Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO

Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO
La storia dei generi enciclopedica

domenica 30 aprile 2023

Nautha

NAUTHA – Metempsychosis
Argonauta Records / PR Grand Sounds Promotion
Genere: Rock Psichedelico / Progressive Doom
Supporto: Bandcamp – 2023




Anche se potrebbe sembrare strano, il genere Rock Psichedelico ha al proprio interno differenti ramificazioni, non tutto è sempre riconducibile al periodo storico dei mitici Hawkwind, tanto per fare un solo esempio. Nel tempo il genere si è evoluto fino giungere ai nostri giorni attraverso innesti di Porcupine Tree (sempre loro), Post Rock, e perché no anche del Doom Metal e del Prog. Il risultato è ovviamente per un pubblico di nicchia che comunque ama lasciarsi trasportare da sonorità spesso ipnotiche.
Un nome nuovo nell’ambito italiano è quello dei romani Nautha, trio che si forma nel 2016 a oggi composto da Antonio Montellanico (voce, basso, chitarra), Pierpaolo Cianca (chitarra) e Giorgio Pinnen (batteria, sintetizzatore). Esordiscono con “Metempsychosis”, quest’album formato da sette canzoni registrate ai Bloom Recording Studios a Montecelio, mixato da Matteo Andolina e masterizzato da Claudio Pisi Gruer Pisi ai Mastering Studio Community Page.
Viste le premesse, posso andare anche nello specifico consigliando l’ascolto di questo lavoro agli amanti oltre che dei Porcupine Tree anche a quelli di Motorpsycho, Riverside e Beardfish, vista la natura delle sonorità espresse.
L’ampiezza dei suoni si contrae fra Psichedelia e Metal sin dall’iniziale “Heracleion” dove in quasi dieci minuti mettono in pratica tutto ciò che si è detto, mentre la voce di Montellanico oltre che gradevole è bene inserita nel contesto che alterna ariosità a ruvidità. Questo genere pone il meglio di se soprattutto durante i trip strumentali, quelli che attendono con ansia gli amanti di questa musica. Il suono ovviamente è elettrico ma ogni tanto si posa su territori pacati rendendo l’ascolto molto fruibile. Proprio arpeggi di chitarra aprono “Laguna” per poi addentrarsi nella psichedelia elettrica attraverso riff dalla facile memorizzazione. “Kteis” mantiene il gusto per le melodie, arma che ritengo vincente per la riuscita, oltre che il gusto per la potenza sonora. Con “Kata Kumbas” il suono si fa improvvisamente introspettivo, morbido, supportato da una ritmica leggera in mid tempo spezzato, un alito sussurrato alle orecchie. Questo stile risulterà familiare agli estimatori dei polacchi Riverside. La breve title track di un minuto e mezzo invece attraverso il pianoforte di Giorgio Pinnen in stile Anathema accompagna all’ascolto di “Cerbero”, altro pezzo studiato nei particolari e non scontato, fatto di cambi di tempo e ruvidità. Breve ma incisivo l’assolo di chitarra a graffiare ulteriormente l’udito. Chiude l’album “Samat”, canzone molto Rock Progressive vetrina per le capacità compositive dei Nautha.
In definitiva “Metempsychosis” è un album pieno di buone idee, scorrevole e già maturo malgrado si tratti di un esordio. Per chi vi scrive, è una bella sorpresa, solo il tempo saprà dire quanto validi siano i Nautha che comunque al momento si presentano già con un asso di briscola nelle mani. MS





Versione Inglese:

NAUTHA – Metempsychosis
Argonauta Records / PR Grand Sounds Promotion
Genere: Rock Psichedelico / Progressive Doom
Supporto: Bandcamp – 2023



