Dietro
al nome Émonis si cela un artista noto a molteplici addetti ai lavori del
settore Metal e Prog, Simone Pesatori.
Il
cantante e fondatore dei Sintonia Distorta si cimenta in un nuovo percorso
musicale, come un volersi mettere alla prova ma allo stesso tempo cercare di
dare un colore differente al proprio estro artistico.
In
questo esordio solista dal titolo “ Love Is All We Need”, Émonis si coadiuva di
musicisti importanti come Cosimo Zannelli (Litfiba, Pelù, Morandi) e Daniele
“Barny” Bagni (EMOTU, Litfiba, Pelù), mentre il brano viene arrangiato da Luca
Pernici (Ligabue, Mario Biondi).
La
musica è solare e supportata da buoni arrangiamenti e non esulano chitarre che
comunque sono leggermente distorte. Émonis dimostra di ritrovarsi a proprio
agio al microfono, senza strafare e ne scaturisce una musicalità che risiede a
cavallo fra materiale in stile Enrico Ruggeri ed ultima PFM.
Importante
il ritornello, ovviamente orecchiabile e di facile memorizzazione, la melodia
italiana è presente in maniera vincente.
Musica
che scorre piacevolmente e che entra nella testa ma non come un tormentone, un
Pop Rock di classe e sentito da parte dell’artista. Il cantato è in italiano ed
i testi non sono assolutamente scontati.
Émonis
è una sorpresa, perché nella sua musica si sentono comunque certe influenze
passate, ricordiamo che l’artista è cresciuto ascoltando Iron Maiden,
Helloween, Metallica, ha collaborato con Fabio Zuffanti (Finisterre, La
Maschera di Cera), con i cantanti Roberto Tiranti (Labyrinth, New Trolls, Ken
Hensley) e Sasha Torrisi (Timoria, Rezophonic) ed il chitarrista Paolo Viani
(Warlord, Black Jester), tutto questo bagaglio è importante e ben sfruttato.
A
questo punto non resta che attendere l’evolversidegli eventi, se il buongiorno si vede dal
mattino… MS
Ci
sono alcune regioni d’Italia che ricoprono in ambito progressive Rock un ruolo particolarmente
importante, la Toscana è una di queste. I Lifestream provengono da Prato e si
formano nel 2006. Rilasciano un primo ep di quattro pezzi e dalla musica contenuta
si evincono tracce influenzali di gruppi come Pink Floyd, Genesis, Yes, Kansas,
Pain Of Salvation, Porcupine Tree e Marillion.
Caratterialmente
sono forti, hanno basi Hard Rock, AOR oltre al dimostrare di aver assimilato la
lezione del periodo vintage del genere, il tutto sia con rispetto che rielaborando
il suono con la propria personalità. Resto sempre colpito da questo continuo
fiorire di band al riguardo e non posso che esserne felice, così ne sono
altrettanto per l’accurata attenzione che gli addetti ai lavori di questo
genere (sempre più esiguo) dedicano a questi nuovi artisti, alla ricerca di
ottima musica “sincera”.
I
Lifestream sono Alberto Vuolato (chitarra), Andrea Franceschini (tastiere),
Andrea Cornuti (basso) e Paolo Tempesti (batteria, voce). Il disco si presenta
in una elegante confezione cartonata contenente un miniposter orizzontale con
tanto di testi ed immagini. Il suono è equilibrato e pulito, la registrazione
rende merito ai brani. I testi parlano d’appunti su diario di gioie, delusioni,
sconfitte e rinascite che fanno da filo conduttore all’album composto da otto
tracce. Da rimarcare la citazione finale di “E Mi Viene Da Pensare” del Banco
Del Mutuo Soccorso per omaggiare Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese venuti
a mancare durante la stesura e la registrazione di questo disco.
“Diary”
si apre con “Dreamer” ed il cantato in inglese. L’Hammond da un tocco color
seppia all’ascolto, il tocco a cui mi riferivo in precedenza, quello del tempo
passato, delle radici vintage quando il Pop Rock (allora il Prog così si
chiamava) dettava legge, chitarre alla Steve Hackett e David Gilmour annesse.
I
brani hanno tutti una lunghezza abbastanza consistente, sui circa sette minuti
di media e di sedici la mini suite “Over The Rippling Waters”.
“Built
From The Inside” è anche lei ricca di cambi di tempo e di buoni assolo, quelli
che molto spesso fanno chiudere gli occhi e sognare. Noto altresì un passaggio
nel New Prog anni ’80.
“The
Shy Tree” per il gusto musicale del sottoscritto è uno dei brani migliori del
disco, apprezzo i crescendo emotivi, quando si passa dalla ballata all’enfasi
corale dell’assolo finale. Cattureranno molti vecchi nostalgici come me. “Sound
Of The Earth” si fa notare per un bell’assolo di chitarra elettrica, oltre che
per la prova vocale sopra le righe.
“Discoveries”
è la prima mini suite dell’album nei suoi dieci minuti, variegata fra schiaffo
e bacio, chitarre Hard e tastiere (piano compreso) che sciolinano melodie
incantevoli. Pane per il Prog fans incallito.
