NAUTHA – Metempsychosis Argonauta
Records / PR Grand Sounds Promotion Genere:
Rock Psichedelico / Progressive Doom Supporto: Bandcamp – 2023
Anche
se potrebbe sembrare strano, il genere Rock Psichedelico ha al proprio interno
differenti ramificazioni, non tutto è sempre riconducibile al periodo storico
dei mitici Hawkwind, tanto per fare un solo esempio. Nel tempo il genere si è
evoluto fino giungere ai nostri giorni attraverso innesti di Porcupine Tree
(sempre loro), Post Rock, e perché no anche del Doom Metal e del Prog. Il
risultato è ovviamente per un pubblico di nicchia che comunque ama lasciarsi
trasportare da sonorità spesso ipnotiche. Un
nome nuovo nell’ambito italiano è quello dei romani Nautha, trio che si forma
nel 2016 a oggi composto da Antonio Montellanico (voce, basso, chitarra), Pierpaolo
Cianca (chitarra) e Giorgio Pinnen (batteria, sintetizzatore). Esordiscono con “Metempsychosis”,
quest’album formato da sette canzoni registrate ai Bloom Recording Studios a
Montecelio, mixato da Matteo Andolina e masterizzato da Claudio Pisi Gruer Pisi
ai Mastering Studio Community Page. Viste
le premesse, posso andare anche nello specifico consigliando l’ascolto di
questo lavoro agli amanti oltre che dei Porcupine Tree anche a quelli di
Motorpsycho, Riverside e Beardfish, vista la natura delle sonorità espresse. L’ampiezza
dei suoni si contrae fra Psichedelia e Metal sin dall’iniziale “Heracleion”
dove in quasi dieci minuti mettono in pratica tutto ciò che si è detto, mentre la
voce di Montellanico oltre che gradevole è bene inserita nel contesto che
alterna ariosità a ruvidità. Questo genere pone il meglio di se soprattutto
durante i trip strumentali, quelli che attendono con ansia gli amanti di questa
musica. Il suono ovviamente è elettrico ma ogni tanto si posa su territori pacati
rendendo l’ascolto molto fruibile. Proprio arpeggi di chitarra aprono “Laguna”
per poi addentrarsi nella psichedelia elettrica attraverso riff dalla facile
memorizzazione. “Kteis” mantiene il gusto per le melodie, arma che ritengo
vincente per la riuscita, oltre che il gusto per la potenza sonora. Con “Kata
Kumbas” il suono si fa improvvisamente introspettivo, morbido, supportato da
una ritmica leggera in mid tempo spezzato, un alito sussurrato alle orecchie.
Questo stile risulterà familiare agli estimatori dei polacchi Riverside. La
breve title track di un minuto e mezzo invece attraverso il pianoforte di
Giorgio Pinnen in stile Anathema accompagna all’ascolto di “Cerbero”, altro
pezzo studiato nei particolari e non scontato, fatto di cambi di tempo e
ruvidità. Breve ma incisivo l’assolo di chitarra a graffiare ulteriormente l’udito.
Chiude l’album “Samat”, canzone molto Rock Progressive vetrina per le capacità compositive
dei Nautha. In definitiva “Metempsychosis” è un album pieno di
buone idee, scorrevole e già maturo malgrado si tratti di un esordio. Per chi
vi scrive, è una bella sorpresa, solo il tempo saprà dire quanto validi siano i
Nautha che comunque al momento si presentano già con un asso di briscola nelle
mani. MS
Versione Inglese:
NAUTHA – Metempsychosis Argonauta Records / PR Grand Sounds Promotion Genere: Rock Psichedelico / Progressive Doom Supporto: Bandcamp – 2023
Although
it might seem strange, the Psychedelic Rock genre has within it different
ramifications, not everything can always be traced back to the historical
period of the legendary Hawkwind, just to give just one example. Over time the
genre has evolved to the present day through grafts of Porcupine Tree (also
them), Post Rock, and why not even Doom Metal and Prog. The result is obviously
for a niche audience that nonetheless likes to be carried away by often
hypnotic sounds. A
new name in the Italian sphere is the Roman Nautha, a trio formed in 2016 to
date consisting of Antonio Montellanico (vocals, bass, guitar), Pierpaolo
Cianca (guitar) and Giorgio Pinnen (drums, synthesizer). They debut with
"Metempsychosis," this album consisting of seven songs recorded at
Bloom Recording Studios in Montecelio, mixed by Matteo Andolina and mastered by
Claudio Pisi Gruer Pisi at Community Page Mastering Studio. Given
the premises, I can also go into specifics by recommending listening to this
work to lovers in addition to Porcupine Tree also those of Motorpsycho,
Riverside and Beardfish, given the nature of the sounds expressed. The
breadth of the sounds contracts between Psychedelia and Metal since the opening
"Heracleion" where in almost ten minutes they put into practice all
that has been said, while Montellanico's voice as well as pleasant is well
inserted in the context that alternates airiness and roughness. This genre puts
its best foot forward especially during the instrumental trips, the ones that
eagerly await lovers of this music. The sound is obviously electric but
occasionally settles into quiet territories making it a very enjoyable listen. Just
guitar arpeggios open "Laguna" and then delve into electric
psychedelia through easily memorized riffs. "Kteis" retains the taste
for melodies, a weapon that I think is a winner for success, as well as a taste
for sonic power. With "Kata Kumbas," the sound suddenly becomes
introspective, soft, supported by a light rhythm in broken mid tempo, a
whispered breath to the ears. This style will be familiar to admirers of
Poland's Riverside. The short one-and-a-half minute title track, on the other
hand, through Giorgio Pinnen's Anathema-esque piano, accompanies the listening
to "Cerberus," another studied in detail and not predictable piece of
tempo changes and roughness. Short but incisive guitar solo further scratches
the ear. Closing the album is "Samat," a very Rock Progressive song
showcasing Nautha's compositional skills. All
in all, "Metempsychosis" is an album full of good ideas, smooth
flowing and already mature despite being a debut. For the writer, it is a nice
surprise, only time will tell how good Nautha are, who in any case at the
moment already present themselves with a trump card in their hands. MS
MOONMINE
– Free.Pop Autoproduzione
/ In The Wood Records Genere: Cantautore – Sperimentale Supporto: cd – 2023
Oggi
non c’è niente di più bello e intelligente che dedicare del tempo a se stessi.
Fermarsi ad ascoltare, pensare, creare, il tutto senza fretta perché come si sa,
essa è sempre cattiva consigliera. Bisogna stare al passo con i tempi, questo è
vero, e loro ci inducono verso l’isteria sociale, aggiungiamo poi che questa
corsa verso il niente non porta a risultati importanti, perciò bisogna saper
ponderare. Il discorso vale nella vita ma anche per la musica alla quale
dedichiamo male il nostro tempo, ossia spesso una veloce e frugale attenzione
magari anche con supporti sbagliati che non esaltano il contenuto sonoro. Oggi
un cantautore impegnato è in difficoltà, perché soffermarsi a capire cosa ci
comunica è quantomeno anacronistico per i motivi già spiegati. Gli anni ’70 per
esempio ci hanno donato tanto materiale per la mente, mentre il contesto
sociale consentiva l’attenzione e il tempo adeguato per l’ascolto. Oggi
corriamo tutti verso un “dove” indefinito mentre la superficialità regna
sovrana. Fermarsi è anche dedicare attenzione alla ricerca della purezza e
dell’autenticità. Il
cantautore marchigiano Lorenzo Ciavola, in arte Moonmine in questo esordio
discografico tratta l’argomento. Si trasferisce da Fabriano a Latina e mette in
primo piano sempre la passione per la musica, ma non quella scontata, bensì
dall’ampio spettro. I generi che affronta nelle composizioni, infatti, sono
molteplici e variano dal Blues al Rock, passando per l’elettronica, il Folk e
il Jazz. Moonmine è dunque un cantautore impegnato, oserei definirlo in qualche
modo anche sperimentale vista la gamma culturale attorno ai suoi numerosi gusti
sonori. Quando è così, si rischia di mettere troppa carne al fuoco, ma questo
sta nell’anima di chi crea, cercare la propria identità e affinarla con
l’esperienza. Ciavola non è nuovo in questo mondo fatto di file e quant’altro,
infatti realizza nel tempo due EP, “Private Conversations” e “My Revolution”, ma
l’esordio discografico vero e proprio con tanto di CD è questo “Free.Pop”,
nomen omen. L’artista
concretizza il tutto dallo studio di casa, composizioni, incisione, produzione,
copertina dell’artwork, compreso il bel libretto che accompagna il disco con i testi,
disegni foto e descrizione dell’approccio all’ascolto, ossia cosa ha ispirato
Moonmine a scrivere le parole sugli argomenti trattati. La
penna per scrivere questa musica è la chitarra, la voce di certo ha un
approccio non convenzionale rispetto a tutto ciò che oggi mediamente si
ascolta. Ciavola si diverte a provocare, si prende carico delle responsabilità,
eppure è tutto così orecchiabile da lasciare momentaneamente esterrefatti, sin
dall’iniziale “Full Love”. Alcune canzoni sono cantate in italiano, la maggior
parte in inglese. La breve “A Dio” mostra l’essere umano fragile, prono avanti
all’attesa del giudizio divino, il tutto quasi sbeffeggiando. “Drink All Day”
ha un ritmo trascinante alternato a fasi maggiormente pacate. L’elettronica
giunge a sostegno. Il brano più lungo dell’album con otto minuti di musica
s’intitola “A Song For All” suddivisa in più parti. La prima risiede
interamente nel sound Folk degli anni ’70, qui la fantasia si scatena e come un
frullatore fa dei generi musicali un prodotto unico. Nel frangente strumentale mi sovvengono alla
mente anche le Orme, questo forse a causa della nenia a filastrocca. Il brano
sfuma e poi riprende, quindi nulla è scontato durante l’ascolto. Per me questo
è il movimento che ho più apprezzato, forse proprio perché maggiormente
“Progressivo”. Molte le incongruenze, ma sono proprio queste a tenermi
incollato all’ascolto. Geniale “Girotondo”, ottimo l’uso della voce in coralità
sovrapposte, una ballata a dir poco particolare. E a proposito di coralità in
”I Just Need” sembra di ascoltare i Queen dopo una bella bevuta alcolica. “War
Is Over” ha spunti alla Daniele Silvestri, ma sono solo attimi e poi…. Si va tutta da un'altra parte. Un ulteriore
pezzo pregevole s’intitola “In The Dark”, dove ancora una volta l’elettronica
svolge il ruolo maestro. Ma ho parlato troppo, qualche sorpresa se siete
curiosi la lascio a voi. “Free.Pop”
può sembrare un opera scomoda, questo perché l’autenticità e quindi la
sincerità, spesso cozzano con la falsità di questa società odierna basata sui social,
finti profili e quant’altro, dove l’apparire è più importante dell’essere. Viva
il Pop libero dettato dalla personalità che spinge un autore a fare ciò che
pensa, e non quello che desiderano gli altri. Troppa materia dentro? Non fa
nulla, come si dice in gergo “a calare viene sempre in tempo”, intanto Moonmine
si sta formando il carattere e sono sicuro che in futuro prossimo ne sentiremo
ancora delle belle. Non è la pecora nera a essere diversa, sono tutte le altre
che purtroppo sono uguali, quindi ascoltate Moonmine per credere. MS
Versione inglese
MOONMINE – Free.Pop Autoproduzione / In The Wood Records Genere: Cantautore – Sperimentale Supporto: cd – 2023
Today there
is nothing more beautiful and intelligent than taking time for yourself. Stop
and listen, think, create, all without rushing because as we know, it is always
bad advice. One has to keep up with the times, this is true, and they induce us
toward social hysteria, let us then add that this rush toward nothingness does
not lead to important results, so one must know how to ponder. The discourse
applies in life but also in music to which we devote our time badly, that is,
often a quick and frugal attention perhaps even with wrong media that do not
enhance the sound content. Today a committed singer-songwriter is in trouble
because to pause to understand what he or she is communicating to us is at
least anachronistic for the reasons already explained. The 1970s for example
gave us so much material for the mind, while the social context allowed for
attention and adequate time for listening. Today we all rush to an indefinite
"where" while superficiality reigns supreme. To stop is also to
devote attention to the search for purity and authenticity.Marche-based
singer-songwriter Lorenzo Ciavola, aka Moonmine in this debut record deals with
this topic. He moves from Fabriano to Latina and always puts in the foreground
the passion for music, but not the obvious one, but from the wide spectrum. The
genres he tackles in his compositions, in fact, are multiple and range from
Blues to Rock, passing through electronic, Folk and Jazz. Moonmine is thus a
committed singer-songwriter, I would dare to call him somewhat even
experimental given the cultural range around his many sonic tastes. When that
is the case, there is a risk of putting too much meat on the fire, but that
lies in the soul of the creator, seeking his own identity and refining it with
experience. Ciavola is not new to this world of files and whatnot, in fact he
makes in time two EPs, "Private Conversations" and "My
Revolution," but the real record debut with lots of CDs is this
"Free.Pop," nomen omen. The artist concretizes everything from the
home studio, compositions, recording, production, cover artwork, including the
beautiful booklet that accompanies the disc with lyrics, photo drawings and
description of the approach to listening, i.e. what inspired Moonmine to write
the words on the topics covered.The pen to write this music is the guitar, the
voice certainly has an unconventional approach compared to everything that is
heard on average today. Ciavola revels in provocation, takes responsibility,
and yet it is all so catchy as to leave one momentarily stunned, right from the
opening "Full Love." Some songs are sung in Italian, most in English.