Although it might seem strange, the Psychedelic Rock genre has within it different ramifications, not everything can always be traced back to the historical period of the legendary Hawkwind, just to give just one example. Over time the genre has evolved to the present day through grafts of Porcupine Tree (also them), Post Rock, and why not even Doom Metal and Prog. The result is obviously for a niche audience that nonetheless likes to be carried away by often hypnotic sounds.
A new name in the Italian sphere is the Roman Nautha, a trio formed in 2016 to date consisting of Antonio Montellanico (vocals, bass, guitar), Pierpaolo Cianca (guitar) and Giorgio Pinnen (drums, synthesizer). They debut with "Metempsychosis," this album consisting of seven songs recorded at Bloom Recording Studios in Montecelio, mixed by Matteo Andolina and mastered by Claudio Pisi Gruer Pisi at Community Page Mastering Studio.
Given the premises, I can also go into specifics by recommending listening to this work to lovers in addition to Porcupine Tree also those of Motorpsycho, Riverside and Beardfish, given the nature of the sounds expressed.
The breadth of the sounds contracts between Psychedelia and Metal since the opening "Heracleion" where in almost ten minutes they put into practice all that has been said, while Montellanico's voice as well as pleasant is well inserted in the context that alternates airiness and roughness. This genre puts its best foot forward especially during the instrumental trips, the ones that eagerly await lovers of this music. The sound is obviously electric but occasionally settles into quiet territories making it a very enjoyable listen.
Just guitar arpeggios open "Laguna" and then delve into electric psychedelia through easily memorized riffs. "Kteis" retains the taste for melodies, a weapon that I think is a winner for success, as well as a taste for sonic power. With "Kata Kumbas," the sound suddenly becomes introspective, soft, supported by a light rhythm in broken mid tempo, a whispered breath to the ears. This style will be familiar to admirers of Poland's Riverside. The short one-and-a-half minute title track, on the other hand, through Giorgio Pinnen's Anathema-esque piano, accompanies the listening to "Cerberus," another studied in detail and not predictable piece of tempo changes and roughness. Short but incisive guitar solo further scratches the ear. Closing the album is "Samat," a very Rock Progressive song showcasing Nautha's compositional skills.
All in all, "Metempsychosis" is an album full of good ideas, smooth flowing and already mature despite being a debut. For the writer, it is a nice surprise, only time will tell how good Nautha are, who in any case at the moment already present themselves with a trump card in their hands. MS



sabato 29 aprile 2023

Moonmine

MOONMINE – Free.Pop
Autoproduzione / In The Wood Records
Genere: Cantautore – Sperimentale
Supporto: cd – 2023