Un
arpeggio di chitarra con l’incedere malinconico inizia “Whispers”, molto stile
Genesis, e l’aria attorno a noi cambia, si ha la sensazione che il tempo si sia
fermato in quegli anni in cui la bellezza sembrava essere una cosa normale,
oggi ricerchiamo quegli attimi come l’oro. I Lifestream qui ci deliziano.
E’
poi la volta della nominata suite, e qui le carte vengono calate tutte di un
botto. Il disco si conclude con la title track “Diary”, si giunge a capolinea
sazi e consci che la fame di Prog in poco tempo è passata. Il cibo? Ottimo
direi.Buon appetito ai buongustai. MS
Gli
Opera Oscura sono di Roma e “Disincanto” è il debutto discografico. Il gruppo è
capitanato dal tastierista e compositore Alessandro Evangelisti e dal
chitarrista Alfredo Gargaro.
Il
nome che si sono preposti è perfetto per la musica che suonano, descrizione
indovinata, fra Opera (grazie anche alle belle voci di Francesca Palamidessi e
Serena Stanzani), Dark Rock moderno, Metal e Progressive Rock. La band si pone
l’obbiettivo di proporre una musica (come dice anche la PFM) immaginifica e
cinematografica, libera dai limiti strutturali.
“Disincanto”
è supportato da un artwork curato ed importante con fotografie che ritraggono
la band in azione ed i testi delle musiche. Perfetta fotografia del contenuto
ne è anche l’opera che appare nella copertina realizzata da George Grie. Buona
anche la registrazione sonora. La band viene completata dalla sezione ritmica
formata da Leonardo Giuntini (basso) e Umberto Maria Lupo (batteria).
Sette
le canzoni che traghettano l’ascoltatore nel viaggio sonoro per un totale di
trenta minuti di musica.
Apre
il brano più lungo dell’album con i suoi otto minuti dal titolo “A Picco Sul
Mare”, subito le tastiere si dimostrano un fulcro importante per le
composizioni malinconiche esaltate dalla voce di Francesca Palamidessi, mentre
la chitarra elettrica evidenzia ancora di più la magniloquenza e la drammaticità
della situazione. Metal Progressive di classe per palati sopraffini.
Meno
oscura è la strumentale “La Metamorfosi Dei Sogni”, al suo interno un assolo di
chitarra importante che lascia il segno. Tutto il brano mette in evidenza
l’amalgama e le qualità tecniche della band.
“Il
Canto Di Sìrin” è interpretato da Serena Stanzani, autrice anche dei testi
cantati in inglese. Un pezzo piano e voce da brividi. Leggerezza e malinconia
in cattedra. Con “Pioggia Nel Deserto” ritorna il brano strumentale, breve momento
decisamente Progressive Rock con puntate nel Metal, esso lascia il campo a
“Gaza”, composizione più massiccia con la voce filtrata di Francesca
Palamidessi, qui le chitarre danno tutto il meglio. Più pacata e dall’incedere
classico risulta “Dopo La Guerra”. Il disco si chiude con un altro strumentale con
il titolo “Resti”, ancora il piano di Evangelisti a narrare le sorti del
“Disincanto”.
Un
debutto importante, che la Lizard non si è lasciato sfuggire, così l’Andromeda
Relix, un piacere all’ascolto per varietà di situazioni e per le composizioni
sempre molto attente alla melodia.
Quanto
Rock a Verona! Un bacino importante dal quale scaturiscono moltissime sorprese.
Ma
avrete sentito dire anche voi che il Rock è morto e tutte queste storie
analoghe, argomentazione annosa che sopporto dagli anni ’80 con fatica, stanco
di questo modo di vedere ed ascoltare la musica come se il mondo si fosse
fermato in un determinato periodo. Sappiamo bene invece che tutto procede e che
magari muta, volenti o nolenti noi, ma non tutti amano il cambiamento e si
avvinghiano alle loro certezze. Il DNA puro del genere ad oggi è ancora
salvaguardato da una legione di musicisti duri e crudi, e chi è cresciuto con
il Rock anni ’70 (me compreso) ha le sue validissime ragioni per
salvaguardarlo.
Con
il nome di un noto sceriffo cacciatore di bisonti del Far West, i veronesi Wyatt
Earp si fondano nel 2003 per il volere del chitarrista Matteo Finato con l’intento
proprio di portare avanti l’essenza del Rock e dell’Hard Rock, caro a band
storiche come Deep Purple, Uriah Heep, Kansas, Grand Funk Railroad e ancora
molte altre.
Il
batterista Davide “Cava” Cavalca ad un certo punto abbandona la band, lasciando
il posto dietro le pelli a “Silvio “Hammer” Bissa, cantante del gruppo.Alla fine del 2016 dopo una lunga ricerca
l’attenzione della band si sofferma su Leonardo Baltieri. Completano la line up
Fabio “Led” Pasquali al basso e Flavio “J” Martini alle tastiere.
Il
disco d’esordio in analisi si intitola proprio “Wyatt Earp” ed è composto da
sei canzoni, accompagnato da un artwork ben fatto con tanto di foto e testi
scritti. Il cantato è in lingua inglese, mentre l’incisione è buona, lasciando
quel senso di velatura (quasi polvere) che fa il Rock in esame, polveroso e
stradaiolo come si deve.