The short "To God" shows the fragile human being, prone ahead of
waiting for divine judgment, all almost mocking. "Drink All Day" has
a driving rhythm alternating with more sedate phases. Electronics come in
support. The longest track on the album with eight minutes of music is titled
"A Song For All" divided into several parts. The first resides
entirely in the Folk sound of the 1970s, here the imagination runs wild and
like a blender makes musical genres into a unique product. In the instrumental juncture I am also
reminded of Orme, this perhaps because of the nursery rhyme-like dirge. The
track fades out and then picks up, so nothing is taken for granted while
listening. For me this is the movement I enjoyed the most, perhaps precisely
because it is more "Progressive." There are many inconsistencies, but
it is these that keep me glued to the listening. Brilliant
"Girotondo," excellent use of vocals in overlapping chorality, a
peculiar ballad to say the least. And speaking of chorality in "I Just
Need" it sounds like listening to Queen after a good alcoholic drink.
"War Is Over" has Daniele Silvestri-like cues, but they are just
moments and then.... It goes a whole
other way. Another valuable piece is titled "In The Dark," where once
again electronics play the master role. But I've talked too much, some
surprises if you are curious I'll leave to you. "Free.Pop" may seem
like an uncomfortable work, this is because authenticity and therefore
sincerity, often clash with the falsehood of this society today based on social
media, fake profiles and whatnot, where appearing is more important than being.
Long live the free Pop dictated by personality that drives an author to do what
he thinks, and not what others wish. Too much matter inside? That's okay, as
they say in the vernacular "dropping always comes on time," in the
meantime Moonmine is forming character and I'm sure we'll hear more in the near
future. It is not the black sheep that is different, it is all the others that
are unfortunately the same, so listen to Moonmine to believe. MS
LUCIANO
BASSO – To Tell AMS
Records / BTF
Vinyl Magic Genere: Classica – Elettronica –
Progressive Rock Supporto: Bandcamp / cd – 2023
Quando
si parla di Rock Progressivo italiano degli anni ’70 bisogna non commettere l’errore
di accomunare tutte le band. E’ vero che
il termine significa sperimentazione, o perlomeno la volontà di spingere il
Rock verso nuove soluzioni, però attenzione, i generi all’interno sono davvero
tanti e possono spaziare dall’elettronica, all’Hard Rock, alla classica, al Jazz,
al Folk, insomma verso moltissimi stili musicali. Gli innesti portano a nuovi
risultati che fanno parte della nostra evoluzione culturale, la ricerca non ha
mai fine, anche se molti critici affermano che ci sia rimasto poco da
inventare. Ricordiamo
un Battiato elettronico agli inizi del 1970, un sinfonico “Concerto Grosso” dei
New Trolls, oppure l’Hard Rock dei Biglietto Per L’inferno tutto ciò per
confermare il concetto. Vedere ancora oggi nomi altisonanti all’opera non fanno
altro che accrescere la mia passione per questo genere che nel tempo si è
modificato inesorabilmente al passo con i tempi ma che ha saputo mantenere la
volontà di provare cose nuove. L’esperienza è fondamentale, anche la perizia
tecnica che si affina attraverso concerti e tante prove. Uno
dei nomi interessanti del Rock Progressivo Italiano è quello di Luciano Basso,
tastierista e pianista veneziano proveniente dalla band Il Mucchio del 1970.
Basso amante dell’elettronica e della classica, realizza un disco importante
nel 1976 proprio nel debutto solista intitolato “Voci” (Vinyl Magic – 1976).
Nel tempo si dedica sempre alla musica con costanza e mai con la fretta,
concentrando l’attenzione in ogni nota. Questo porta all’incisione di altri
otto album in studio, compreso quest’ultimo “To Tell”. Lo
stile è personale e ben riconoscibile, il pianoforte pone un’impronta ben
distinta attraverso una complessa scrittura sonora che porta anche l’ascoltatore
a un’attenzione notevole durante l’ascolto. In questo nuovo album assieme a
Basso che suona il pianoforte, troviamo Arturo Bertin (pianoforte), Denis
Garzotto (flauto) e Jacopo Pisani (violino). Dodici
sono le composizioni che si possono ascoltare, tutte di una durata media di
quattro minuti per un totale di quasi cinquantatré di musica. Le
note ponderate del piano si susseguono con quiete già dal primo brano “Un
Respiro”, introspezione studiata e malinconica, dove la mente si lascia
abbindolare senza porre resistenza. In
“Danzando 4” il discorso non cambia di molto, aperture sonore lasciano entrare
raggi di sole nella nostra fantasia pur rimanendo sempre in zone nostalgiche. L’esecuzione
è ricercata oltre che perfetta nello stile. Sempre il piano si propone in “Luc-Art”,
le dita corrono sulla tastiera avanti e indietro proprio come fanno le onde del
mare in una risacca. Ballata morbida e cadenzata è “Remember”, accarezzata dal
flauto di Denis Garzotto. Più breve “Free Fly 2”, ma qui si alza il ritmo e il
violino di Jacopo Pisani apporta una spinta maggiore. “Folk Song” a differenza
del titolo inizialmente ha ben poco di popolare, direi piuttosto d’intimistico
per poi invece lasciarsi andare in una giocosa stesura che conduce verso il
Vesuvio. La title track “To Tell” si presenta con tutte le strumentazioni, un
richiamo alla musica classica quasi alla Rondò Veneziano del maestro Reverberi,
ma è solo una immediata sensazione che con l’ascolto nel tempo va a svanire
lasciando spazio alla personalità ben definita di Basso. Nel titolo “Suoni Di
Pace” c’è tutto il significato di quanto ho descritto in precedenza, ossia del
saper ponderare nota per nota. “’76”
è un anno che a Luciano Basso ha portato fortuna e probabilmente il titolo di
questo brano vuole essere una dedica ad esso o forse no, chissà, resta il fatto
che è musica per la mente, solare e delicata. In “Fandango” è quasi più forte
il silenzio del suono dei martelletti del pianoforte, la musica è fatta di
pause che a loro volta sono fondamentali tanto quanto i suoni, relegando al
pezzo una cura maggiore oltre che spunti di riflessione. E guarda caso giunge il brano “Riflessioni”
ma la malinconia questa volta si scansa per la giovialità e di nuovo tornano le
coralità strumentali. Il violino apre “Reverse”, ultima composizione del disco
che si lascia ascoltare con piacere com’è accaduto per tutto il tragitto
sonoro. “To
Tell” è Prog o musica classica moderna? Poco importa il termine, l’importante è
che artisti come Luciano Basso siano sempre presenti e ricchi d’ispirazione
come in questo caso, poi sarà il tempo a dire chi o come si collocherà questa
musica. Consigliato l’ascolto per un vero momento di relax. MS
https://lucianobasso.bandcamp.com/album/to-tell
Versione inglese:
LUCIANO BASSO – To Tell AMS Records Genere: Classica – Elettronica – Progressive Rock Supporto: Bandcamp / cd – 2023
When talking about Italian Progressive Rock of the 1970s we must not make the mistake of lumping all bands together. It is true that the term means experimentation, or at least the desire to push Rock towards new solutions, but beware, the genres within are really many and can range from electronic, to Hard Rock, to classical, to Jazz, to Folk, in short towards many musical styles. The grafts lead to new results that are part of our cultural evolution, the search is never ending, even if many critics say that there is little left to invent.Recall an electronic Battiato in the early 1970s, a symphonic "Concerto Grosso" by the New Trolls, or the Hard Rock of Biglietto Per L'inferno all to confirm the concept. To still see top names at work today only adds to my passion for this genre that has inexorably changed with the times over time but has maintained a willingness to try new things. Experience is essential, also technical expertise that is honed through concerts and many rehearsals.One of the interesting names in Italian Progressive Rock is Luciano Basso, a Venetian keyboardist and pianist from the 1970 band Il Mucchio. Basso, a lover of electronics and classical music, made an important record in 1976 just in his solo debut entitled "Voci" (Vinyl Magic - 1976). Over time he always devoted himself to music steadily and never in a hurry, focusing his attention on every note. This leads to the recording of eight more studio albums, including this latest one "To Tell".The style is personal and well recognizable, the piano sets a distinct imprint through complex sound writing that also brings the listener to considerable attention while listening. In this new album along with Basso who plays piano, we find Arturo Bertin (piano), Denis Garzotto (flute) and Jacopo Pisani (violin).Twelve are the compositions that can be listened to, all with an average duration of four minutes for a total of almost fifty-three pieces of music.The thoughtful notes of the piano follow each other quietly already from the first track "Un Respiro," a studied and melancholic introspection where the mind allows itself to be captivated without putting up resistance. In "Dancing 4" the subject matter does not change much, sonic openings let rays of sunshine into our imagination while still remaining in nostalgic zones. The execution is refined as well as perfect in style. Again the piano comes up in "Luc-Art," fingers running over the keyboard back and forth just as the waves of the sea do in an undertow. A soft, cadenced ballad is "Remember," caressed by Denis Garzotto's flute. Shorter "Free Fly 2," but here the tempo picks up and Jacopo Pisani's violin brings a greater thrust. "Folk Song" unlike the title initially has little of the popular, I would say rather of the intimate to then instead let loose in a playful drafting that leads toward Vesuvius. The title track "To Tell" comes with all the instrumentation, a call to classical music almost a la Rondò Veneziano by maestro Reverberi, but it is only an immediate sensation that with listening over time fades away leaving room for Basso's well-defined personality. In the title "Suoni Di Pace" there is all the meaning of what I described above, that is, of being able to ponder note by note."'76" is a year that brought Luciano Basso good luck and probably the title of this track is meant to be a dedication to it or maybe not, who knows, the fact remains that it is music for the mind, sunny and delicate. In "Fandango" the silence is almost louder than the sound of piano hammers, the music is made up of pauses that in turn are as fundamental as the sounds, relegating to the piece a greater care as well as food for thought. And lo and behold, the track "Reflections" arrives, but the melancholy this time shrugs off for joviality and again the instrumental choruses return. The violin opens "Reverse," the last composition on the disc, which is left to be listened to with pleasure as it has been throughout the sonic journey. "To Tell" is it Prog or modern classical music? Little does the term matter, the important thing is that artists like Luciano Basso are always present and rich in inspiration as in this case, then time will tell who or how this music will be placed. Recommended listening for a true moment of relaxation. MS
STEFANO
PANUNZI – Pages From The Sea SP
Music / Burning Shed Genere: Crossover Prog Supporto: digitale – 2023
E’
sorprendente come nel 2023 puntualmente ci siano ancora persone nei social recriminanti
il fatto che il Progressive Rock in Italia sia morto. Oggi abbiamo internet che
ci aiuta a scoprire avendo il mondo in casa quante persone si dedichino ancora a
questo genere. L’editoria poi ne è piena, escono addirittura riviste dedicate
all’argomento come ad esempio “Prog”, cosa che da noi non accadeva neppure
negli anni ’70 quando il genere spopolava in tutte le classifiche, oppure in
libreria. Personalmente ho scritto quattro libri per Arcana sull’argomento post
anni ’70. Eppure è così. Certo è che le vendite non sono molte, il disco a
parte qualche ritorno di fiamma vinilico, sono sconfortanti, se non si suona
dal vivo il guadagno per un musicista è vicino allo zero. Eppure malgrado mille
difficoltà l’amore per questa musica è grande e non si ferma mai. Bene lo sa
anche il tastierista romano Stefano Panunzi, il quale esce con la sua quarta fatica in studio intitolata “Pages From The Sea”. Chi
segue il Prog conosce già il nome di Panunzi in quanto presente nel progetto
Fijeri, vero e proprio supergruppo fondato nel 1997 e autore di due dischi di
notevole fattura intitolati “Endless” (2009) e “Words Are All We Have” (2015),
mentre l’ultimo disco della sua carriera solista s’intitola “Beyond The
Illusion” (2021) e consegue un buon successo di critica. Promuove
musica raffinata, comparabile a uno stile come quello dei No Man, oppure al David
Sylvian, il tutto con un tocco moderno di Porcupine Tree, gruppo inglese preso
negli ultimi anni come riferimento per nuovi innesti nel Prog. Nelle
realizzazioni si avvale spesso della presenza di numerosi special guest, nel
caso di “Pages From The Sea” i nomi sono: Jakko M Jakszyk (King Crimson), Robby
Aceto, Pat Mastellotto (King Crimson, ORk), Mike Applebaum (Ennio Morricone, Jovanotti,
Zucchero, Tiromancino), Markus Reuter (The Crimson ProjeKct), Sirenée, Sunao
Inami, Peter Goddard (The Mousetrap Factory), Peter Dodge, Giacomo Anselmi (Goblin
Rebirth), Fabio Fraschini (Novembre, Il Volo, Marina Rei), Fabio Trentini,
Stefano Petrocco, Cristiano Capobianco, Luca Fareri, Alessandro Inolti e Nicola
Lori (Fijeri). Come avete avuto modo di constatare sono tutti artisti di
elevata capacità balistica oltre che di fama, tutto questo apporta all’intero
lavoro inevitabilmente una marcia in più e delle alte attese. Il
disco è formato da dodici brani, mentre la bella copertina è di Bernd Webler. In
un movimento di stile King Crimson il disco si apre con “Which Trust?” dal
suono caldo e avvolgente grazie al basso di Fabio Fraschini. Non esulano
passaggi nel Jazz anche attraverso una tromba. Lo strumentale è bene arrangiato
e dimostra stile oltre che la consapevolezza di avere una ragguardevole cultura
musicale racimolata negli anni. Il
mondo di Steven Wilson e dei No Man si evince maggiormente in “Not Waiving, But
Drowning” dove anche la voce di Jakko M Jakszyk ricorda quella di Tim Bowness o
di Giancarlo Erra (No Sound). Il pezzo etereo e sognante lascia poi il passo a “The
Secret”, qui il ritmo sale e comunque siamo sempre nei pressi del contesto,
questa volta leggermente più incline verso i Porcupine Tree. Con questi nomi
non voglio dire che “Pages From The Sea” sia un album derivativo, perché Stefano
Panunzi ha una sua netta personalità, dettata dall’animo morbido e gentile
riflesso in maniera inequivocabile nelle composizioni realizzate. Con “The Sea”
le tastiere fanno sognare ad occhi aperti, qui la musica diventa una telecamera.