Oggi non c’è niente di più bello e intelligente che dedicare del tempo a se stessi. Fermarsi ad ascoltare, pensare, creare, il tutto senza fretta perché come si sa, essa è sempre cattiva consigliera. Bisogna stare al passo con i tempi, questo è vero, e loro ci inducono verso l’isteria sociale, aggiungiamo poi che questa corsa verso il niente non porta a risultati importanti, perciò bisogna saper ponderare. Il discorso vale nella vita ma anche per la musica alla quale dedichiamo male il nostro tempo, ossia spesso una veloce e frugale attenzione magari anche con supporti sbagliati che non esaltano il contenuto sonoro. Oggi un cantautore impegnato è in difficoltà, perché soffermarsi a capire cosa ci comunica è quantomeno anacronistico per i motivi già spiegati. Gli anni ’70 per esempio ci hanno donato tanto materiale per la mente, mentre il contesto sociale consentiva l’attenzione e il tempo adeguato per l’ascolto. Oggi corriamo tutti verso un “dove” indefinito mentre la superficialità regna sovrana. Fermarsi è anche dedicare attenzione alla ricerca della purezza e dell’autenticità.
Il cantautore marchigiano Lorenzo Ciavola, in arte Moonmine in questo esordio discografico tratta l’argomento. Si trasferisce da Fabriano a Latina e mette in primo piano sempre la passione per la musica, ma non quella scontata, bensì dall’ampio spettro. I generi che affronta nelle composizioni, infatti, sono molteplici e variano dal Blues al Rock, passando per l’elettronica, il Folk e il Jazz. Moonmine è dunque un cantautore impegnato, oserei definirlo in qualche modo anche sperimentale vista la gamma culturale attorno ai suoi numerosi gusti sonori. Quando è così, si rischia di mettere troppa carne al fuoco, ma questo sta nell’anima di chi crea, cercare la propria identità e affinarla con l’esperienza. Ciavola non è nuovo in questo mondo fatto di file e quant’altro, infatti realizza nel tempo due EP, “Private Conversations” e “My Revolution”, ma l’esordio discografico vero e proprio con tanto di CD è questo “Free.Pop”, nomen omen.
L’artista concretizza il tutto dallo studio di casa, composizioni, incisione, produzione, copertina dell’artwork, compreso il bel libretto che accompagna il disco con i testi, disegni foto e descrizione dell’approccio all’ascolto, ossia cosa ha ispirato Moonmine a scrivere le parole sugli argomenti trattati.
La penna per scrivere questa musica è la chitarra, la voce di certo ha un approccio non convenzionale rispetto a tutto ciò che oggi mediamente si ascolta. Ciavola si diverte a provocare, si prende carico delle responsabilità, eppure è tutto così orecchiabile da lasciare momentaneamente esterrefatti, sin dall’iniziale “Full Love”. Alcune canzoni sono cantate in italiano, la maggior parte in inglese. La breve “A Dio” mostra l’essere umano fragile, prono avanti all’attesa del giudizio divino, il tutto quasi sbeffeggiando. “Drink All Day” ha un ritmo trascinante alternato a fasi maggiormente pacate. L’elettronica giunge a sostegno. Il brano più lungo dell’album con otto minuti di musica s’intitola “A Song For All” suddivisa in più parti. La prima risiede interamente nel sound Folk degli anni ’70, qui la fantasia si scatena e come un frullatore fa dei generi musicali un prodotto unico.  Nel frangente strumentale mi sovvengono alla mente anche le Orme, questo forse a causa della nenia a filastrocca. Il brano sfuma e poi riprende, quindi nulla è scontato durante l’ascolto. Per me questo è il movimento che ho più apprezzato, forse proprio perché maggiormente “Progressivo”. Molte le incongruenze, ma sono proprio queste a tenermi incollato all’ascolto. Geniale “Girotondo”, ottimo l’uso della voce in coralità sovrapposte, una ballata a dir poco particolare. E a proposito di coralità in ”I Just Need” sembra di ascoltare i Queen dopo una bella bevuta alcolica. “War Is Over” ha spunti alla Daniele Silvestri, ma sono solo attimi e poi….  Si va tutta da un'altra parte. Un ulteriore pezzo pregevole s’intitola “In The Dark”, dove ancora una volta l’elettronica svolge il ruolo maestro. Ma ho parlato troppo, qualche sorpresa se siete curiosi la lascio a voi.
“Free.Pop” può sembrare un opera scomoda, questo perché l’autenticità e quindi la sincerità, spesso cozzano con la falsità di questa società odierna basata sui social, finti profili e quant’altro, dove l’apparire è più importante dell’essere. Viva il Pop libero dettato dalla personalità che spinge un autore a fare ciò che pensa, e non quello che desiderano gli altri. Troppa materia dentro? Non fa nulla, come si dice in gergo “a calare viene sempre in tempo”, intanto Moonmine si sta formando il carattere e sono sicuro che in futuro prossimo ne sentiremo ancora delle belle. Non è la pecora nera a essere diversa, sono tutte le altre che purtroppo sono uguali, quindi ascoltate Moonmine per credere. MS






Versione inglese
  

MOONMINE – Free.Pop
Autoproduzione / In The Wood Records
Genere: Cantautore – Sperimentale
Supporto: cd – 2023