I
riff sono magnetici, è vero che i deja vu- fuoriescono di tanto in tanto,
tuttavia è il genere da preservare che esige questo trattamento, così i
ritornelli di facile memorizzazione. Personalmente ho apprezzato moltissimo il
solo di chitarra immerso in un mondo “progressivo” dal crescendo mozzafiato
contenuto nel brano “With Hindsight”, sapete, quei momenti che vorresti non
finissero mai…
Poi l’Hammond è da pelle d’oca per chi come me
ama certi roboanti e grezzi suoni. Frangenti dal ritmo spinto ci fanno muovere
e scatenare incondizionatamente, per esempio difficile restare fermi
all’ascolto di “Back From Afterworld”. Avete presente certi Deep Purple? Bene.
Davvero sembra che il tempo si sia bloccato agli anni ’70. Quando ascolti la
mini suite “Gran Torino” non ti sei neppure accorto che è finito il disco e che
sono passati tre quarti d’ora.
Un
esordio potente e dal chiaro messaggio, e noi possiamo dormire sonni tranquilli,
perché la prossima volta che qualcuno ci dirà che il Rock è morto potremmo dire
con tutta tranquillità “Ma fatemi il piacere! Ascoltatevi nel 2018 i Wyatt
Earp”. MS
Secondo
album per la band Alternative Metal di Verona. “Hevent Horizon” ha una
difficile gestazione a causa della chiusura della casa Broken Road Records, ma
l’Andromeda Relix ne acquisisce i diritti.
I
Closer propongono un Alternative Metal con influenze di gruppi come Alter
Bridge, Metallica, Pantera, Creed e Nickelback. Si formano nel 2011 e sin da
subito cominciano a comporre materiale proprio. Con il singolo “Everytime I
Close My Eyes”, nel 2012 partecipano vincendo al contest organizzato dal sito
incontrirock.com. Come premio la possibilità di registrare la traccia nei
famosi Fear Studio con la partecipazione del giudice d’onore GL Perotti degli
Extrema.
Questo
secondo album è formato da dodici momenti sonori ed un artwork notevole,
accompagnato da un mini poster pieghevole in cui sono dettagliati tutti i testi
e le info del caso.
Suono
cristallino e ben definito sin dall’ascolto della prima traccia “Here I Am”,
con tanto di ritornello gradevole ed una prova vocale del chitarrista Simone
Rossetto sopra le righe. Il disco è concatenato nei brani in un una sequenza
logica che relega al tutto una scorrevolezza quantomeno efficace, a partire dai
testi. Suoni potenti, il post Grunge scava nel sound, “Illusion” ne è
testimonianza. Buona le sezione ritmica, matura e di grande intesa fra Manuel
Stoppele al basso e Danilo Di Michele alla batteria. Lo stesso si può dire per
il lavoro delle chitarre da parte di Rossetto e Nicola Salvaro.
Non
esulano rasoiate di sorta come nell’atto quarto dal titolo “Mistakes”, qui
l’incedere è massiccio e metallico a dovere. Atmosfere più scure con “Battle
Within” e comunque tanta attenzione alla melodia. Questo leitmotiv si sciolina
per tutta la durata del disco. Brevi assolo di chitarra spezzano l’ascolto
mentre la voce viaggia sempre su vette elevate. Molto belle “Wait For Me”, una
semi-ballata, “Untouchable”, sunto dell’essenza Closer e la conclusiva “Event
Horizon”, vetrina delle capacità tecniche degli artisti in questione.
Quasi
un ora di musica e tante emozioni, anche da cantare, perché in fin dei conti la
musica deve fare questo, lasciare un segno tangibile, un qualcosa di
immediatamente riconducibile alla band. Possiamo chiamarla personalità, oggi
sempre più latente fra le band che copiano ed incollano questo o quello. Qui c’è
da ascoltare e da memorizzare. MS
Generalmente
non estraggo mai dalla biografia di un gruppo molti passaggi, ma in questo caso
devo fare necessariamente uno strappo alla regola, in quanto la descrizione che
H. Škrat, cantante e ideatore di questa primordiale one man band ora divenuta
trio, è esaustiva per descrivere l’essenza Akroterion: “21 settembre 2018 –
Equinozio D’Autunno, secondo nell’anno solare e preludio al semestre oscuro.
Disco numero 2, divisione dell’Unità, conflitto binario, dualità degli opposti
(bene/male, maschio/femmina, positivo/negativo, yin/jang, vero/falso,
bianco/nero, giusto/sbagliato, etc.). E’ l’equilibrio a cui tendono i due
piatti della bilancia nel cui segno zodiacale il sole si affaccia in questi
giorni.”. Ed il disco viene pubblicato in questa data.
Siamo
al cospetto di un Black Metal fulminante, di vecchia scuola, con elementi Doom
, Thrash Metal e Hardcore Punk.
Come
dicevo la one man band oggi è un trio e a completarlo ci sono BP Gjallar (voce,
chitarre, basso, sintetizzatori) e Francisco Verano (batteria).
Una
colata lavica di pece nerasi sbrodola
su di noi ad iniziare dal brano “Initiatory Death”, in esso comunque cambi di
tempo e cantato sporco.