Nuovi interventi Jazzy si palesano in “You And I”, sempre sognante nell’incedere
ma non scontata nella stesura armonica. “Steel Wave” ha frangenti elettrici
oltre che elettronici, mentre “Every Drop Of Your Love” è una ballata dotata di
autorevole personalità. Il mare, vero protagonista dell’album da come si evince
dalla copertina, si quieta e lascia la calma piatta in “Swimming To Sea” dove a
tratti il duca bianco David Bowie fa capolino. “I'm
Feeling So Blue” nonostante il titolo non rilascia tristezza, il ritmo è
abbastanza alto mentre l’elettronica disegna andamenti orecchiabili che fanno
da supporto alla struttura ricercata e soave. Altra quiete con “Those Words
(Words are All We Have)”, ennesimo fotogramma sonoro. Fra i passaggi più
vigorosi (se così vogliamo chiamarli) troviamo “An Autumn Day”, addolciti dalla
voce femminile di Sirenée. E la figura femminile è anche la protagonista di “The
Sea Woman”, altra perla sonora di delicata fattura. La
musica di Stefano Panunzi è questa, rispettosa dell’ascoltatore e specchio dell’anima.
Non c’è bisogno di spingere sull’acceleratore per correre quando a volte basta
semplicemente chiudere gli occhi addirittura per volare. MS
Versione Inglese:
STEFANO PANUNZI – Pages From The Sea SP Music / Burning Shed Genere: Crossover Prog Supporto: digitale – 2023
It is amazing how in 2023 punctually there are still people in social recriminating that Progressive Rock in Italy is dead. Today we have the Internet that helps us find out by having the world at home how many people are still dedicated to this genre. Publishing then is full of it, there are even magazines coming out dedicated to the subject such as "Prog," something that didn't even happen here in the 1970s when the genre was all the rage in the charts, or in bookstores. Personally, I have written four books for Arcana on the topic post 1970s. And yet it is. Of course it is that sales are not many, the record aside from a few vinyl comebacks are discouraging, if you don't play live the income for a musician is close to zero. Yet despite a thousand difficulties the love for this music is great and never stops. Roman keyboardist Stefano Panunzi, who comes out with his fourth studio effort entitled "Pages From The Sea," knows this well. Those who follow Prog already know Panunzi's name as he is present in the Fijeri project, a real supergroup founded in 1997 and author of two remarkable records titled "Endless" (2009) and "Words Are All We Have" (2015), while the last record of his solo career is titled "Beyond The Illusion" (2021) and achieves good critical success. He promotes refined music, comparable to a style like that of No Man, or to David Sylvian, all with a modern touch of Porcupine Tree, an English group taken in recent years as a reference for new graft in Prog. In the releases he often makes use of the presence of numerous special guests, in the case of "Pages From The Sea" the names are: Jakko M Jakszyk (King Crimson), Robby Aceto, Pat Mastellotto (King Crimson, ORk), Mike Applebaum (Ennio Morricone, Jovanotti, Zucchero, Tiromancino), Markus Reuter (The Crimson ProjeKct), Sirenée, Sunao Inami, Peter Goddard (The Mousetrap Factory), Peter Dodge, Giacomo Anselmi (Goblin Rebirth), Fabio Fraschini (Novembre, Il Volo, Marina Rei), Fabio Trentini, Stefano Petrocco, Cristiano Capobianco, Luca Fareri, Alessandro Inolti and Nicola Lori (Fijeri). As you have been able to ascertain they are all artists of high ballistic ability as well as reputation, all of which inevitably brings to the whole work a high gear and high expectations. The record consists of twelve tracks, while the beautiful cover art is by Bernd Webler. In a King Crimson-style movement, the disc opens with "Which Trust?" with a warm, enveloping sound thanks to Fabio Fraschini's bass. Passages into jazz also through a trumpet do not exude. The instrumental is well arranged and demonstrates style as well as an awareness of a considerable musical culture gleaned over the years. The world of Steven Wilson and No Man is most evident in "Not Waiving, But Drowning" where Jakko M Jakszyk's voice is also reminiscent of Tim Bowness or Giancarlo Erra (No Sound). The ethereal, dreamy piece then gives way to "The Secret," here the pace picks up and still we are always near the context, this time leaning slightly more toward Porcupine Tree. By these names I do not mean to say that "Pages From The Sea" is a derivative album, because Stefano Panunzi has his own distinct personality, dictated by the soft and gentle soul unmistakably reflected in the compositions made. With "The Sea" the keyboards make one daydream, here the music becomes a camera. New Jazzy interventions become apparent in "You And I," always dreamy in its procession but not predictable in its harmonic drafting. "Steel Wave" has electric as well as electronic bangs, while "Every Drop Of Your Love" is a ballad with authoritative personality. The sea, the real protagonist of the album from as the cover suggests, quiets down and leaves a flat calm in "Swimming To Sea" where at times the white duke David Bowie peeps out. "I'm Feeling So Blue" despite its title doesn't release sadness, the beat is quite high while the electronics draw catchy gaits that back up the refined and suave structure. More stillness with "Those Words (Words are All We Have)," yet another sonic frame. Among the more vigorous passages (if we want to call them that) we find "An Autumn Day," softened by Sirenée's female voice. And the female figure is also the protagonist of "The Sea Woman," another delicately crafted sonic gem. Stefano Panunzi's music is this, respectful of the listener and a mirror of the soul. There is no need to push on the accelerator to run when sometimes you simply need to close your eyes even to fly. MS
THOMAS
LASSAR – From Now On Art
Of Melody Music / Burning Minds Music Group Genere: AOR Supporto: cd – 2023
La
storia del genere musicale A.O.R. ha radici lontane, piantate negli anni ’60 in
America quando certi brani cominciano ad avere una durata maggiore rispetto ai
45 giri in voga in quel periodo. E’ un formato prettamente radiofonico e da qui
deriva l’abbreviazione in A.O.R. (Album Oriented Radio). Generalmente queste
canzoni stazionano dunque nei più capienti 33 giri e in concomitanza con l’uso
sempre maggiore della FM radiofonica al posto dell’AM, in America prende piede
in maniera importante. Con il passare degli anni sempre nel grande continente,
band come Toto, Journey, Rush, Boston prendono maggiormente campo miscelando
l’Hard Rock con il Progressive, ed ecco che il Rock diventa sempre più
elegante, anche con una punta di Glam. Ed è per questo che il termine A.O.R.
può anche significare Adult Oriented Rock. Resta il fatto che la musica
proposta generalmente è tanto orecchiabile, seppure dotata di buona tecnica da
parte degli strumentisti in azione. Non a caso c’è chi definisce il genere
“Hard Pop”. Anche
nel 2023 escono buone realizzazioni da parte di chi comunque nella musica ha
militato con professionalità, come nel caso dello svedese Thomas Lassar. Amante
ed esecutore delle tastiere sin da bambino Lassar vive la scena svedese facendo
parte di alcune band locali, per poi approdare a una delle formazioni più
interessanti dell’A.O.R., i Crystal Blue. Purtroppo la band si scioglie presto,
e il nostro cantante e tastierista inizia la carriera di turnista collaborando
con band anche famose nel panorama in questione come per esempio i Last
Autumn’s Dream e i Charming Grace. Con la concomitanza della pandemia,
l’artista si chiude in studio per creare il suo primo risultato da solista:
“From Now On”. Il
disco contiene un bel libretto per opera di Antonella “Aeglos” Astori con
fotografie di Pavel Koubek, mentre le note introduttive sono scritte da Jörg
Bonszkowski (Rock It! Magazine, Rock Avenue Radio Show). In esso sono contenuti
i testi oltre che i credits brano per brano. Dieci le canzoni e il singolo
apripista s’intitola “Whatever I Do”, un pezzo che mostra tutto lo splendore di
questo genere, sonorità ampie esaltate da una buona registrazione effettuata al
Basement Studio di Orebro in Svezia. Le tastiere ricoprono ovviamente il ruolo
di prima donna oltre alla bella voce di Lassar, tuttavia non possono mancare i
brevi assolo di chitarra elettrica prerogativa dell’A.O.R. in questo caso
effettuato da Rob Marcello. Con l’artista suonano il batterista dei Crystal
Blue Fredrik Akermo, il chitarrista degli AMOK Fredrik Fernlund, il bassista
Ake Jennstig e il chitarrista ospite Rob Marcello (Defiants) che appunto dona
la sua arte in tre tracce. Non
mancano ripetutamente i deja vu, ma poco interessa quando l’energia elargita è
pulita oltre che corroborante, “When My Ship Comes In” la sa lunga al riguardo.
“Losing Faith” rallenta il ritmo ma non l’intensità, le coralità con cui è
composta tendono infatti a farci cantare assieme a loro. Altra
caratteristica dell’A.O.R. sono le ballate, quelle dritte al cuore, senza fare ostaggi
come nel caso di “Back Where I Started” o della conclusiva e pianistica “From
Now On”. Esistono brani più ricercati ad esempio “In Control”, una semi ballata
aperta dalla chitarra acustica oppure “Turn Back Time”, fra le mie preferite.
Per il resto tutto gradevole, ben arrangiato e nella norma. Thomas
Lassar rilascia un debutto elegante fatto per chi sa apprezzare la musica in
tutte le sue sfaccettature, ma soprattutto tengo a sottolineare che è scritto
con il cuore, e si sente! MS
Versione inglese:
THOMAS
LASSAR - From Now On Art
Of Melody Music / Burning Minds Music Group Genre:
AOR Support:
CD-2023
The
history of the A.O.R. music genre has distant roots, planted in the 1960s in
America when certain tracks began to be longer than the 45 rpm records in vogue
at the time. It is a purely radio format and hence the abbreviation in A.O.R.
(Album Oriented Radio). Generally, these songs therefore stayed in the larger
33 rpm's and in conjunction with the increasing use of FM radio in place of AM,
in America it took off in a big way. As the years went by, still on the great
continent, bands like Toto, Journey, Rush, Boston took the field more, mixing
Hard Rock with Progressive, and Rock became more and more elegant, even with a
hint of Glam. And that is why the term A.O.R. can also stand for Adult Oriented
Rock. The fact remains that the music on offer is generally very catchy, albeit
with good technique on the part of the instrumentalists in action. It is no
coincidence that some call the genre Hard Pop'. Even
in 2023, good achievements come out from those who have been professionally
involved in music, as in the case of Swede Thomas Lassar. A lover and performer
of keyboards since childhood, Lassar experienced the Swedish scene by being
part of a few local bands, before joining one of the most interesting A.O.R.
