravox), Brian Downey (grande batterista),
Scott Gorham, Eric Bell, il già citato Gary Moore e Brian Robertson. Sempre
dalla romantica “isola verde” arrivano gli Horlips, un gruppo poco conosciuto
ma che ha scritto pagine di musica sublimi rileggendo i classici folk in chiave
hard rock.
Tornando in Inghilterra troviamo una band che fa uso
abbondante di chitarre elettriche in chiave boogie e rock ’n’ roll e che porta
il neonato hard rock nelle classifiche alte: gli Status Quo. La carriera
artistica è pressoché paragonabile a quella degli AC/DC, non si muovono di una
virgola dal proprio sound e dai loro immancabili jeans. Dice il chitarrista
Rick Parfitt del loro stile: “…Forse sono le nostre due chitarre che suonano
all’unisono a tirare fuori questo sound unico che abbiamo. Molti hanno tentato
di imitarci, ma se non vanno perfettamente insieme, il risultato non si
raggiunge”. Anche i Wishbone Ash usano due chitarre che suonano all’unisono,
creando un sound magico in un contesto più vicino al prog.
Tornando negli USA troviamo i Grand Funk Railroad (anche
loro dell’area di Detroit). È una delle band più rumorose dei primi anni ’70.
Il trio dà il meglio di sé durante i concerti. Notati nientemeno che da Paul Mc
Cartney, vengono messi sotto contratto dalla Capitol. Tuttavia il loro sound
troppo “Heavy” viene messo al bando anche dalle radio. Malgrado tutto le
vendite non mancano. Una curiosità, Mark Farner viene classificato dal pubblico
come il chitarrista con i capelli più lunghi del rock. Poi ci sono i James Gang
di Joe Walsh, una formazione baciata dalla fortuna commerciale, anche se sono
da ricordare solo i dischi del primo periodo. Da questa formazione è uscito il
leggendario Tommy Bolin (ex Zephir) che rimpiazzerà Blackmore nei Deep Purple.
Altra band di discreta popolarità sono stati i Bloodrock, nati nei primi anni
sessanta con diverso nome, pubblicano l’album omonimo di debutto nel 1970.
L’immagine era più forte della musica proposta, un heavy blues molto
psichedelico.
A metà anni ’70 i gruppi hard rock americani tendono però a
spostarsi verso sonorità più melodiche, che strizzano l’occhio alla classifica.
In realtà si tratta di prodotti di tutto rispetto, fatti con grande cura, ma
che si allontanano dai percorsi tracciati fin qui in questo articolo. Boston,
Foreigner, Toto, Journey, Balance sono alcuni nomi fra i primi che mi vengono
in mente. La cosa ha avuto anche un eco nella vecchia Inghilterra e i The Babys
del talentuoso cantante John Waite ne sono l’esempio più importante. Poi una
band fuori dagli schemi, ma che merita una menzione speciale ci sono i Cheap
Trick, col loro show multicolore, che in un contesto qualitativamente alto
proponeva le versioni parodistiche dei cliché tipici del macismo hard rock.
E le donne sono state a guardare? In un contesto talvolta
rozzo, macho e sporco, dove le donne erano viste più nel ruolo di groupie, è
evidente che spazio sul palco ce n’è stato poco, non tanto per l’impedimento
dei maschi ai quali, anzi non sarebbe certo dispiaciuta più presenza, quanto
per una scelta di fondo che vedeva nel maschio l’alfiere perfetto del rock.