Today there is nothing more beautiful and intelligent than taking time for yourself. Stop and listen, think, create, all without rushing because as we know, it is always bad advice. One has to keep up with the times, this is true, and they induce us toward social hysteria, let us then add that this rush toward nothingness does not lead to important results, so one must know how to ponder. The discourse applies in life but also in music to which we devote our time badly, that is, often a quick and frugal attention perhaps even with wrong media that do not enhance the sound content. Today a committed singer-songwriter is in trouble because to pause to understand what he or she is communicating to us is at least anachronistic for the reasons already explained. The 1970s for example gave us so much material for the mind, while the social context allowed for attention and adequate time for listening. Today we all rush to an indefinite "where" while superficiality reigns supreme. To stop is also to devote attention to the search for purity and authenticity.Marche-based singer-songwriter Lorenzo Ciavola, aka Moonmine in this debut record deals with this topic. He moves from Fabriano to Latina and always puts in the foreground the passion for music, but not the obvious one, but from the wide spectrum. The genres he tackles in his compositions, in fact, are multiple and range from Blues to Rock, passing through electronic, Folk and Jazz. Moonmine is thus a committed singer-songwriter, I would dare to call him somewhat even experimental given the cultural range around his many sonic tastes. When that is the case, there is a risk of putting too much meat on the fire, but that lies in the soul of the creator, seeking his own identity and refining it with experience. Ciavola is not new to this world of files and whatnot, in fact he makes in time two EPs, "Private Conversations" and "My Revolution," but the real record debut with lots of CDs is this "Free.Pop," nomen omen. The artist concretizes everything from the home studio, compositions, recording, production, cover artwork, including the beautiful booklet that accompanies the disc with lyrics, photo drawings and description of the approach to listening, i.e. what inspired Moonmine to write the words on the topics covered.The pen to write this music is the guitar, the voice certainly has an unconventional approach compared to everything that is heard on average today. Ciavola revels in provocation, takes responsibility, and yet it is all so catchy as to leave one momentarily stunned, right from the opening "Full Love." Some songs are sung in Italian, most in English. The short "To God" shows the fragile human being, prone ahead of waiting for divine judgment, all almost mocking. "Drink All Day" has a driving rhythm alternating with more sedate phases. Electronics come in support. The longest track on the album with eight minutes of music is titled "A Song For All" divided into several parts. The first resides entirely in the Folk sound of the 1970s, here the imagination runs wild and like a blender makes musical genres into a unique product.  In the instrumental juncture I am also reminded of Orme, this perhaps because of the nursery rhyme-like dirge. The track fades out and then picks up, so nothing is taken for granted while listening. For me this is the movement I enjoyed the most, perhaps precisely because it is more "Progressive." There are many inconsistencies, but it is these that keep me glued to the listening. Brilliant "Girotondo," excellent use of vocals in overlapping chorality, a peculiar ballad to say the least. And speaking of chorality in "I Just Need" it sounds like listening to Queen after a good alcoholic drink. "War Is Over" has Daniele Silvestri-like cues, but they are just moments and then....  It goes a whole other way. Another valuable piece is titled "In The Dark," where once again electronics play the master role. But I've talked too much, some surprises if you are curious I'll leave to you. "Free.Pop" may seem like an uncomfortable work, this is because authenticity and therefore sincerity, often clash with the falsehood of this society today based on social media, fake profiles and whatnot, where appearing is more important than being. Long live the free Pop dictated by personality that drives an author to do what he thinks, and not what others wish. Too much matter inside? That's okay, as they say in the vernacular "dropping always comes on time," in the meantime Moonmine is forming character and I'm sure we'll hear more in the near future. It is not the black sheep that is different, it is all the others that are unfortunately the same, so listen to Moonmine to believe. MS

lunedì 24 aprile 2023

Luciano Basso

LUCIANO BASSO – To Tell
AMS Records / BTF Vinyl Magic
Genere: Classica – Elettronica – Progressive Rock
Supporto: Bandcamp / cd – 2023