formations, the Crystal Blue. Unfortunately, the band soon broke up, and our
singer and keyboard player began a career as a session player, collaborating
with bands that were also famous in the scene in question, such as Last
Autumn's Dream and Charming Grace. With the concomitance of the pandemic, the artist
closes himself in the studio to create his first solo output “From Now On”. The
disc contains a beautiful booklet by Antonella “Aeglos” Astori with photographs
by Pavel Koubek, while the introductory notes are written by Jörg Bonszkowski
(Rock It! Magazine, Rock Avenue Radio Show). It contains the lyrics as well as
track-by-track credits. There are ten songs and the lead single is entitled
Whatever I Do', a track that shows all the splendour of this genre, wide sounds
enhanced by a good recording made at the Basement Studio in Orebro, Sweden. The
keyboards obviously play the role of prima donna in addition to Lassar's
beautiful voice, but there is no shortage of short electric guitar solos
prerogative of A.OR. in this case performed by Rob Marcello. Playing with the
artist are Crystal Blue drummer Fredrik Akermo, AMOK guitarist Fredrik
Fernlund, bassist Ake Jenn stig and guest guitarist Rob Marcello (Defiants),
who lends his artistry on three tracks. There
is no shortage of deja vu repeatedly, but it matters little when the energy
bestowed is clean as well as invigorating. When My Ship Comes In' knows a lot
about that. "Losing Faith" slows the pace but not the intensity, the
chorality with which it is composed tends to make us sing along. Another
characteristic of A.O.R. are the ballads, those straight to the heart, without
making hostages as in the case of Back Where I Started or the concluding,
piano-driven From Now On'. There are more sophisticated tracks such as In
Control, a semi-ballad opened by the acoustic guitar, or Tum Back Time, one of
my favourites. Otherwise everything is pleasant, well arranged and within the
norm. MS Thomas
Lasser releases an elegant debut made for those who know how to appreciate
music in all its facets, but above all I would like to emphasise that it is
written from the heart, and it can be heard! MS
SUPERCANIFRADICIADESPIAREDOSI –
Aggiovaggio Aramis Records/Lizard Records Genere: Progressive Rock – Rock Supporto: vinile 12” – Digital –
2023
Leggere
e ascoltare, quanto è mancato! Un balzo indietro nel tempo con un supporto
vinilico in mano e tanto di fumetto allegato di sedici pagine, con testi e
quant’altro, una vera goduria. Sembra di tornare negli anni ’70, seduto avanti
ad un buon stereo, un’incisione fatta a regola d’arte e un concept da seguire
per una suite dove il viaggio verso Giove tiene alta la tensione. Il
trio trentino Supercanifradiciadespiaredosi ritorna così dopo ben cinque anni
dall’ottimo “Geni Compresi” (Lizard Records – 2017), con un innesto nuovo nella
line up, Nestor Fasteedio al secondo basso. Avete letto bene, trattasi di
formazione decisamente anomala con due bassi e una batteria, l’altro basso è
suonato da Brodolfo Sgangan (Boris Saracco) mentre dietro alle pelli siede Randy
Molesto. La musica non è di certo convenzionale, rispecchia il gusto per la
satira che si spalma fra le note e il cantato, tuttavia essendo una suite di
dodici minuti suddivisa in otto parti nel lato A e una performance live nel
lato B, porta a inserirla nel contesto sperimentale grazie anche ai riferimenti
nei confronti di King Crimson, Magma, Rush e Yes. “Aggiovaggio”
è quindi una mini opera Rock a tutti gli effetti, formata da riferimenti come
già detto verso il passato ma con uno sguardo dritto al futuro. Il
viaggio cosmico non può partire che con il “Decollo”. La navicella si chiama
Bautilus ed è costruita dalla NASO (sì, avete letto bene, perchè è fatta a forma di naso). I bassi pulsano come propulsori e sputano i nostri tre eroi fuori
dell’atmosfera, dove ad attenderli c’è la quiete. Musica senza chitarre e
tastiere, eppure non si patisce la mancanza, perché i musicisti affrontano le
melodie con ricercatezza ma anche nuove soluzioni supportate dalla graffiante
voce di Brodolfo. I cambi di ritmo sono ovviamente annessi al viaggio, essi
descrivono le varie fasi della storia. La velocità del Bautilus si stabilizza,
tutto sembra procedere secondo i piani mirando verso Giove. Un Blues accompagna
il movimento, ma improvvisamente un ritmo serrato di batteria fa da colonna
sonora a ciò che accade, una navicella aliena colpisce il trio con un vortice
magnetico che fonde le tre menti dei passeggeri cancellandogli i ricordi,
l’attimo si chiama “Attacco Alieno”. Storditi in una sorte di lobotomia
cerebrale, si spingono verso un “Buco Nero” ma fortunatamente ne escono illesi.
La rotta però è cambiata, sono ora diretti verso l’enorme satellite “Ganimede”
mentre la musica richiama materiale King Crimson. Durante il percorso fuori il
buco nero avviene imminente l’incontro con “Nautilo”, un enorme essere
portatore di vita sulla terra. Esso inocula nelle menti dei tre passeggeri il
seme del ricordo, così la missione di scendere sul pianeta gassoso è
ripristinata. Con un “Aggiovaggio” perfetto, il trio apre lo sportellone del
Bautilus apportando in questo mondo ossigeno che mischiandosi all’idrogeno
esistente nell’atmosfera come un liquido seminale, dona la vita all’enorme
pianeta facendo nascere anche la fauna. La musica diviene gioiosa mentre i
testi dell’atto conclusivo “Vita”, composta da primitivi canti sciamani rifatti
in verso, decantano: “Eccoci, siamo il loro Dio, ma chi è il Dio del Nautilo?
Di chi è Dio Giove?”. Probabilmente è l’inizio di una nuova storia, di certo
non la fine. “Ognuno
è il Dio di qualcun altro”. Tante
idee, in “Aggiovaggio”, buona tecnica, suoni, armonie, energia, psichedelia, un
trip da affrontare con il libretto in mano per gustarla a pieno nella sua
interezza. Vista la formazione strumentale è ovvio che il ritmo faccia da
padrone, e quindi resterà anche difficile rimanere fermi durante l’ascolto. I Supercanifradiciadespiaredosi
sono davvero coinvolgenti! I
disegni fatti a mano del libretto sono di Brodolfo Sgangan. Finalmente
qualcuno che esalta l’artwork, perché negli ultimi decenni la musica liquida ha
fatto perdere questo rapporto fisico fra musica e supporto, probabilmente
qualche neofita si innamorerà oggi di questo connubio, mentre i più attempati
come me non possono che godere di questo ritorno. Dell’album
che viaggia alla velocità di un 45 giri per una migliore qualità sonora, sono
state stampate 300 copie, cosa aspettate ad acquistarne una? Almeno per
curiosità o per ricordare i bei tempi che furono. MS
Versione Inglese:
SUPERCANIFRADICIADESPIAREDOSI – Aggiovaggio Aramis Records/Lizard Records Genere: Progressive Rock – Rock Supporto: vinile 12” – Digital – 2023
Reading and listening, how much it
has been missed! A leap back in time with a vinyl stand in hand and lots of
attached sixteen-page comic book, with lyrics and whatnot, a real treat. It
feels like going back to the 1970s, sitting in front of a good stereo, a
professionally made recording and a concept to follow for a suite where the
journey to Jupiter keeps the tension high.The Trentino trio Supercanifradiciadespiaredosi
thus returns after a good five years since the excellent "Geni
Compresi" (Lizard Records - 2017), with a new graft in the line up, Nestor
Fasteedio on second bass. You read that right, this is definitely an anomalous
lineup with two basses and one drum set, the other bass is played by Brodolfo
Sgangan (Boris Saracco) while behind the skins sits Randy Molesto. The music is
certainly unconventional, reflecting the taste for satire that is smeared
between the notes and the singing, however being a twelve-minute suite divided
into eight parts on side A and a live performance on side B, leads one to place
it in the experimental context thanks also to the references towards King
Crimson, Magma, Rush and Yes. "Aggiovaggio" is thus a mini Rock opera
in its own right, formed by references as already mentioned toward the past but
with a straight look to the future.The cosmic journey can only start with
"Takeoff." The spacecraft is called Bautilus and is built by NASO
(yes, you read that right, because it is made in the shape of a nose). The bass
pulses like thrusters and spits our three heroes out of the atmosphere, where
quiet awaits them. Music without guitars and keyboards, yet one does not suffer
the lack, as the musicians tackle the melodies with sophistication but also new
solutions supported by Brodolfo's scratchy voice. Changes of rhythm are
obviously attached to the journey; they describe the various stages of the
story. The speed of Bautilus stabilizes, everything seems to proceed according
to plan aiming toward Jupiter. A Blues accompanies the movement, but suddenly a
tight drum beat acts as a soundtrack to what is happening, an alien spacecraft
hits the trio with a magnetic vortex that merges the three minds of the
passengers erasing their memories, the moment is called "Alien
Attack." Stunned in a kind of cerebral lobotomy, they drive into a
"Black Hole" but fortunately emerge unharmed. The course, however,
has changed; they are now headed toward the huge satellite "Ganymede"
while the music recalls King Crimson material. On the way out of the black hole
an encounter with "Nautilo," a huge life-bearing being on earth,
occurs imminently. It inoculates in the minds of the three passengers the seed
of remembrance, so the mission to descend to the gaseous planet is restored.
With a perfect "Aggiovaggio," the trio opens the hatch of the
Bautilus bringing oxygen into this world, which, mixing with the hydrogen
existing in the atmosphere as a seminal liquid, gives life to the huge planet
while also giving birth to fauna. The music becomes joyful as the lyrics of the
closing act "Life," composed of primitive shaman chants remade into
verse, decant, "Here we are, we are their God, but who is the God of
Nautilus? Whose God is Jupiter?" It is probably the beginning of a new
story, certainly not the end. "Everyone is someone else's
God." Lots of ideas, in
"Aggiovaggio," good technique, sounds, harmonies, energy,
psychedelia, a trip to be approached with the booklet in hand to fully enjoy it
in its entirety. Given the instrumental lineup, it is obvious that the rhythm
plays the lead, and so it will also remain difficult to stay still while
listening. Supercanifradiciadespiaredosi are truly engaging! The handmade drawings in the booklet
are by Brodolfo Sgangan. At last someone extolling the
artwork, because in the last decades liquid music has caused this physical
relationship between music and medium to be lost, probably some neophytes will
fall in love with this union today, while the older ones like me can only enjoy
this comeback. Of the album that travels at the
speed of a 45 rpm for better sound quality, 300 copies were printed, so what
are you waiting for to buy one? At least out of curiosity or to remember the
good old days. MS
Anni fa, durante l’attesa di un concerto, ero vicino a due
ragazzi che parlavano degli Iron Maiden, alla fine della discussione uno disse
all’altro qualcosa del tipo: “… si però gli Iron Maiden non sono veramente
metal, loro sono più hard rock”. Questa affermazione, per me sorprendente, mi è
sempre rimasta impressa, perché i Maiden possono essere considerati come il
gruppo di punta della New Wave Of British Heavy Metal (detta in gergo anche
NWOBHM), ovvero il movimento che ha dato il via ufficiale all’heavy metal. È
vero che oggi troviamo nel circuito metal band che fanno una musica
esponenzialmente più potente e cattiva dei Maiden, ma cos’è l’hard rock? Con
questo speciale vogliamo tentare di raccontarvi la nascita e l’evoluzione di
questo particolare genere musicale che, nella storia della musica pop moderna,
è stato fra i più amati dal pubblico e al tempo stesso fra i più bistrattati e
snobbati dai media, da buona parte della critica “colta” e dai puritani del
suono. Eppure, pochi sono i generi musicali che hanno potuto vantare la
longevità e lo stesso seguito di appassionati dell’hard rock. Nel presente
articolo cercheremo di scavare più a fondo possibile nei suoi vasti meandri,
per arrivare idealmente fin verso i primi anni ‘80, con qualche rapido accenno
ai tempi odierni, facendo una specie di gioco di rimando alle due sponde
dell’Atlantico, con la consapevolezza che non riusciremo a ricordare tutti i
gruppi e nemmeno ad esaurire tutti gli aspetti (non vuole essere un articolo
enciclopedico), per cui ci scusiamo per tutte le possibili lacune e vi saremo
davvero grati se avrete la pazienza e la cortesia di volercele eventualmente
segnalare. Buona lettura.
L’hard rock si è sviluppato principalmente in America e in
Inghilterra, com’è noto la prima è stata la culla del rock, il paese dove tutto
ha avuto inizio, la seconda però non ha vissuto di riflesso ed ha partorito
alcuni dei gruppi più influenti di tutto il movimento, mentre gli altri paesi
per lo più sono rimasti a guardare, con pochissime, seppur valide, eccezioni.
C’è sempre stata una forte rivalità fra le due sponde dell’Oceano, quando si
parla di hard rock tutti pensano subito alla triade Led Zeppelin, Deep Purple e
Black Sabbath, che è tutta inglese, ma anche in America troviamo una triade
importante composta da Aerosmith, Kiss e Blue Öyster Cult. Il fenomeno musicale
è stato molto più complesso di quanto potrebbe apparire, in parte a causa di
una genesi articolata e in parte per tutti i sottogeneri e le ramificazioni che
questo tipo di musica col tempo ha prodotto, per cui se è vero che ci sono
fattori comuni fra i vari gruppi, come l’abbondante uso della distorsione nei
suoni, è anche vero che sono molte di più le singole peculiarità. Per fare una
carrellata di esempio possiamo citare i seguenti sottogeneri: dark, prog, glam,
boogie, southern, AOR, kraturock, psichedelia, space, folk…, tutti molto
diversi tra loro, ma tutti con caratteristiche proprie che li distinguono dagli
altri, per cui non si può certo dire che il sound blues dei Mahogany Rush suoni
come quello acido e rivoluzionario degli Edgar Broughton Band, che il boogie
rock dei Bad Company assomigli al songwriting visionario degli Atomic Rooster,
che i pomposi Queen siano accostabili ai progressivi Gravy Train, che i
seminali ed epici Dust abbiano qualcosa in comune col funky degli sperimentali
Trapeze, che gli spaziali Hawkwind siano paragonabili al southern rock dei
Lynyrd Skynyrd, che i campioni di melodia Boston abbiano lo stesso impatto dei
ruvidi Lucifer’s Friend, così pure il folk irlandese degli Horslips è
radicalmente diverso dal proto punk degli spregiudicati New York Dolls e così
via. Tutti fanno hard rock, ma tutti hanno un’identità diversa, forte e ben
definita.