Qualcuna comunque ci ha provato e con ottimi risultati. Ricordiamo la prima
band tutta al femminile: le Fanny, attive fin dal 1970, e con uguale piacere
Suzy Quatro con l’esplosivo lp “Quatro” (Bell-1974). Meritano una menzione
anche Bonny Tyler ed Ellen Foley, passate da coriste a lead singer. Poi come
dimenticare gli Heart delle sorelle Wilson. Ma anche la poetessa Patty Smith,
che poteva essere la lead singer dei Blue Öyster Cult, tra l’altro compare come
ospite nell’album Agent of Fortune del ’76. La Smith, pur non essendo proprio
hard rock, comunque ha avuto la sua influenza. Buone anche le carriere di Pat
Benatar, Lita Ford e Joan Jett, queste ultime due provenienti dalle The
Runaways e quella più bizzarra dell’ex pornostar Wendy O’ Williams, amica di
Lemmy Kilmister dei Motorhead, oggi purtroppo non più con noi. Poi una leggenda
narra che la patinata Diana Ross volesse fare dell’hard rock, ma che le fosse
stato vietato dalla casa discografica.
Un altro importante
tassello viene posto dai Free di Paul Rodgers (che sappiamo aver preso per un
periodo il posto del compianto Mercury nei Queen). L’hard blues proposto è
importante, “All Right Now” ha un riff che ha molto contribuito all’evolversi
del movimento ed è stato ripreso e rimodellato da molte formazioni, qui ancora
praticamente agli albori. Rodgers verso la metà degli anni ’70 abbandonerà i
Free per dar vita ad un nuovo e fortunato progetto boogie rock dal nome Bad
Company. L’hard rock è della miglior specie, eccellente nelle ballate, dove la
voce di Paul diventa interprete stupenda. Il merito di queste sonorità vanno
attribuite anche al chitarrista Mick Ralphs (ex Mott The Hoople).
Gli Atomic Rooster meritano uno spazio tutto loro, sono
sempre stati sottovalutati dal grande pubblico, ma i dischi sono di una
bellezza eccezionale ancora attuale. Il loro dark sound farà scuola e ancora
oggi si trovano molti giovani artisti che si ispirano a loro.
Dall’altra sponda dell’Atlantico rispondono i grandiosi Blue
Öyster Cult. Se il termine “Heavy Metal” esce dalla canzone degli Steppenwolf,
è proprio con i BÖC che viene associato alla musica per la prima volta
(qualcuno dice che in precedenza fosse stato usato dalla famosa rivista Creem
associato ad una recensione dei Sir Lord Baltimore, anche se come “heavy
music”), comunque il neologismo appare ancora prima negli scritti di Burroughs,
un autore fondamentale per tutta la beat generation. I primi tre album del
gruppo newyorkese sono delle pietre miliari che non dovrebbero mancare nella
discografia di ogni buon rocker. I cinque hanno dato vita ad un sound oscuro e
unico, con testi finalmente intelligenti e “diversi” dai soliti cliché, si
parla di fantascienza, di storie limite e di poesie urbane. Come abbiamo
accennato, si mormora che il cantante del gruppo dovesse essere la poetessa
Patty Smith e forse questo avrebbe cambiato parte della storia del rock, fatto
sta che i BÖC sono entrati nella storia anche se forse avrebbero meritato una
risonanza maggiore. E ancora vanno ricordati i Foghat, accostabili ai James
Gang, ma più seminali e potenti.
Proseguendo negli anni, verso la metà dei ’70 troviamo il
nostro hard rock più in forma che mai, grazie soprattutto al sorgere
vertiginoso di nuove formazioni, tutte desiderose di distinguersi dalla massa.
Una delle band americane che hanno aperto nuove soluzioni sono gli Angel, non
tanto per le vendite, quanto per l’influenza stilistica. Gli angeli del maestro
Greg Giuffria si presentano vestiti di bianco con tanto di strumentazione in
bianco e vengono notati da Gene Simmons, che li segnala immediatamente
all’etichetta Casablanca. Con loro l’hard rock è ai confini con il pomp rock,
di qui l’importanza storica.