Tanta
drammaticità a seguire, ma anche sprazzi di ampio respiro come in “Blood
Libel”, qui la voce alterna parti sporche a parti pulite. Quello che convince e
prende l’ascolto è l’incedere con assolo di chitarra gradevoli e non sempre
necessariamente violenti. L’inizio di “Red Dawn Under A Chemical Sky” è
ipnotico e apocalittico e non lascia
adito a speranze. Più caracollante “Soul Corruption”, frammento fra Doom e
Black Metal. Musica che si stampa facilmente nella mente. “Brains” non
stonerebbe addirittura nella discografia dei Motörhead. Ma è la title track
“Decay Of Civilization” a farla da padrona, qui tutta l’essenza del genere
Black Metal, esibita in maniera impeccabile e furibonda per quasi sette minuti.
A
chiudere c’è “The Gift Of Lady Death”, quasi un sospiro di sollievo, nel suo
modo di essere “progressive”, con un assolo di chitarra pregevole e piccoli
spiragli di luce. Certo Metal di fine anni ’70 scaturisce fra le note. Un vero
piacere all’ascolto.
Questo
secondo lavoro di Akroterion è dunque coraggioso per scelte, per varietà di
situazioni e per tematiche. I più forti di voi avranno già segnato il nome del
trio nel proprio taccuino di viaggio, ma sbrigatevi, perchéil disco è stato stampato in sole 150 copie
limitate. MS
Sono
passati quattro anni dall’esordio dei lussemburghesi Light Damage con il disco
dal titolo omonimo, il tempo è inesorabile. Mi sembra ieri che tessevo le lodi
di quel disco dalle influenze Pinkfloydiane, un lavoro ben strutturato e
concepito. Non nascondo che ha girato molto spesso nel mio lettore e che il
Progressive Rock dalle influenze Marillion con la giunta della psichedelia di
classe, in me fa scattare la molla del piacere.
In
questo lasso di tempo il gruppo ha maturato molta esperienza e proprio per
questo si avvalgono anche di special guest e di strumentazioni non tipicamente
Rock come il violoncello, o il violino. Uno sguardo alla line up per meglio
intenderci: Stephane Lecoq (chitarre), Frederick Hardy (basso), Sebastien
Perignon (tastiere e pianoforte) , Nicolas Dewez (voce), Christophe Szczyrk
(batteria e percussioni),Marie-Noël
Mouton (voce), Marilyn Placek (voce),Astrid
Galley (flauto), Judith Lecuit (violoncello), Margot Poncin (violino),
Dominique Poncin (basso) e Charlie Bertrand (Music Box). Le voci femminili nel
Progressive Rock odierno ci sono ed anche ottime, su questa lunghezza d’onda ad
esempio potremmo trovare Christina Booth dei Magenta. Una importanza ulteriore
deriva dalla potenza dei testi, ogni canzone è ispirata dalla vita di un
personaggio diverso e comunque tutti legati fra di loro, tanto da far
avvicinare “Numbers” ad una vera e propria opera Rock.
Tanta
carne al fuoco dunque e voglia di sfondare, di emozionare ed emozionarsi. Sei
tracce fra composizioni brevi, medie o lunghe come nel caso della suite “From
Minor To Sailor” con i suoi quasi venti minuti. Questo modus operandi è
perfetto per la fruibilità dell’ascolto, questo spezzare continuo rende il
tutto molto scorrevole.
Potenza
e stati mentali in analisi nel brano che apre il disco dal titolo “Number 261”,
quasi Metal Prog con ritmiche forti e un alternarsi di vocalità maschili e
femminili. Piccoli momenti che possono incastrarsi con “Operation Mindcrime”
dei Queensryche, ovviamente quelli più leggeri. Anche l’elettronica viene
incontro al brano nella successiva “Bloomed”, canzone strumentale dove ancora
una voltala potenza sostenuta dalla
chitarra si eleva in alta quota, assieme ad un anelito drammatico. Tutto questo
sfocia nella suite “From The Mirror To Sailor”, un percorso misto fra gli
immancabili cambi di tempo, di stile e di strumentazioni, qui in ampia
abbondanza.
Non
c’è un brano sopra le righe, tutto il disco si evolve allo stesso livello,
nulla da aggiungere. Ovviamente il prodotto è indicato agli amanti del genere e
dintorni.
La
tedesca Progressive Promotion Records non perde un colpo, ha davvero un grande
fiuto per il Progressive Rock che a mio
parere, malgrado la difficoltà dei tempi con annesse vendite discografiche al
minimo storico, non morirà mai, perché la qualità paga…Sempre! MS
Dietro
il nome Mezz Gacano c’è l’artista, polistrumentista e compositore Davide Nino
Urso Mezzatesta. Il suo progetto nasce a Parma, e precisamente a Salsomaggiore
Terme, dopo l’incontro con John Zorn a Firenze, nel settembre del 1997. Nel
1998 l’artista si trasferisce a Palermo e dopo varie vicissitudini, annessi
cambi di gruppo e di elementi, a maggio del 2001 i Mezz Gacano si stabilizzano con
la seguente formazione: Davide Mezzatesta (voce e chitarra), Marco Monterosso
(voce e chitarra),Giovanni Di Martino
(cori e tastiere), Lucio Giacalone (basso) ePiero Pitingaro (batteria).