La vitalità dell’hard
rock è derivata senza dubbio dalla sua capacità di trasformarsi, di
contaminarsi e rinascere ciclicamente, fino ad arrivare ai giorni nostri in
piena salute. Infatti se da un lato ci sono i vecchi leoni che continuano a
ruggire, dall’altro sono molti i giovani artisti che si rifanno a sonorità che
possiamo definire “datate” o, se preferite un termine alla moda, “vintage”. Da
alcuni anni è nato spontaneamente tutto un movimento, ancora molto uderground,
di gruppi che suonano musica in pieno seventies style. E molti musicisti vengono
da band di metal estremo, come un ideale percorso all’indietro.
Di certo figli dell’hard rock sono il grunge di Nirvana,
Soundgarden e Pearl Jam e lo stoner di Kyuss, Fu Manchu, Spiritual Beggars e
Orange Goblin, ma anche moltissimo crossover e praticamente tutta la scena
alternative degli anni ’90 a partire dai Jane’s Addiction per arrivare fino ai
Rage Against The Machine può essere considerata come la naturale evoluzione del
genere. Sempre negli ultimi anni sono emerse band come Placebo, Skunk Anansie,
HIM, Cranberries, Muse, Rasmus, che hanno avuto successo suonando un rock
decisamente “duro”.
In tutto questo discorso non abbiamo ancora accennato al
punk, il movimento musicale e politico che alla fine degli anni ’70 ha generato
un vero e proprio tsunami nella scena musicale mondiale. Come tutti sanno, il
punk ha scardinato tutti i grandi gruppi storici, che apparivano ormai spompati
e privi di idee, spesso stritolati da logiche più commerciali che artistiche,
ma anche questo genere, nelle sue forme più ruvide, ha pescato a piene mani
nella tradizione hard rock, tanto che i Sex Pistols, i padri indiscussi del
punk, sono considerati ai limiti del genere, mentre i Motorhead, icona metal
per antonomasia, figuravano insieme alle Girl School nelle prime compilations
punk. Negli anni a venire poi ci saranno gruppi figli del punk e di certa new
wave che torneranno a sonorità prettamente seventies, come hanno fatto ad
esempio i Cult dell’album Love e più ancora con Electric o i Lords of the New
Church di Method to Our Madness, e ancora i Mission, gli Hoodoo Gurus e Zodiac
Mindwarp, ma questa è un’altra storia.
ATTO PRIMO. LA NASCITA DEL MOVIMENTO,
IL SUONO SI FA “DURO”
Facciamo un piccolo passo indietro. Negli anni ’50 prende
sempre più forma una nuova classe sociale, quella dei “teenagers”. Bisogna
sapere che prima di allora i teenagers non esistevano, nel senso che non si
parlava di loro e dei loro problemi. Con l’avvento dell’industrializzazione i
giovani hanno cominciato ad avere sempre più tempo libero (prima si andava a
lavorare a undici dodici anni) e questo fenomeno ha preso rilievo con il boom
economico di quegli anni. Da un lato i giovani hanno assunto una nuova
consapevolezza e si sono aggregati in gruppi sempre più grandi, da un altro
lato il mondo “adulto” ed economico ha cominciato ad accorgersi di loro e a
considerarli come una risorsa e un possibile business. Hanno cominciato a
diffondersi nuove mode e nuovi linguaggi musicali, per i giovani aggregarsi e
suonare è stato un fenomeno in rapida espansione. Con il passare degli anni
questo fenomeno si è amplificato sempre più.
All’inizio degli anni ’60 spadroneggiavano i grandi folk
singer alfieri del pacifismo come Pete Seeger, Joan Baez, Bob Dylan, Phil Ochs,
Donovan, che avevano portato i giovani ad appassionarsi di politica, c’era la
guerra in Vietnam, che tanto peso aveva avuto sull’opinione pubblica, mentre la
gente comune ormai si stava rendendo conto che il bel sogno americano degli
anni ’50 era rimasto tale e la disillusione, mista ad un peggioramento
progressivo del tenore di vita di alcune classi sociali, aveva prodotto nel
tessuto sociale un crescente malcontento.
Le tensioni hanno portato i giovani ad ascoltare musica
“nuova”, più aggressiva, arriva il beat con gli “urlatori”, e in questo caso è
stata la scena inglese che ha preso il soppravvento con Yardbirds, Rolling
Stones, The Who, Kinks, Them, che iniziano a scardinare con prepotenza il canonico
pop edulcorato del tempo.
Non secondario nel diffondere il rock è stato
l’atteggiamento repressivo espresso dall’establishment americano negli anni
‘60, che vedeva nel nascente movimento musicale un pericoloso veicolo di idee
trasgressive, ma questo di fatto ha spinto ancor più a fondo l’acceleratore
ottenendo l’effetto opposto, cioè ha favorito una diffusione sempre più rapida
del movimento musicale.
La protesta, inizialmente cavalcata dai folk singer, che per
lo più proponevano ballate melodiche in chiave acustica, verso la metà degli
anni sessanta comincia a tradursi in suoni elettrici scarni ed essenziali, che
presto diventano decisamente duri. Questo inasprirsi ovviamente rendeva meglio
l’idea stessa di protesta, una vera e propria valvola di sfogo e una forma di
denuncia, che con tutta probabilità ha permesso a molti giovani di manifestare
la propria rabbia attraverso la musica piuttosto che con altre espressioni più
pericolose (che comunque negli anni a venire non sono mancate). L’avvento del
rock “elettrificato” segnò in buona parte la fine dell’epoca dei folk singer e
Bob Dylan fu il primo ad accorgersene. In musica presero sempre più piede le
vibrazioni elettriche, che gridavano il disagio dell’individuo ed esprimevano
una profonda contestazione per aver visto disattese le speranze di quella vita
spensierata e pacifica promessa dai media negli anni ’50, ma nei fatti mai
concretizzata. Anche il grande raduno di Woodstock ha cambiato profondamente le
cose. Per qualcuno è stato l’inizio di una nuova era, ma qualcun altro vi ha visto
un enorme pericolo. Non era mai successo che tanti giovani si riunissero
insieme e non si trattava solo di musica, in campo c’era una profonda
contestazione del sistema sociale e soprattutto di quello economico, sembrava
più un raduno politico-religioso che non di mero intrattenimento musicale.
L’impegno politico diretto nei testi delle canzoni comunque inizia pian piano a
sfumare e lo spirito di protesta viene affidato più all’impatto sonoro che non
ai contenuti. I testi si fanno più egocentrici, al centro non esiste che
l’“Io”. Col passare degli anni i riferimenti nelle canzoni si fanno sempre più
espliciti e toccano primariamente argomentazioni sentimentali e sessuali.
Curioso è che in quasi ogni disco, accanto ai brani “muscolosi” non mancassero
delle bellissime ballate strappacuore, i cosiddetti “lenti”.
Queste tendenze nate in America ebbero facile presa anche
sull’altra sponda dell’oceano, dove si erano create sacche di emarginazione
nelle classi operaie senza lavoro, vittime della “rivoluzione industriale”. Il
movimento musicale inglese prese talmente forza che si iniziò a parlare di
British Invasion, riferendosi al successo riscosso dai gruppi inglesi nella
patria culla del rock, ribaltando in un certo senso il flusso musicale. Questo
ideale conflitto culturale tra giovani è ben testimoniato dal famoso film
Quadrophenia, con le indimenticabili musiche degli Who.
Se questa è stata la genesi “sociologica” del movimento c’è
anche quella più prettamente musicale. La radice prima dell’hard rock è la stessa
del rock più in generale, quindi si tratta di un misto di folk e di blues,
portati all’esasperazione dall’amplificazione degli strumenti. Si può
certamente affermare che le basi su cui in seguito si svilupperà il suono
“duro” sono rintracciabili nella scena blues delle grandi città industriali del
Nord America come Detroit (omaggiata dai Kiss con il cavallo di battaglia
“Detroit Rock City”) e Chigago, dove sono emersi alcuni artisti molto
innovativi come Bo Diddley e John Lee Hooker, che diedero vita ad un blues
“sporco” e carico di elettricità. Questi artisti battevano sul beat, sul tempo,
enfatizzando la parte più ritmica. Il cambio di sound è stato influenzato con
molta probabilità dalle difficili condizioni sociali e dalle tensioni che si
sono acuite in quelle zone, non a caso proprio da Detroit partiranno alcuni dei
gruppi più “cattivi” e “politicamente scorretti” di sempre come MC5, Stooges,
Grand Funk Railroad e gli Amboy Dukes del selvaggio Ted Nugent, senza
dimenticare il grande istrione Alice Cooper.
ATTO SECONDO: LA RINCORSA FRA LE DUE
SPONDE DELL’OCEANO
In Inghilterra intanto fra i giovani comincia a diffondersi
l’amore per il blues e molti musicisti ne subiscono il fascino. Sorta di guru e
catalizzatore di talenti è John Mayall, che ha lanciato quasi tutti i più
grandi musicisti di quel periodo. Nasce il blues bianco. Fra i primi a fare
tesoro delle intuizioni di questi artisti blues ci sono gli Yardbirds, vera
fucina di talenti, non a caso hanno avuto in formazione chitarristi epocali
come Eric Clapton (che avrà il grande onore di vedere il suo nome accanto a
quello di Mayall sullo storico album del 1966), Jimmy Page e Jeff Beck. Il loro
primo album The First Recordings esce su etichetta L+R Records nel 1963.
Seguono i famigerati Rolling Stones del primo album omonimo, che vede la luce
il 14 aprile del 1964 su etichetta Deram ed è un vero spartiacque. Cambiano le
regole del gioco, anche se non è ancora il via ufficiale al movimento, perché è
difficile stabilire con esattezza la nascita dell’hard rock. Le orchestrazioni
armoniose delle big band e dei grandi ensambles lasciano il posto a gruppi di
massimo cinque o sei elementi, gli arrangiamenti diventano sempre più scarni ed
essenziali. Oltre ai già citati Rolling Stones si fanno strada con forza i
rivali Kinks, che sul primo album omonimo pubblicato il 2 ottobre del 1964 su
etichetta Pye piazzano l’epocale “You Really Got Me”, la band spopola in
patria, tuttavia la crudezza dei testi spesso molto espliciti, ma talvolta
anche poetici come in “David Watts”, testi che trattano di argomeni spinosi
come ad esempio l’omosessualità, fa del gruppo la band più “politically
uncorrect” dell’epoca, impedendo di fatto al gruppo di Ray Davies di contendere
agli Stones la palma di miglior gruppo rock del decennio. Poi ci sono gli Who
dell’inno “My Generation” edita sull’omonimo album pubblicato il 3 dicembre del
1965 su etichetta Brunswick. Altra band rivoluzionaria, i loro dischi sono
intramontabili, ma molto importante è anche l’atteggiamento fisico, l’energia
sprigionata ai concerti, l’approccio sul palco, i salti dello stesso
chitarrista, la distruzione sistematica degli strumenti e tante altre gesta
scatenate, che hanno cambiato il modo di essere musicista rock. Sin dal nome si
mette in discussione un’intera generazione, nascono i Mods, Peter Meaden (che
nel 1964 è il loro manager) dichiara in una intervista: “Essere Mod è cercare
di vivere al meglio, anche quando le circostanze e gli eventi ti sono avversi”.
Il film “Quadrophenia” è il rock, l’Lp “My Generation” è l’emblema di una
generazione, la rabbia degli Who è hard rock nella sua essenza più pura. È una
rivoluzione caotica, disordinata, proprio perché di vera rivoluzione si tratta
e non ci sono regole, anzi la vera regola è infrangere tutte le regole, ogni
band sperimenta a modo suo i nuovi suoni, la distorsione viene prodotta “in
casa”, non c’erano ancora le diavolerie che oggi la tecnologia mette a
disposizione dei musicisti, tutti si dovevano arrabattare in qualche modo per
creare i suoni che stavano prendendo piede, non solo fra i giovani musicisti,
ma soprattutto nei gusti del pubblico. L’11 maggio del 1966 esce il debutto
omonimo degli Small Faces su Decca, altra band Mod per antonomasia. Del gruppo
fa parte Steve Marriott, che più avanti fonderà i grandi Humble Pie insieme a
Peter Frampton. Il 9 dicembre 1966 su etichetta Polydor arriva Fresh Cream, il
primo album dei Cream, praticamente il primo “supergruppo” del rock ed anche
uno dei più formidabili power trio di sempre, alla chitarra ritroviamo Eric
“Slow Hand” Clapton, al basso c’è l’ottimo Jack Bruce e alla batteria c’è
l’eccezionale Ginger Baker.
Anche i Beatles, con qualche anno di ritardo, danno il loro
bravo contributo al nuovo genere con l’asprezza sorprendente di “Helter
Skelter” del famigerato White Album, pubblicato il 22 novembre del 1968 su
Apple. Paul era rimasto molto impressionato dall’ascolto di I Can See For Miles
degli Who, pubblicata l’anno prima, così volle sperimentare a sua volta l’energia
di quel nuovo sound definito come “ un concentrato di suoni caotici”. Altri
nomi di spicco sono quelli dei Them di Van Morrison e, in modo minore (per
l’hard rock), i melodici ma essenziali Procol Harum. Poi come dimenticare i
Frost, ma durarono troppo poco.