Anche il Canada dà il proprio apporto alla causa. Nel tempo
ascolteremo artisti importanti come Guess Who, Bachman Turner Overdrive,
ovviamente i progressivi Rush che meriterebbero un maggior approfondimento, in
fondo però solo il loro primo album è da considerarsi hard rock, e ancora Saga,
Prism, Moxy, Max Webster, Triumph, ma verso la metà degli anni ’70 c’è un
chitarrista dal nome Frank Marino che ha grandi cose da raccontare. Il rock
suonato è totale, in esso aleggia hard blues, psichedelia e qualcosa di
Hendrix, suo vero ispiratore. La Gibson improvvisa storie che consiglio di
andare a rispolverare, a partire dal disco d’esordio “Maxoom” (Kot’Ai-1973).
Più legati al classico blues in America troviamo il power trio
degli ZZ Top, famosi per le lunghissime barbe, il loro hard rock è essenziale e
diretto, ma il grande successo arriverà solo negli anni ’80. Comunque sono fra
i fondatori della componente hard del southern rock (conosciuto anche come rock
sudista). Nello stesso periodo troviamo i meno fortunati Black Oak Arkansas,
che con i tre chitarristi ed una vita on the road alquanto movimentata, hanno
dato il loro bravo contributo. L’atteggiamento “glam” e catalizzatore del
cantante Jim Dandy è precursore di atteggiamenti provocatori da “animale da
palco”, successivamente ripreso anche dal grande David Lee Roth dei Van Halen e
da migliaia di altri futuri singers.
Non da poco il fatto che i Black Oak Arkansas sono stati
anche gruppo di riferimento per i più fortunati Lynyrd Skynyrd. Il southern
rock che suonano ci porta a conoscenza di una band dal passato rissoso, la
posizione conservatrice del gruppo non è tanto politica, quanto
social-popolare. Tacciati di razzismo, suonano un rock duro e diretto che va a
pescare nel blues e nel country. Sicuramente precursori nell’uso di due o tre
chitarre, in seguito emulato da numerose altre band.
Anticipatori del suono stelle e strisce, poi tanto caro ai
Van Halen , sono i Montrose del guitar hero Ronnie Montrose e del cantante
Sammy Hagar (guarda caso futuro Van Halen). Il loro brano “I’ve Got the Fire”
qualche anno dopo sarà una delle prime di una lunga serie di incendiarie cover
proposte dagli Iron Maiden. A ben guardare il sound dei Montrose era già puro
heavy metal.
EPILOGO E NUOVA VITA
A questo punto della storia, verso la fine degli anni ’70,
succede un passaggio importante. Parallelo al movimento hard rock e talvolta
con diversi punti di congiunzione, si è sviluppato il movimento progressive o rock
romantico, come qualcuno lo chiamava in origine. Questi due grandi contenitori
sonori arrivano alla fine del decennio spompati e privi di sbocchi, con le
grandi band che venivano definite ironicamente “dinosauri” del rock. C’era
bisogno di qualcosa di nuovo perché il pubblico era stanco di lunghe jam
sessions e di suite auto celebrative, la musica stava diventando o cervellotica
o ripetitiva, o autoreferenziale, con le case discografiche che spingevano i
gruppi per produrre hit da vendere velocemente. Così è arrivato l’esatto
contrario di tutto quello che c’era allora: il punk.
Ancora più sporco e grezzo dell’hard rock, ancora più
essenziale e diretto, con Sex Pistols, Damned, Still Fingers e Clash, il punk,
vero terremoto, apre nuove possibilità artistiche. Da un lato l’hard rock si
fonde col punk per dare vita alla new wave of british heavy metal. Da un altro
lato alcune formazioni mantengono la presa con nuove band, sempre più tecniche
e carismatiche, la lezione dei maestri passati viene perfettamente assimilata.
Ecco nascere formazioni che hanno fatto ancora la storia, come ad esempio i
Rainbow, una delle più famose “superband” di hard rock, fondati da Ritchie
Blackmore a seguito dell’uscita dai Deep Purple, nella cui line-up vediamo
alternarsi artisti stratosferici come Joe Lynn Turner, Roger Glover, Graham
Bonnet, Cozy Powell, Don Airey, e in particolare un cantante dalla voce
memorabile come Ronnie James Dio, che proveniva da una semisconosciuta band di
hard blues dal nome Elf. Come non citare la famosa e bella canzone “I
Surrender” affidata proprio alla potente ugola di J.L. Turner, un must.