La
cultura musicale di Mezz Gacano è quantomeno ampia e aperta ad ogni tipo di
innesto, basta dire che i suoi ascolti variano da Zorn a Anthony Braxton, Bill
Laswell, Steve Lacy, Mick Harris, Peter Brotzmann, Carlo Actis Dato, Roscoe
Mitchel, Robert Fripp, Fred Frith, Frank Zappa, Otomo Yoshide, Arto Lindsay e
ovviamente molti altri ancora. Questo bagaglio culturale si evince anche
durante l’ascolto delle sue composizioni, mai banali e aperte all’arte a 360
gradi.
Il
sunto ne è già l’album d’esordio intitolato “Palòra Di Boskàuz”, un calderone
di idee e di musicalità fisica davvero importante. L’album è composto da dodici
brani a partire dalla strumentale “Sunday Bloody Sunday” (non quella degli U2
ovviamente) aperta da undici secondi di
follia. Il suono a seguire si stampa subito in faccia in un incedere Hard per
poi passare ad un giocoso momento d’improvvisazione in stile Area. Finito? No,
ancora cambio di tempo ed umorale con un assolo di chitarra notevole e di
tastiere, il tutto in un frangente prima Jazz e poi elettronico, a seguire voci
a suggellare il ritornello martellante che in definitiva fa da spina dorsale
all’intero brano. Ecco, da queste mie parole avrete già intuito la pasta di
questo esordio, oppure vi sarete spaventati.
L’ascoltatore
quindi deve essere necessariamente preparato e di mente aperta, disposto a
farsi destabilizzare per godere a pieno di questo grandissimo puzzle.
Elettronica,
Hard Rock, Punk e molto altro, ascoltate “Froka” e ditemi cosa ne pensate. La
globalità del sound è semovibile, incentrato su momenti di energia a tratti
dura e in altri momenti nervosa in stile King Crimson. Frank Zappa fa capolino
spesso e volentieri. Non c’è un brano che annoia o che sia scontato, almeno per
il mio gusto personale, un susseguirsi di sorprese che nella maniera più assoluta
non vorrei rovinare.
Musica
per tutti i gusti dunque, anche per scatenarsi oltre che per pensare. Io tutto
questo lo definisco vero Progressive Rock, perché in esso c’è ricerca e
coraggio. Suoni, suoni e suoni.
Un
esordio importantissimo, che vede un Mezz Gacano carico di idee e di energia,
approfittatene. MS
MEZZ GACANO & ZONE
EXPERIMENTALE – Froka
Lizard Records
GENERE: RIO
Supporto: cd – 2016
C’è
chi la musica la vive per diletto, chi per passione, chi l’adopera da
sottofondo, chi la rovescia come un calzino per trarne nuove emozioni. Esistono
situazioni dove l’artista parte con l’intenzione di creare qualcosa di
differente, disinteressandosene del
responso pubblico, questo accade quando l’arte prende il sopravvento. In Italia
abbiamo vissuto e stiamo vivendo queste situazioni seppure in maniera dosata, come
ad esempio con i Stormy Six nel passato, oppure oggi con alcuni progetti di
Fabio Zuffanti o gli Yugen solo per fare pochi nomi.
Mezz
Gacano e’ un progetto musicale palermitano che prende forma nel 1997 grazie a
David(e) Nino Urso Mezzatesta, formatosi dalle ceneri di Multimedial
Stigghiolizing Enterprise e Tchazart. Le influenze musicali si possono estrapolare dall’ascolto di
artisti come Frank Zappa, King Crimson, Gong, Naked City, Mr.Bungle e Oziric
Tentacles. La carriera musicale del gruppo è ricca di esperienze ed artisti,
fino al raggiungimento del primo album in studio intitolato “Palòra Di Boskàuz”
(Sasime – 2002), dove al proprio interno anche una ballad può essere Punk!
L’approccio
musicale di Mezz Gacano è questo, e se poi
a quanto detto ci si va ad unire la collaborazione con l’ensemble
svizzero Zone Experimentale (nomen omen), non può che nascere un prodotto
quantomeno interessante e non scontato.
“Froka”
è un concerto registrato live suddiviso in undici movimenti sonori che non
potremo mai chiamare “canzoni”, ad iniziare dalla breve ed introduttiva title
track “Froka”. L’aria accompagna all’ascolto catturando immediatamente
l’attenzione dell’ascoltatore. L’album strumentale si apre a tutti gli effetti
con “Okain Loiknaf” fra cambi di ritmo e d’ umore. Con archi e flauto che
giocano a colloquiare, si giunge a “Lioschi Lioschije”, aria a tratti sospesa,
solamente animata dalla discussione fra strumenti che più che suonare, parlano
fra di loro. L’energia sprigionata da “Bechamel” mette alla luce il lato Crimsoniano del progetto, fra suoni nervosi e
cadenzati. Ciò accade anche nel successivo movimento “Lioschi Lioschije”.