Il blues “sporco” diventava rock blues e i giovani musicisti
dell’epoca compongono brani retti su riff di organo o di chitarra ripetuti
ossessivamente. La scena del cosiddetto “blues bianco” o “british blues”
capitanata da John Mayall cresce a dismisura sull’impulso di formazioni come
gli Animals di Eric Burdon, dei Ten Years After di Alvin Lee, dei Taste di Rory
Gallagher, e ancora i Fleetwood Mac di Peter Green, i Flamin’ Groovies, i Savoy
Brown, i Groundhogs, mentre sull’altra sponda dell’oceano Atlantico si risponde
al fuoco con i fratelli Johnny ed Edgar Winter in compagnia di Rick Derringer,
i Mountain del mastodontico Leslie West (detti anche i Cream Americani), poi
ancora Allman Brothers Band, Randy Holden, gli Zephyr di Tommy Bolin (il grande
chitarrista di origini pellerossa, che per primo ha avuto l’onere di sostituire
Ritchie Blackmore nei Deep Purple).
Con la British Invasion la vecchia Gran Bretagna sembra
battere ai punti i giovani States, in una rincorsa appassionante, perché negli
USA non mancano gruppi epocali come i Creedence Clearwater Revival, di John
Fogherty, che canta con una ruvidezza inedita, come gli Iron Butterfly, che con
il disco d’esordio “Heavy” (nome profetico) pubblicato dalla Atco nel 1968 e
ancor più con i diciassette minuti di “In A Gadda Da Vida”, title track del
disco successivo uscito lo stesso anno, dettano i canoni della nuova strada da
intraprendere. A San Francisco troviamo i vulcanici Blue Cheer che propongono
un suono sporco e grezzo, prodotto dalla chitarra, torturata a tutto volume da
Leigh Stephens. Il trio in questione nel 1967 fa dell’eccesso uno stile di
vita, dando al rock un significativo cambiamento, mentre il disco d’esordio
Vicebus Eruptum è una vera scossa tellurica, tra l’altro presenta una versione
irresistibile del classico Summertime Blues. A New York ci sono i Velvet
Underground di Lou Reed e John Cale, band molto sperimentale ed intellettuale,
considerata proto punk per eccellenza. Il loro secondo album White Light White
Heat, edito il 30 gennaio 1968 su Verve Records e realizzato in collaborazione
col geniale Andy Warhol, è un capolavoro assoluto del rock, da notare in
particolare la forza della loro immagine, siamo in pieno flower power, una
grande esplosione di colori e loro si presentavano vestiti di nero in aperta
controtendenza. Dal Canada arrivano i selvaggi Steppenwolf del tedesco John
Kay, poi trasferitisi sulla sponda orientale degli States a San Francisco. Sono
stati una delle band più influenti e alcuni loro brani sono dei veri classici.
Da ricordare in particolare che nella loro canzone “Born To Be Wild” del loro
terzo singolo del 1968 esce il neologismo “Heavy Metal”, che in precedenza era
apparso nel racconto Soft Machine del 1962 di W.S. Burroughs e poi ancora nel
1964 in Nova Express, ma di questo parliamo più avanti. Inoltre negli USA ci
sono degli importanti gruppi di rottura come gli MC5 e gli Stooges di Iggy Pop.
I suoni sono durissimi, molto acidi, si parla anche in questo caso di proto
punk e almeno il primo album Kick Out the Jams degli MC5 è un vero manifesto
politico, un impegno che scomparirà con disco seguente e che porterà la band ad
un prematuro scioglimento, nonostante il grande successo iniziale. Poi ci sono
i Mountain, la band del possente chitarrista Leslie West, di vita breve (anche
se si sono più volte riformati), ma che hanno prodotto una serie di veri
gioielli sonori, erano chiamati i Cream americani per l’amicizia con Jack
Bruce. Non a caso, dopo lo scioglimento West formerà, assieme agli amici Corky
Laing e Jack Bruce, un’altra delle icone dell’hard rock: i West, Bruce &
Laing. Sempre a New York troviamo i Vanilla Fudge, che nel ’66 rileggono in
chiave nuova grandi successi di altre band come i Beatles, ma il boom arriva
con la pubblicazione in chiave hard rock di You Keep Me Hangin’ On delle
Supremes.
Ma tutto prende una violenta accelerazione quando il 16 dicembre
del 1966 esce il singolo Hey Joe della The Jimi Hendrix Experience capitanata
appunto da tale Jimi Hendrix, il guitar hero per eccellenza. Il 12 maggio del
1967 esce l’album Are You Experienced, si tratta di uno dei dischi più
importanti e influenti del rock. Hendrix è uno dei rari musicisti di colore a
suonare rock, ed è considerato come il padre putativo dell’hard rock. È bene
chiarire che l’hard rock non nasce (solo) con lui, ma dall’indimenticabile
chitarrista afroamericano si eredita l’approccio tutto nuovo allo strumento,
tanto che girano varie leggende sui commenti dei grandi guitar heroes
dell’epoca, che restavano ammutoliti davanti alle performance di questo
introverso ragazzo di colore, che sul palco arriverà addirittura ad incendiare
letteralmente la sua sei corde in un suggestivo rito sacrificale. Questo
indimenticabile figlio dei fiori stabilisce un rapporto fisico con la sua
chitarra, la distorsione viene portata all’estremo, l’uso violento che egli
propone mette in luce un nuovo modo di concepire il rock ed il blues. Proprio
il lamento metallico, quasi raccapricciante, che si produce durante la
distruzione, può essere considerato come il primo vero vagito dell’hard rock.
Purtroppo la carriera folgorante di Jimi, il genio della chitarra, si spegne
prematuramente e molto misteriosamente. La causa ufficiale è l’abuso di quelle
maledette sostanze che tante vittime hanno fatto nel mondo del rock. Ci sono
anche ipotesi controverse e comunque la sua morte rimane un vero mistero.
Sull’esempio di Jimi i chitarristi Jeff Beck, Eric Clapton, Alvin Lee, Jimmy
Page, Ritchie Blackmore iniziano a lavorare su nuovi suoni. L’organo hammond,
tanto caro e indispensabile negli anni ’60, pian piano cede il passo alla
chitarra Fender e il chitarrista diventa la figura simbolo e vero leader del
gruppo.
Se questa è
l’evoluzione dei “grandi” gruppi, non dobbiamo dimenticare l’importante
contributo dei cosiddetti “minori”. Allora via al garage rock coi seminali
Music Machine (anche loro vestono di nero), il cui unico disco Turn On the
Music Machine del ’66 è un vero must. I riff sono per lo più sostenuti
dall’hammond, ma sono secchi e ossessivi, tanto che potremmo parlare di proto
hard rock, bellissima la loro versione di Hey Joe. Poi ancora come non
ricordare gli Shadows of Knight, i Misunderstood, i Litter, gli SRC, gli Zior e
una miriade di altri gruppi oggi dimenticati da molti, ma autori di dischi
veramente belli. Tutte queste band iniziano a sperimentare e definire la distorsione
del suono, dando un contributo molto importante. Una band sperimentale che ha
avuto un forte impatto sono stati i Love di Arthur Lee, uno dei chitarristi più
innovativi dell’epoca. Nel loro disco di esordio omonimo, datato ’66 compare
un’altra splendida versione di Hey Joe. Anche loro in bilico tra garage e
psichedelia acida, con un sound tagliente e molto duro. Altra band molto
importante sono stati gli Argent di Rod Argent (ex Zombies) e dell’hit maker
per antonomasia Russ Ballard (cercate il suo disco Barnett Dogs, hard rock di
gran classe), le loro linee armoniche saranno la base di molte formazioni, in
particolare avranno un notevole influsso sul pomp.
Sempre fra i “minori” si possono annoverare talenti
notevoli, a cui poi il tempo ha reso un po’ di giustizia. Sul fronte inglese
troviamo per esempio formazioni come gli Andromeda del chitarrista cantante
John DuCann, il quale dopo il disco omonimo “Andromeda” (RCA-1969), andrà a
militare nelle file dei più considerati Atomic Rooster e poi ancora nei
durissimi Hard Stuff. Nel disco si possono ascoltare ottime intuizioni, molta
chitarra con riff Hendrixiani e della psichedelia. In definitiva un lavoro di
hard prog. Un discorso analogo si potrebbe affrontare anche con il leggendario
gruppo High Tide, proveniente si dal progressive rock a tinte dark, ma in
possesso di una durezza sonora davvero sconcertante, ottenuta tra l’altro con
un uso rivoluzionario del violino. E’ proprio lo strumento di Simon House a
tessere melodie oscure, mentre la pesantezza viene relegata alla chitarra
elettrica di Tony Hill, che già aveva dato dei segnali importanti coi
precedenti Misunderstood. I due dischi prodotti, “Sea Shanties” (Liberty-1969)
e “High Tide” (Liberty-1970), sono dei veri capolavori, gli altri titoli
disponibili sul mercato sono tutti postumi. Mentre negli USA fra i “minori”
troviamo gruppi eccezionali come i Dust e i Bang, autori di vere gemme anche se
commercialmente sfortunate.
Tornando ai nomi più noti, una menzione a parte merita uno
dei chitarristi più influenti di sempre: Jeff Beck degli Yardbirds, che
rifiuterà qualsiasi compromesso commerciale (clamoroso il suo rifiuto di
entrare nei Rolling Stones) per portare avanti le sue idee, con una carriera
solista irreprensibile, anche se non sempre ricca di soddisfazioni economiche.
Insieme al grande Rod Steward e successivamente con la band Beck, Bogert and
Appice, scriverà delle pagine veramente indimenticabili. Negli States, invece,
è stato un chitarrista molto influente Rick Derringer, che aveva fatto fortuna
al fianco dei fratelli John ed Edgar Winter, ma anche da solista ha creato veri
gioielli, spesso venati di hard blues.
Altro elemento di spicco, come abbiamo detto, sono stati i
cantanti, che hanno fatto la fortuna di molte formazioni. Cosa sarebbero stati
i Deep Purple senza Ian Gillan, i Led Zeppelin senza Robert Plant o i Queen
senza Freddy Mercury? Uno dei primi singer con la voce perfetta per il genere
che stava nascendo è stato John Fogerty dei Creedence Clearwater Revival. La
sua voce roca e graffiante prendeva nettamente le distanze dai cantanti rock
pop dell’epoca. Poi c’è stata la personalità di artisti come Iggy Pop e Alice
Cooper, ma queste considerazioni ci porterebbero troppo lontano. Comunque
vogliamo citare un altro singer fondamentale Bob Seger, la cui voce roca sarà
un punto di riferimento per Bruce Springsteen. Seger si approssima
stilisticamente a gruppi come Grand Funk Railroad, pur senza eccessivi
riconoscimenti di vendite. Solo verso la metà degli anni ’70 raggiunge a pieno
la maturità artistica ed il giusto successo commerciale.
Altro genere musicale fondamentale, a cui abbiamo accennato,
è stata la psichedelia, che ha avuto un’influenza meno diretta del beat e del
garage, a livello di impatto sonoro, ma la sua importanza si è espressa a
livello compositivo ed esecutivo. Le lunghe jam session improvvisate di Deep
Purple e Led Zeppelin probabilmente non ci sarebbero state senza le intuizioni
di Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service, Spirit e
del visionario Syd Barrett dei Pink Floyd. In questo mondo di eccessi non
vengono meno le droghe, ereditate proprio dai movimenti psichedelici del
periodo. L’abbondante uso di LSD fu spesso il pretesto per la composizione di
brani stralunati, ma quello che era sembrato un paradiso artificiale si
dimostrò presto un vero inferno con l’arrivo dei primi decessi illustri. La
deriva autodistruttiva prese inizio al maledetto concerto di Altamont del 1969
dove venne ucciso Meredith Hunter per mano di un membro del personale della
sicurezza formato dagli Hells Angels. I sogni di pace e amore si spengono
bruscamente e finisce un’epoca.
ATTO TERZO: IL MOVIMENTO DILAGA
C’è voglia di superare ogni limite e fra coloro che amano
gli eccessi ci sono gli inglesi Humble Pie, che prendono in consegna le
sonorità anni ’60 e le trasformano per i ’70. Persino l’atteggiamento rissoso
di quel periodo da parte dei giovani viene fuso nel suono della band. La
personalità è ovviamente forte, così come la voce calda di Marriott e l’oscura
chitarra di Peter Frampton. Saranno “Only A Roach’ Earth And Water” e “The Light”
tratti dall’ottimo “Humble Pie” (A&M-1970) a dettare loro la strada
dell’hard rock.
Verso la fine degli anni ’60 questo movimento sonoro
innovativamente violento inizia a spargersi a macchia d’olio, accorrono anche
tipi poco raccomandabili, come il “signore delle tenebre” Ozzy Osbourne. I suoi
Black Sabbath hanno un suono mai sentito fino ad ora e questo per merito della
chitarra pesantissima di Tony Iommi, una John Diggins JD. La tecnica limitata
della band fa si che tutto si basi su riff semplici, granitici e ripetitivi. Il
tocco di Iommy è unico a causa della mancanza di alcune falangi della mano
perse in un incidente, mentre la voce di Ozzy è sgraziata ma terribilmente
suggestiva. Mai prima di allora c’era stato un tale connubio fra tematiche
oscure e suoni sepolcrali, il movimento del dark rock è nato alcuni anni prima
del debutto dei Black Sabbath, ma la forza evocativa del sound di questa band
ha fatto breccia nel pubblico, divulgando contenuti altrimenti poco accettati.