Non da meno i Whitesnake dell’incredibile vocalist David
Coverdale. La discografia del serpente bianco è ricca di buone realizzazioni. I
Judas Priest di Rob Halford si intersecano con sonorità oscure e metalliche,
creando un filone che sfocerà nel metallo fuso più pesante, i Saxon di Byff
Byford racconteranno di battaglie, i teutonici Scorpions di donne, così l’hard
rock si modifica in miriadi di soluzioni, sempre più prossime al nascente heavy
metal.
Oggi siamo nel nuovo millennio e con piacere constatiamo lo
stato di buona salute del genere, ci sono molte piccole etichette discografiche
specificamente dedicate al sound dei seventies. Alla faccia di tutti coloro che
hanno sempre denigrato l’hard rock e che gli hanno pronosticato una vita breve.
Le formazioni sono tante, troppe da citare, ma soprattutto la lezione impartita
dai gruppi di hard rock è riscontrabile in quasi tutti i gruppi a venire. “…
Long Live Rock’N Roll” e come disse il sommo poeta per bocca di Virgilio “Non
ti curar di loro ma guarda e passa”.
COROLLARIO, GLI ALTRI PAESI
Ogni tanto abbiamo citato anche artisti di altri paesi, ma
per chiudere il discorso ci sembrava giusto dire ancora qualche parola. La
Germania è l’unico paese che riesce in qualche modo a tenere testa allo
strapotere angloamericano, la musica dura ha buoni proseliti, in primis ci sono
i già citati Scorpions di Klaus Meine e del talentuoso Uli Jon Roth. Poi fra le
band più interessanti vanno menzionati i Birth Control, gli Epitaph, i Jane e i
Lucifer’s Friend. Qualche anno dopo arrivano gli Accept di Udo, che porteranno
l’hard rock direttamente nell’heavy metal, ma i primi lavori nascono proprio
dal nostro genere in questione.
Abbiamo menzionato gli australiani AC/DC dello scatenato
scolaretto Angus Young, una vera istituzione per tutto il movimento. Al pari
dei grandi nomi citati, gli AC/DC sono stati per intere generazioni il primo
gruppo da cui si partiva per avvicinarsi a questo genere. Ma l’Australia ha
avuto anche altre stelle, come i Cold Chisum, che però non hanno saputo
suscitare la stessa attenzione degli AC/DC.
Non sono mancate formazioni giapponesi, svedesi e di altri
paesi, ma come abbiamo detto all’inizio questa non è un’enciclopedia e quindi
se siete curiosi possiamo approfondire in futuro.
Infine l’Italia, il nostro paese. Negli anni ’70 ci sono dei
complessi che hanno in qualche modo fatto presenza nell’ambito, anche se in
realtà il loro posto è più consono nell’hard prog, come per esempio i Biglietto
Per L’inferno,i Procession, i New Trolls, il Rovescio della Medaglia, gli Osanna. Proprio il
disco “Biglietto Per L’inferno” (Trident-1974) ci mostra una formazione si
giovane, ma oltremodo preparata, con testi assolutamente intelligenti ed un
cantato (almeno per questa volta) indovinato. Oppure i Trip di Joe Vescovi, con
chitarre Hendrix style. Diciamo che in realtà il nostro movimento hard rock
vero e proprio comincia verso la fine degli anni ’70 a cavallo con gli ’80,
quando all’estero tutto è appianato. Restano comunque da sottolineare band di
indubbio valore come i Vanadium di Pino Scotto, o la Strana Officina, ma qui
siamo già alle soglie degli anni ’80, agli albori della cosiddetta NWOIHM e
anche questa è tutta un’altra storia. GIANCARLO BOLTHER / MASSIMO SALARI