Andamento ondivago per “Kitch Bitch Beach”, giocoso ed irriverente. Ma non
vorrei togliere tutto il gusto della scoperta, lascio a voi il piacere di
essere stupiti, in fin dei conti avete già focalizzato da queste mie parole il
tipo di prodotto. Vorrei comunque sottolineare che “Froka” è registrato nel
2013, ed è solo grazie all’attenzione della Lizard che il progetto vede la distribuzione
vera e propria, affidata a BTF, GT Music, Pick Up, Ma.Ra.Cash e Syn-Phonic.
“Froka”
è musica da “ascoltare”, non da “sentire”, una sorta di opera sperimentale
moderna che non ha la pretesa di essere un classico, ma che ha la brillantezza
e la capacità di risultare unica nel suo genere, e questo si grazie all’estro
compositivo di Mezz Gacano, ma anche agli arrangiamenti di Flavio Virzi. Buon Ascolto. MS
Il
geniale compositore e polistrumentista Davide Mezzatesta, in arte Mezz Gacano ritorna
al pubblico nel 2017 con questo ultimo lavoro dal titolo “Kinderheim”, quarto
suggello. Chi lo conosce o chi già ha avuto modo di leggere altre recensioni,
già sa bene che l’artista è “totale”. La sua cultura musicale è espressa nelle
note in maniera inconfutabile, fra stili che variano dal classico al Jazz, dal
Rock, all’Hard Rock a influenze più marcate come il sound di certi King Crimson
oppure di Frank Zappa, altro genio della nostra musica mondiale sempre poco
citato.
Ora
devo dire alcuni “Finalmente”, il primo riguarda la musica ovviamente,
finalmente posso godere di vero Prog Rock , cosa che ultimamente mi è capitato
di rado. Perché ho detto vero Prog? Sembra così che esista anche il finto Prog
Rock. Ho detto così semplicemente perché non basta ripetere i fasti del tempo
passato, se intendiamo “Progressive” nel significato che gli spetta, si intende
soprattutto il dover progredire il suono
della musica, e per fare questo si deve OSARE. Ecco, oggicome oggi ho sentito pochi artisti osare
nuove soluzioni ed innesti, alcuni nomi per spiegare meglio il concetto possono
essere Moloch di Gianni Venturi o i progetti di Claudio Milano e pochi altri
ancora, parlo di stile, forte personalità
e di composizione oltre che di strumentazioni varie. Qui infatti si trovano
archi, trombe, clarinetti, flauti, sax, chitarre elettriche, tastiere, elettronica e
molto altro. Musica totale che comunque nel suo essere apparentemente fuorviante
e ricercata dimostra di avere un grande rispetto per il passato. Quando fai
l’orecchio ad un sound, Mezz Gacano ti volta le spalle inserendone uno
completamente opposto, se vogliamo una sorta di “schiaffo o bacio”.
Il
secondo “Finalmente” lo dedico all’ artwork davvero ben curato e completo oltre
che elegante nella sua confezione cartonata, ad opera di Antonio Cusimano /
3112htm.com. Questo è anche rispetto per chi spende soldi nel comperare un
disco, visto poi che l’acquirente oggi è un personaggio in via d’estinzione,
almeno trattarlo a dovere.
Il
terzo “Finalmente” riguarda l’incisione, davvero professionale e pulita, cosa
non semplice vista la caratura e la quantità di strumentazioni differenti che
appunto variano nel disco,dal classico
al Rock, elettronica etc. Tutto ciò ad opera di Luca Rinaudo assistito da Marco
Nàscla e Miss Hill Mary nel Teatro Biondo Di Palermo.
“Kinderheim”
è un percorso sonoro formato da diciassette frangenti, fra i quali spicca nel
finale “Bitter(N) Stormy Over Vesuvio”, ma il perché non ve lo dico,lascio a chi compera il disco la vera
sorpresa (geniale). I brani sono stati composti in diversi anni della sua
esistenza artistica. L’album è completamente strumentale (forse) e quindi
ancora un'altra scommessa che apprezzo oltremodo.
Basta
parole, musica da ascoltare, non da sentire. MS
L’importanza
di giocare con la musica. Paolo Paròn è un polistrumentista, autore e
compositore che ha alle spalle lavori di laboratorio musicale oltre che di
teatro, abbinati all’improvvisazione e alla creatività. Tutto questo porta ad
avere una determinata personalità e una voglia di esprimersi più marcata.
“Vinacce”
esce dopo l’esordio in ep datato 2012 dal titolo omonimo e qui di carne al
fuoco ce n’è davvero tanta. Mi rivolgo soprattutto ai cultori di alcuna musica
come il Rock Progressivo, oppure al cantautorato italiano degli anni ’70, ma
quello più cerebrale e sentito, di grandi autori come Lolli o Mauro Pelosi.
Il
disco si presenta in una confezione cartonata accompagnata da un esaustivo
libretto in cui si possono leggere i testi, punto forte del nostro cantautore.
“Vinacce”
è formato da undici canzoni, mentre con Paolo suonano Roberto Amadeo (basso,
contrabbasso), Stefano Bragagnolo (batteria), Jvan Moda (computer, rumori),
Denis Bosa (violino), Luca Marian (viola), Giacomo Franzon (contrabbasso) e
Alice Gaspardo (trombone).