Curioso il fatto che la band abbia scelto di munirsi di enormi crocefissi per
difendersi in qualche modo dalle energie negative che avevano evocato.
Nello stesso periodo dilaga anche un altro genere musicale
diventato col tempo sempre più importante, il colto rock progressivo di Genesis,
King Crimson, Van Der Graaf Generator, Jethro Tull, Yes e Pink Floyd. Molti di
questi gruppi hanno sperimentato la distorsione, in particolare i King Crimson,
che hanno prodotto alcuni degli album più duri del prog. Anche i Jethro Tull
del menestrello Ian Anderson sperimenteranno suoni molto duri, si pensi ad
Acqualung. Comunque per lo più il progressive si è distinto per eleganza, con
magnificenti spettacoli dal vivo, molto colorati ed interpretativi.
Diametralmente opposti i concerti dell’hard rock, scarni di scenari e
focalizzati principalmente sul carisma del chitarrista o del cantante. Di
questi il più sensuale ed ammaliante è sicuramente Robert Plant, leader dei
famigerati Led Zeppelin, per meglio dire la storia dell’hard rock. Cosa
aggiungere su questa band che non sia stato già detto? Credo più nulla, se non
forse sottolineare il modo violento ed inusuale per i tempi, con cui John
Bonham percuote la batteria. Il duo Plant-Page ha un’intesa inverosimile e le
loro composizioni sono a dir poco variegate, a volte molto blues, melodiche e
sensuali per poi lasciarsi andare quasi all’improvviso in cavalcate hard di
rara potenza.
Ma il guitar hero per eccellenza del tempo porta il nome
dell’americano Ted Nugent. Proveniente dagli Amboy Dukes si produce in assoli
elettrici a dir poco tirati, tutti dotati di stupefacente energia. Diventa
personaggio influente e questo lo riscontriamo ad esempio in gruppi come il
trio Highway Robbery. Michael Stevens è il chitarrista e compositore dei pezzi,
tutti potenti e ruvidi, un hard rock a tratti feroce per questo periodo. Anche
grazie a lui il genere prende una determinata fisionomia. Rimanendo in tema di
chitarristi d.o.c. arriviamo inevitabilmente a Ritchie Blackmore. La tecnica
dimostrata è sopraffina, la sua band proveniente nientemeno che dal prog e ha
lo storico nome di Deep Purple. Il suono propostoci è particolare, molto
barocco e neoclassico, grazie anche all’apporto dell’Hammond di John Lord, ma
sono le tre scarne note di “Smoke On The Water” (1972), ad essere la vera icona
dell’intero movimento, tre sole note molto facili da strimpellare e che si
stampano subito in testa dopo un solo ascolto. Rock duro e tecnica eccellente
sono dunque l’arma vincente di questa band, ma c’è anche un cantante dalla voce
incredibile dal nome Ian Gillan. I Deep Purple sono una delle poche band ad
essere sopravvissute fino ai giorni nostri, anche se la formazione è stata
continuamente rimaneggiata, con una discografia molto dignitosa. Nei Purple ha
militato per un certo tempo come bassista il grande Glenn Hughes, che merita
una menzione. Il nostro in realtà è un cantate eccezionale, ribattezzato “the
Voice of Rock”. Aveva tentato fortuna coi Trapeze, insieme a Mel Galley e Dave
Holland, una band che aveva fuso il funky all’hard rock. Hughes poi ha dato
vita ad una lunga carriera solista che arriva sino ai giorni nostri, costellata
di ottimi dischi. Da ricordare anche la sua collaborazione coi Black Sabbath
per Seventh Star e sfociata poi sui bellissimi album a nome Iommi.
A proposito dei grandi non possiamo non ricordare la band di
Freddie Mercury, i pomposi Queen. I primi dischi da loro prodotti sono
assolutamente hard rock e della miglior pasta, poi sappiamo tutti il percorso
che il quartetto ha intrapreso in seguito, con successi planetari annessi, ma
sempre meno hard rock. A questo punto la storia scorre velocemente, come avrete
capito è davvero difficile fare una cronologia perfetta. I semi cominciano a
dare i frutti, ecco allora spuntare dappertutto band di inestimabile valore,
come Uriah Heep, Atomic Rooster, Blue Öyster Cult, ZZ Top, solo per fare
qualche nome.
Gli Uriah Heep sono una band inglese che ha avuto un
successo planetario, raggiungendo perfino la Russia e hanno venduto nella
carriera più di 40 milioni di album. I primi passi vengono fatti dal
chitarrista Mick Box e dal cantante David Byron nel 1966 sotto il logo Spice.
Nel 1970 la line up si stabilizza temporaneamente con Paul Newton (basso), Alex
Napier (batteria) e Ken Hensley (tastiere). Il disco d’esordio del Giugno 1970
“Very ‘eavy, Very ‘Umble” (Vertigo-1970) viene accolto malamente dalla critica,
a dir poco viene stroncato, ma il pubblico riserva loro ben altre
soddisfazioni. Gli album a seguire tratteranno di argomentazioni legate alla
mitologia ed il 1972 sarà senza dubbio il loro anno più prolifico a livello
d’ispirazione.
Una delle formazioni più influenti e meno ricordate sono
stati i gallesi Budgie, autori di un hard rock selvaggio, hanno dettato gli
stilemi ripresi anni più tardi dagli alfieri della NWOBHM. Ascoltate la canzone
"Breadfan", il ritmo veloce accompagnato da un heavy blues
trascinante è stato di ispirazione per molte band fra cui Iron Maiden, Judas
Priest e Metallica, che ne hanno fatto una cover. Tra l’altro pare siano stati
il primo gruppo hard rock occidentale a suonare oltre la cortina di ferro.
Facciamo ora un piccolo passo indietro per occuparci
nuovamente di sonorità sulfuree. Non solo Black Sabbath nell’hard rock, ci sono
in giro anche altri personaggi “particolari”, fra i quali spicca il nome di
Alice Cooper. Questo prende il nome da una strega realmente esistita e bruciata
viva a Salem dai puritani. Gli spettacoli dal vivo proposti hanno fatto storia.
Sangue, situazioni crude e violente, serpenti e suore nude, fanno parte del
baraccone. Ma quello che Alice crea è il face-paint, il viso pitturato di
bianco con occhi neri disegnati, una rivoluzione che apre una nuova serie di
proseliti. Da notare che tra i primissimi gruppi (forse il primo in assoluto)
ad usare il trucco facciale figurano gli italianissimi Osanna, seguiti poi dai
Genesis di Peter Gabriel. Successivamente saranno moltissimi altri artisti che
svilupperanno questa idea, come i Kiss, fino a giungere ai giorni nostri con
miriadi di gruppi black metal.
Proprio i Kiss agli inizi degli anni ’70 giocano con il
trucco ed inventano personaggi. Paul Stanley è l’uomo sexy, Gene Simmons il
vampiro, Ace Frehley l’uomo venuto dallo spazio e Peter Criss l’uomo gatto.
Fuochi pirotecnici, pedane che si alzano, ancora sangue e luci, tante luci
fanno degli spettacoli dei Kiss un appuntamento veramente unico ed
indimenticabile. Come per Alice Cooper, uno dei pochi casi in cui l’hard rock
si arricchisce con l’immagine.
In Inghilterra comunque troviamo il duca bianco, David
Bowie, insieme a Marc Bolan dei T-Rex (in precedenza Tyrannosaurus Rex) che
puntano molto sull’immagine, il primo poi con i suoi Spiders From Mars, sarà
uno dei musicisti più influenti di tutta la scena inglese. Con loro nasce il
glam, movimento molto romantico, ma anche pieno zeppo di eccessi. Purtroppo per
Marc questi saranno fatali: morirà nel ’77 a causa di un incidente stradale.
Ma non solo America ed Inghilterra, infatti il genere prende
campo anche in altri luoghi fra cui la lontana Australia. I fratelli Malcom ed
Angus Young propinano uno spettacolo diametralmente opposto a quello milionario
dei Kiss, Bon Scott è un buon animale da palco, ma è il chitarrista indiavolato
Angus Young a catalizzare l’attenzione sugli AC/DC. Niente scene incredibili,
solo tanto sudore e Angus vestito da scolaretto che scorrazza per il palco
dimenando continuamente il capo (come diamine farà?). I riff sono vincenti, la
formula è scarna ed essenziale, grezza al punto giusto con tanto di ritornelli
da cantare assieme a squarciagola durante i concerti. Tuttavia è ancora la
droga a mietere l’ennesima illustre vittima e Scott se ne va. Gli AC/DC
proseguono il cammino inesorabilmente fino ai giorni nostri con la consueta
grinta, senza cambiare una virgola al sound e con Brian Johnson al microfono.
L’hard rock prosegue la propria evoluzione con naturalezza,
con gruppi che sapranno unire melodie incredibili a riff taglienti come gli
UFO, di Phil Mogg, Pete Way e Michael Schenker. La voce di Phil è fra le
migliori in circolazione (ancora oggi è calda è potente come se il tempo non
fosse passato), mentre il lunatico Schenker è sicuramente uno dei migliori
chitarristi che il panorama ci propone. Cosa dire poi degli Aerosmith?
Considerati da molti la più grande band di rock’ n’ roll del mondo, nei
seventies sono distanti da come li conosciamo oggi. Più sporchi, rozzi, cattivi
e drogati, rientrano a pieno merito nel vocabolario dell’hard rock. L’esordio
discografico del 1973 è limitato dall’inesperienza, ma lascia intuire le potenzialità
del quintetto capitanato dal carismatico Steven Tyler. Sono il perfetto esempio
di rock di successo: soldi, donne, droga ed alcol, uno stile di vita
assolutamente insostenibile, ma dannatamente hard rock.
Qualche volta a dominare la scena non è stato un chitarrista
ma un bassista, come nel caso dell’irlandese (mi piace che non si parli solo di
inglesi) Phil Lynott. La sua carriera è stata contrassegnata dall’amicizia con
Gary Moore, si conosceranno negli storici Skid Row (ovviamente non quelli di
fine anni ’80 capitanati dal bellone Sebastian Bach). Poi Phil darà vita ai
Thin Lizzy, una band epocale. Il dominio di Lynott all’interno della band porta
a diversi screzi, per cui i membri vicino a lui si allontanano per altre
strade, intercalandosi con nuovi, forse proprio per questo motivo che i Thin
Lizzy non riescono a sfondare sul mercato come avrebbero meritato. Molte band a
venire li hanno citati come importante influenza. Sono Irlandesi, con la
passione per il folk celtico, che andrà ad influenzare i primi lavori, a
partire dal 1970. La lunga carriera giunge fino al 1984 ed è ricca di buoni
frutti. Purtroppo nel Natale del 1985, Lynott collassa per poi spegnersi
definitivamente il quattro gennaio del 1986, un’altra vittima dell’eroina. I
Thin Lizzy sono stati un vero e proprio contenitore di grandi artisti. Ecco
alcuni nomi: Midge Ure (futuro Ultravox), Brian Downey (grande batterista),
Scott Gorham, Eric Bell, il già citato Gary Moore e Brian Robertson. Sempre
dalla romantica “isola verde” arrivano gli Horlips, un gruppo poco conosciuto
ma che ha scritto pagine di musica sublimi rileggendo i classici folk in chiave
hard rock.
Tornando in Inghilterra troviamo una band che fa uso
abbondante di chitarre elettriche in chiave boogie e rock ’n’ roll e che porta
il neonato hard rock nelle classifiche alte: gli Status Quo. La carriera
artistica è pressoché paragonabile a quella degli AC/DC, non si muovono di una
virgola dal proprio sound e dai loro immancabili jeans. Dice il chitarrista
Rick Parfitt del loro stile: “…Forse sono le nostre due chitarre che suonano
all’unisono a tirare fuori questo sound unico che abbiamo. Molti hanno tentato
di imitarci, ma se non vanno perfettamente insieme, il risultato non si
raggiunge”. Anche i Wishbone Ash usano due chitarre che suonano all’unisono,
creando un sound magico in un contesto più vicino al prog.
Tornando negli USA troviamo i Grand Funk Railroad (anche
loro dell’area di Detroit). È una delle band più rumorose dei primi anni ’70.
Il trio dà il meglio di sé durante i concerti. Notati nientemeno che da Paul Mc
Cartney, vengono messi sotto contratto dalla Capitol. Tuttavia il loro sound
troppo “Heavy” viene messo al bando anche dalle radio. Malgrado tutto le
vendite non mancano. Una curiosità, Mark Farner viene classificato dal pubblico
come il chitarrista con i capelli più lunghi del rock. Poi ci sono i James Gang
di Joe Walsh, una formazione baciata dalla fortuna commerciale, anche se sono
da ricordare solo i dischi del primo periodo. Da questa formazione è uscito il
leggendario Tommy Bolin (ex Zephir) che rimpiazzerà Blackmore nei Deep Purple.
Altra band di discreta popolarità sono stati i Bloodrock, nati nei primi anni
sessanta con diverso nome, pubblicano l’album omonimo di debutto nel 1970.