In
“Mani Adatte” l’approccio mi fa tornare alla mente certi lavori di Lucio Dalla
degli anni ’70 e buono
è l’approccio vocale non scontato e perentorio, così la metrica delle liriche. Nelle
canzoni di Paoloparòn l’interpretazione gioca un ruolo fondamentale, serve
malleabilità a seconda delle esigenze del pezzo, ma soprattutto dei testi.
Questo lo potete assimilare anche dall’ascolto di “L’Allegro Caos Dello
Scolapiatti” dove interessante è anche
l’accompagnamento dei fiati di Alice Gaspardo ad impreziosire. Fuoriesce
il cantautorato più datato in “Un Disegno”, ma rivisitato dalla personalità
dell’artista il quale ci aggiunge un pezzo di tastiere che farà la gioia di
molti rockettari. La musica si placa con la riflessiva “Amleto 1999”, chitarra
e voce per poi crescere in enfasi e sonorità. Fuoriesce il lato più giocoso e
divertente in stile Stefano Rosso in “La Domenica Del Supermercato”, chi non ha
passato almeno una volta nella vita quelle sensazioni descritte nel brano con
il carello nelle mani? Breve momento elettrico e Rock con “Le Ore D’Estate” per
poi ritornare nei sentieri storici del genere con la title track “Vinacce” ed
il profumo dei filari. Interrogativi psicologici in “Lo Chiedo A Te” e la
scuola degli anni ’70 si presenta ancora una volta all’ascolto, questa volta ci
aggiungerei alcuni stilemi alla De Andrè.
“Ai
Tempi Delle Chat” è fra le mie preferite, delicatezza e profondità fra arpeggi
e buone modulazioni. C’è spazio ancora per un frangente Rock dal titolo “Via
Bertaldia Blues” e per la conclusiva “Seasons (A Silly Indie Song)” cantata in
inglese e in stile Folk.
Paoloparòn
ci lascia questo album di canzoni per pensare e per cantare, in maniera
semplice ma allo stesso tempo ricercata, avendo in esso cura e rispetto per il
cantautoratopassato. L’autore mette in
luce i pregi di questo mondo, la passione e la competenza giusta per perseguire
buoni risultati. Con cantautori così la canzone storica italiana può dormire
ancora sonni tranquilli. MS
Beny
Conte nasce a Palermo e studia musica ottenendo la Laurea in Discipline della
musica ad indirizzo Etnomusicologico, a seguire in Musicologia e Beni
Culturali. Nel tempo si trasferisce a Pescara dove prosegue gli studi per
laurearsi in Composizione con indirizzo Popular Music, tutto questo per
focalizzare le basi del musicologo, compositore, scrittore e chitarrista Beny
Conte.
Se
desiderate maggiori informazioni riguardo l’artista, avrete di che leggere nel
bellissimo libretto che accompagna il disco. Una confezione cartonata elegante
e dettagliata con foto, testi, info ed altro ancora.
“Il
Ferro E Le Muse” è anche un romanzo di Conte, una storia di mafia e d’amore che
racconta la Sicilia e la sua vita in bilico fra queste due situazioni. I due
prodotti vanno a braccetto, quindi leggere ed ascoltare con tanto di folclore
nazionale come “Vitti ‘Na Crozza” ed inediti scritti dal nostro compositore.
Nei
dieci brani che delineano il percorso, Conte ci prende per mano e con
delicatezza mista acompetenza accompagna
l’ascoltatore fra ottimi arrangiamenti e tanta poesia.
“Quannu
Scinni ‘A Notti” ha rispetto della tradizione e del folclore, la musica
italiana che non ha tempo, quella che blocca la sabbia della clessidra.
“L’Isola Di Buonagente” è più rivolta al
cantautorato vero e proprio, con grandi spunti tratti dallo stile di Ivano
Fossati con aggiunta di delicatezza
Jazz.
“Malìa”
è terra di nessuno, ma non è così, una storia toccante ed intimistica. La
chitarra è spina dorsale del sound Conte, anche se in questo caso i fiati
ricoprono un ruolo importante. La tradizione scritta da Balisteri viene
esaminata in “ La Mafia e Lì Parrini”, la Sicilia nuda avanti a noi.
Da
sottolineare la bellezza cristallina di “Cantu Di La Vicarìa”, ancora una volta
magistralmente arrangiata. Più ritmata “’A Liggi Di Lu Ferru”, perentoria e
senza compromessi. “Come Un Abbraccio (Sikella)”, ritorna a navigare in mari
cantautorali più delicati e riflessivi, mentre “Serenata Alla Terra” torna a
far profumare l’aria di Sicilia. Il disco che accompagna il romanzo si chiude
con “’U Tempu Di Cirasi”, altro pezzo di terra nelle orecchie.
Chiaro
dunque il prodotto analizzato in questa recensione, ben prodotto, suonato ed
arrangiato, un pezzo importante della nostra penisola che in realtà non
sappiamo apprezzare tanto quanto vale, dovremmo farlo di più ed avere maggiore
stima di noi stessi. Bravo Beny Conte. MS
Sotto
il nome di Giò si cela il cantautore udinese Giordano Gondolo.
La
passione per la musica si manifesta nel lontano 1986 quando il cantante inizia
la carriera artistica assieme al gruppo Rock “Union Jack”. Nel 1991 passa ai Blue
The King. Nel tempo vince assieme alla band il rinomato Arezzo Wave nel 1997.
L’anno successivo è la volta di “Musicultura” di Recanati, un altro premio questa
volta per il brano “Hobby”. Dal 1999 collabora con i Crash assieme ai quali
registra il disco “Protopop”.
“Succederà”
è l’esordio discografico formato da sei brani di media durata per un totale di
una ventina di minuti di musica. Gli stili sonori che si affacciano durante
l’ascolto del disco sono differenti, dal Rap al Pop Rock passando per l’Hip Hop.
“Succederà”
inizia con “Io Sarò Li” e la partecipazione dell’ospite Doro Gjat. Il brano non
stonerebbe nella discografia di Neffa.
“Quello
Che Voglio” è un pezzo Rock, ben arrangiato con piano ed un buon ritornello,
tuttavia da non sottovalutare neppure i testi. L’esperienza di Giò si denota
sotto differenti aspetti, annessa l’importanza di aver capito l’utilità
dell’essere “orecchiabile”. La title track non è altro che un Calipso, alcuni
momenti lasciano reminiscenze di Sergio Caputo. Rock di stampo anni ’80 e di
radice italiana invece quello proposto in “Cose Che Non Ho Visto Mai”, un pezzo
che comunque stenta a decollare. “Noi” riporta l’attenzione dell’ascolto a
livelli più attenti grazie anche ad un buon ritornello da canticchiare con i
suoi “La La La La La”. L’ep si chiude con la versione acustica di “Io Sarò Li”.
Questo
modo di muoversi fra differenti stili
probabilmente denota ancora una momentanea ricerca del proprio essere da parte
di Giò, si consiglia dunque di lasciarsi andare pienamente, per poter tirare
fuori la propria personalità al meglio. MS
Dietro
il nome Rose si cela la giovane artista Rosa Mussin, appena ventiquattrenne, e
non me ne voglia la cantante per aver svelato la sua giovane età, ma questo a mio
avviso va sottolineato e leggendo la recensione capirete anche il perché. Sin
da bambina si appassiona al pianoforte, studia clarinetto classico e pianoforte
e a quattordici
anni entra a far parte della Real Flexible Orchestra (Big Band Jazz). ConFreddy Frenzy & The Magazin Roots si fa
una grande esperienza live, aprendo concerti ad artisti come Roy Paci, e
pubblica il disco “Reunion” (2012) come tastierista e back vocalist.Rientra nel progetto de la North East Ska
Jazz Orchestraper condivide il palco
con artisti quali Mr. T-Bone (Africa Unite, The Bluebeaters) e Furio
(PituraFreska, Ska-J) e numerose le date in Italia e all’estero. Più
recentemente si distacca dal sound Reggaeper avvicinarsi al Soul, Blues, R&B e Hip-hop. Nel 2016 vince il
BlackMusic Blues Contest di Pordenone e a seguiremolto altro ancora, questo soltanto per
riallacciarmi alla sua giovane età.
Il
disco è composto da sei brani, tutti trainati dalla voce di Rose accompagnata
da Alessio Benedetti alla batteria, Alessio Zoratto al basso, Matteo Pinna alla
chitarra, Alessandro Scolz alle tastiere e da Mario Castelletto alle
percussioni. Appaiono come special guest Marco D’Orlando alla batteria nel
brano “Moving Spheres” e Roberto “Rob” Amadeo al basso e alle tastiere.
Il
Jazz corposo e caldo di “Relation” non soltanto apre il disco, ma presenta il
carattere di Rose, la vocalità apportata alla sensitività emotiva. Tonalità
aperte, su intercalare d’intensità. La musica accompagna con sobrietà, senza
strafare per non disturbare la vocalità della cantante, anche se di tanto in
tanto brevi assolo si presentano.
Più
ricercata ed elettronica “Moving Spheres”, ma il tutto resta a disposizione
della melodia, mentre la voce di Rose gioca con echi. Una nuova veste.
Si
ritorna alla Fusion ed al Jazz di compagnia con “Same Things”, brano che
definirei come minimo radiofonico.
Arriva
anche il momento più intimo, qui dal titolo “Amused”, dove la canzone abbraccia
la voce e viceversa. Rose dimostra di conoscere bene anche la storia del
genere. Un Funky a cavallo del Rock ci accoglie in “Stupid”, momento più
corposo e diretto. Il disco si chiude con “Ups & Downs”, voce e chitarra
acustica, Rose qui si esibisce in casa, fra giochi vocali ed intensità emotiva.
Una interpretazione matura e profonda che fa la bellezza del genere in analisi.
Rose
è dunque una sorpresa in attesa di maturazione totale, la strada intrapresa
gode già di personalità e chi l’ha notata sa cosa sta trattando. Un disco
piacevole e scorrevole consigliato a chi ama coccolarsi con il Jazz, la Fusion
e tutto quello che gira attorno a questo mondo elegante e delicato. MS