L’immagine era più forte della musica proposta, un heavy blues molto
psichedelico.
A metà anni ’70 i gruppi hard rock americani tendono però a
spostarsi verso sonorità più melodiche, che strizzano l’occhio alla classifica.
In realtà si tratta di prodotti di tutto rispetto, fatti con grande cura, ma
che si allontanano dai percorsi tracciati fin qui in questo articolo. Boston,
Foreigner, Toto, Journey, Balance sono alcuni nomi fra i primi che mi vengono
in mente. La cosa ha avuto anche un eco nella vecchia Inghilterra e i The Babys
del talentuoso cantante John Waite ne sono l’esempio più importante. Poi una
band fuori dagli schemi, ma che merita una menzione speciale ci sono i Cheap
Trick, col loro show multicolore, che in un contesto qualitativamente alto
proponeva le versioni parodistiche dei cliché tipici del macismo hard rock.
E le donne sono state a guardare? In un contesto talvolta
rozzo, macho e sporco, dove le donne erano viste più nel ruolo di groupie, è
evidente che spazio sul palco ce n’è stato poco, non tanto per l’impedimento
dei maschi ai quali, anzi non sarebbe certo dispiaciuta più presenza, quanto
per una scelta di fondo che vedeva nel maschio l’alfiere perfetto del rock.
Qualcuna comunque ci ha provato e con ottimi risultati. Ricordiamo la prima
band tutta al femminile: le Fanny, attive fin dal 1970, e con uguale piacere
Suzy Quatro con l’esplosivo lp “Quatro” (Bell-1974). Meritano una menzione
anche Bonny Tyler ed Ellen Foley, passate da coriste a lead singer. Poi come
dimenticare gli Heart delle sorelle Wilson. Ma anche la poetessa Patty Smith,
che poteva essere la lead singer dei Blue Öyster Cult, tra l’altro compare come
ospite nell’album Agent of Fortune del ’76. La Smith, pur non essendo proprio
hard rock, comunque ha avuto la sua influenza. Buone anche le carriere di Pat
Benatar, Lita Ford e Joan Jett, queste ultime due provenienti dalle The
Runaways e quella più bizzarra dell’ex pornostar Wendy O’ Williams, amica di
Lemmy Kilmister dei Motorhead, oggi purtroppo non più con noi. Poi una leggenda
narra che la patinata Diana Ross volesse fare dell’hard rock, ma che le fosse
stato vietato dalla casa discografica.
Un altro importante
tassello viene posto dai Free di Paul Rodgers (che sappiamo aver preso per un
periodo il posto del compianto Mercury nei Queen). L’hard blues proposto è
importante, “All Right Now” ha un riff che ha molto contribuito all’evolversi
del movimento ed è stato ripreso e rimodellato da molte formazioni, qui ancora
praticamente agli albori. Rodgers verso la metà degli anni ’70 abbandonerà i
Free per dar vita ad un nuovo e fortunato progetto boogie rock dal nome Bad
Company. L’hard rock è della miglior specie, eccellente nelle ballate, dove la
voce di Paul diventa interprete stupenda. Il merito di queste sonorità vanno
attribuite anche al chitarrista Mick Ralphs (ex Mott The Hoople).
Gli Atomic Rooster meritano uno spazio tutto loro, sono
sempre stati sottovalutati dal grande pubblico, ma i dischi sono di una
bellezza eccezionale ancora attuale. Il loro dark sound farà scuola e ancora
oggi si trovano molti giovani artisti che si ispirano a loro.
Dall’altra sponda dell’Atlantico rispondono i grandiosi Blue
Öyster Cult. Se il termine “Heavy Metal” esce dalla canzone degli Steppenwolf,
è proprio con i BÖC che viene associato alla musica per la prima volta
(qualcuno dice che in precedenza fosse stato usato dalla famosa rivista Creem
associato ad una recensione dei Sir Lord Baltimore, anche se come “heavy
music”), comunque il neologismo appare ancora prima negli scritti di Burroughs,
un autore fondamentale per tutta la beat generation. I primi tre album del
gruppo newyorkese sono delle pietre miliari che non dovrebbero mancare nella
discografia di ogni buon rocker. I cinque hanno dato vita ad un sound oscuro e
unico, con testi finalmente intelligenti e “diversi” dai soliti cliché, si
parla di fantascienza, di storie limite e di poesie urbane. Come abbiamo
accennato, si mormora che il cantante del gruppo dovesse essere la poetessa
Patty Smith e forse questo avrebbe cambiato parte della storia del rock, fatto
sta che i BÖC sono entrati nella storia anche se forse avrebbero meritato una
risonanza maggiore. E ancora vanno ricordati i Foghat, accostabili ai James
Gang, ma più seminali e potenti.
Proseguendo negli anni, verso la metà dei ’70 troviamo il
nostro hard rock più in forma che mai, grazie soprattutto al sorgere
vertiginoso di nuove formazioni, tutte desiderose di distinguersi dalla massa.
Una delle band americane che hanno aperto nuove soluzioni sono gli Angel, non
tanto per le vendite, quanto per l’influenza stilistica. Gli angeli del maestro
Greg Giuffria si presentano vestiti di bianco con tanto di strumentazione in
bianco e vengono notati da Gene Simmons, che li segnala immediatamente
all’etichetta Casablanca. Con loro l’hard rock è ai confini con il pomp rock,
di qui l’importanza storica.
Anche il Canada dà il proprio apporto alla causa. Nel tempo
ascolteremo artisti importanti come Guess Who, Bachman Turner Overdrive,
ovviamente i progressivi Rush che meriterebbero un maggior approfondimento, in
fondo però solo il loro primo album è da considerarsi hard rock, e ancora Saga,
Prism, Moxy, Max Webster, Triumph, ma verso la metà degli anni ’70 c’è un
chitarrista dal nome Frank Marino che ha grandi cose da raccontare. Il rock
suonato è totale, in esso aleggia hard blues, psichedelia e qualcosa di
Hendrix, suo vero ispiratore. La Gibson improvvisa storie che consiglio di
andare a rispolverare, a partire dal disco d’esordio “Maxoom” (Kot’Ai-1973).
Più legati al classico blues in America troviamo il power trio
degli ZZ Top, famosi per le lunghissime barbe, il loro hard rock è essenziale e
diretto, ma il grande successo arriverà solo negli anni ’80. Comunque sono fra
i fondatori della componente hard del southern rock (conosciuto anche come rock
sudista). Nello stesso periodo troviamo i meno fortunati Black Oak Arkansas,
che con i tre chitarristi ed una vita on the road alquanto movimentata, hanno
dato il loro bravo contributo. L’atteggiamento “glam” e catalizzatore del
cantante Jim Dandy è precursore di atteggiamenti provocatori da “animale da
palco”, successivamente ripreso anche dal grande David Lee Roth dei Van Halen e
da migliaia di altri futuri singers.
Non da poco il fatto che i Black Oak Arkansas sono stati
anche gruppo di riferimento per i più fortunati Lynyrd Skynyrd. Il southern
rock che suonano ci porta a conoscenza di una band dal passato rissoso, la
posizione conservatrice del gruppo non è tanto politica, quanto
social-popolare. Tacciati di razzismo, suonano un rock duro e diretto che va a
pescare nel blues e nel country. Sicuramente precursori nell’uso di due o tre
chitarre, in seguito emulato da numerose altre band.
Anticipatori del suono stelle e strisce, poi tanto caro ai
Van Halen , sono i Montrose del guitar hero Ronnie Montrose e del cantante
Sammy Hagar (guarda caso futuro Van Halen). Il loro brano “I’ve Got the Fire”
qualche anno dopo sarà una delle prime di una lunga serie di incendiarie cover
proposte dagli Iron Maiden. A ben guardare il sound dei Montrose era già puro
heavy metal.
EPILOGO E NUOVA VITA
A questo punto della storia, verso la fine degli anni ’70,
succede un passaggio importante. Parallelo al movimento hard rock e talvolta
con diversi punti di congiunzione, si è sviluppato il movimento progressive o rock
romantico, come qualcuno lo chiamava in origine. Questi due grandi contenitori
sonori arrivano alla fine del decennio spompati e privi di sbocchi, con le
grandi band che venivano definite ironicamente “dinosauri” del rock. C’era
bisogno di qualcosa di nuovo perché il pubblico era stanco di lunghe jam
sessions e di suite auto celebrative, la musica stava diventando o cervellotica
o ripetitiva, o autoreferenziale, con le case discografiche che spingevano i
gruppi per produrre hit da vendere velocemente. Così è arrivato l’esatto
contrario di tutto quello che c’era allora: il punk.
Ancora più sporco e grezzo dell’hard rock, ancora più
essenziale e diretto, con Sex Pistols, Damned, Still Fingers e Clash, il punk,
vero terremoto, apre nuove possibilità artistiche. Da un lato l’hard rock si
fonde col punk per dare vita alla new wave of british heavy metal. Da un altro
lato alcune formazioni mantengono la presa con nuove band, sempre più tecniche
e carismatiche, la lezione dei maestri passati viene perfettamente assimilata.
Ecco nascere formazioni che hanno fatto ancora la storia, come ad esempio i
Rainbow, una delle più famose “superband” di hard rock, fondati da Ritchie
Blackmore a seguito dell’uscita dai Deep Purple, nella cui line-up vediamo
alternarsi artisti stratosferici come Joe Lynn Turner, Roger Glover, Graham
Bonnet, Cozy Powell, Don Airey, e in particolare un cantante dalla voce
memorabile come Ronnie James Dio, che proveniva da una semisconosciuta band di
hard blues dal nome Elf. Come non citare la famosa e bella canzone “I
Surrender” affidata proprio alla potente ugola di J.L. Turner, un must.
Non da meno i Whitesnake dell’incredibile vocalist David
Coverdale. La discografia del serpente bianco è ricca di buone realizzazioni. I
Judas Priest di Rob Halford si intersecano con sonorità oscure e metalliche,
creando un filone che sfocerà nel metallo fuso più pesante, i Saxon di Byff
Byford racconteranno di battaglie, i teutonici Scorpions di donne, così l’hard
rock si modifica in miriadi di soluzioni, sempre più prossime al nascente heavy
metal.
Oggi siamo nel nuovo millennio e con piacere constatiamo lo
stato di buona salute del genere, ci sono molte piccole etichette discografiche
specificamente dedicate al sound dei seventies. Alla faccia di tutti coloro che
hanno sempre denigrato l’hard rock e che gli hanno pronosticato una vita breve.
Le formazioni sono tante, troppe da citare, ma soprattutto la lezione impartita
dai gruppi di hard rock è riscontrabile in quasi tutti i gruppi a venire. “…
Long Live Rock’N Roll” e come disse il sommo poeta per bocca di Virgilio “Non
ti curar di loro ma guarda e passa”.
COROLLARIO, GLI ALTRI PAESI
Ogni tanto abbiamo citato anche artisti di altri paesi, ma
per chiudere il discorso ci sembrava giusto dire ancora qualche parola. La
Germania è l’unico paese che riesce in qualche modo a tenere testa allo
strapotere angloamericano, la musica dura ha buoni proseliti, in primis ci sono
i già citati Scorpions di Klaus Meine e del talentuoso Uli Jon Roth. Poi fra le
band più interessanti vanno menzionati i Birth Control, gli Epitaph, i Jane e i
Lucifer’s Friend. Qualche anno dopo arrivano gli Accept di Udo, che porteranno
l’hard rock direttamente nell’heavy metal, ma i primi lavori nascono proprio
dal nostro genere in questione.
Abbiamo menzionato gli australiani AC/DC dello scatenato
scolaretto Angus Young, una vera istituzione per tutto il movimento. Al pari
dei grandi nomi citati, gli AC/DC sono stati per intere generazioni il primo
gruppo da cui si partiva per avvicinarsi a questo genere. Ma l’Australia ha
avuto anche altre stelle, come i Cold Chisum, che però non hanno saputo
suscitare la stessa attenzione degli AC/DC.
Non sono mancate formazioni giapponesi, svedesi e di altri
paesi, ma come abbiamo detto all’inizio questa non è un’enciclopedia e quindi
se siete curiosi possiamo approfondire in futuro.
Infine l’Italia, il nostro paese. Negli anni ’70 ci sono dei
complessi che hanno in qualche modo fatto presenza nell’ambito, anche se in
realtà il loro posto è più consono nell’hard prog, come per esempio i Biglietto
Per L’inferno,i Procession, i New Trolls, il Rovescio della Medaglia, gli Osanna. Proprio il
disco “Biglietto Per L’inferno” (Trident-1974) ci mostra una formazione si
giovane, ma oltremodo preparata, con testi assolutamente intelligenti ed un
cantato (almeno per questa volta) indovinato. Oppure i Trip di Joe Vescovi, con
chitarre Hendrix style. Diciamo che in realtà il nostro movimento hard rock
vero e proprio comincia verso la fine degli anni ’70 a cavallo con gli ’80,
quando all’estero tutto è appianato. Restano comunque da sottolineare band di
indubbio valore come i Vanadium di Pino Scotto, o la Strana Officina, ma qui
siamo già alle soglie degli anni ’80, agli albori della cosiddetta NWOIHM e
anche questa è tutta un’altra storia. GIANCARLO BOLTHER / MASSIMO SALARI