Quando si parla di Rock Progressivo italiano degli anni ’70 bisogna non commettere l’errore di accomunare tutte le band.  E’ vero che il termine significa sperimentazione, o perlomeno la volontà di spingere il Rock verso nuove soluzioni, però attenzione, i generi all’interno sono davvero tanti e possono spaziare dall’elettronica, all’Hard Rock, alla classica, al Jazz, al Folk, insomma verso moltissimi stili musicali. Gli innesti portano a nuovi risultati che fanno parte della nostra evoluzione culturale, la ricerca non ha mai fine, anche se molti critici affermano che ci sia rimasto poco da inventare.
Ricordiamo un Battiato elettronico agli inizi del 1970, un sinfonico “Concerto Grosso” dei New Trolls, oppure l’Hard Rock dei Biglietto Per L’inferno tutto ciò per confermare il concetto. Vedere ancora oggi nomi altisonanti all’opera non fanno altro che accrescere la mia passione per questo genere che nel tempo si è modificato inesorabilmente al passo con i tempi ma che ha saputo mantenere la volontà di provare cose nuove. L’esperienza è fondamentale, anche la perizia tecnica che si affina attraverso concerti e tante prove.
Uno dei nomi interessanti del Rock Progressivo Italiano è quello di Luciano Basso, tastierista e pianista veneziano proveniente dalla band Il Mucchio del 1970. Basso amante dell’elettronica e della classica, realizza un disco importante nel 1976 proprio nel debutto solista intitolato “Voci” (Vinyl Magic – 1976). Nel tempo si dedica sempre alla musica con costanza e mai con la fretta, concentrando l’attenzione in ogni nota. Questo porta all’incisione di altri otto album in studio, compreso quest’ultimo “To Tell”.
Lo stile è personale e ben riconoscibile, il pianoforte pone un’impronta ben distinta attraverso una complessa scrittura sonora che porta anche l’ascoltatore a un’attenzione notevole durante l’ascolto. In questo nuovo album assieme a Basso che suona il pianoforte, troviamo Arturo Bertin (pianoforte), Denis Garzotto (flauto) e Jacopo Pisani (violino).
Dodici sono le composizioni che si possono ascoltare, tutte di una durata media di quattro minuti per un totale di quasi cinquantatré di musica.
Le note ponderate del piano si susseguono con quiete già dal primo brano “Un Respiro”, introspezione studiata e malinconica, dove la mente si lascia abbindolare senza porre resistenza.
In “Danzando 4” il discorso non cambia di molto, aperture sonore lasciano entrare raggi di sole nella nostra fantasia pur rimanendo sempre in zone nostalgiche. L’esecuzione è ricercata oltre che perfetta nello stile. Sempre il piano si propone in “Luc-Art”, le dita corrono sulla tastiera avanti e indietro proprio come fanno le onde del mare in una risacca. Ballata morbida e cadenzata è “Remember”, accarezzata dal flauto di Denis Garzotto. Più breve “Free Fly 2”, ma qui si alza il ritmo e il violino di Jacopo Pisani apporta una spinta maggiore. “Folk Song” a differenza del titolo inizialmente ha ben poco di popolare, direi piuttosto d’intimistico per poi invece lasciarsi andare in una giocosa stesura che conduce verso il Vesuvio. La title track “To Tell” si presenta con tutte le strumentazioni, un richiamo alla musica classica quasi alla Rondò Veneziano del maestro Reverberi, ma è solo una immediata sensazione che con l’ascolto nel tempo va a svanire lasciando spazio alla personalità ben definita di Basso. Nel titolo “Suoni Di Pace” c’è tutto il significato di quanto ho descritto in precedenza, ossia del saper ponderare nota per nota.
“’76” è un anno che a Luciano Basso ha portato fortuna e probabilmente il titolo di questo brano vuole essere una dedica ad esso o forse no, chissà, resta il fatto che è musica per la mente, solare e delicata. In “Fandango” è quasi più forte il silenzio del suono dei martelletti del pianoforte, la musica è fatta di pause che a loro volta sono fondamentali tanto quanto i suoni, relegando al pezzo una cura maggiore oltre che spunti di riflessione.  E guarda caso giunge il brano “Riflessioni” ma la malinconia questa volta si scansa per la giovialità e di nuovo tornano le coralità strumentali. Il violino apre “Reverse”, ultima composizione del disco che si lascia ascoltare con piacere com’è accaduto per tutto il tragitto sonoro.
“To Tell” è Prog o musica classica moderna? Poco importa il termine, l’importante è che artisti come Luciano Basso siano sempre presenti e ricchi d’ispirazione come in questo caso, poi sarà il tempo a dire chi o come si collocherà questa musica. Consigliato l’ascolto per un vero momento di relax. MS 



https://lucianobasso.bandcamp.com/album/to-tell






Versione inglese: 

LUCIANO BASSO – To Tell
AMS Records
Genere: Classica – Elettronica – Progressive Rock
Supporto: Bandcamp / cd – 2023




When talking about Italian Progressive Rock of the 1970s we must not make the mistake of lumping all bands together.  It is true that the term means experimentation, or at least the desire to push Rock towards new solutions, but beware, the genres within are really many and can range from electronic, to Hard Rock, to classical, to Jazz, to Folk, in short towards many musical styles. The grafts lead to new results that are part of our cultural evolution, the search is never ending, even if many critics say that there is little left to invent.Recall an electronic Battiato in the early 1970s, a symphonic "Concerto Grosso" by the New Trolls, or the Hard Rock of Biglietto Per L'inferno all to confirm the concept. To still see top names at work today only adds to my passion for this genre that has inexorably changed with the times over time but has maintained a willingness to try new things. Experience is essential, also technical expertise that is honed through concerts and many rehearsals.One of the interesting names in Italian Progressive Rock is Luciano Basso, a Venetian keyboardist and pianist from the 1970 band Il Mucchio. Basso, a lover of electronics and classical music, made an important record in 1976 just in his solo debut entitled "Voci" (Vinyl Magic - 1976). Over time he always devoted himself to music steadily and never in a hurry, focusing his attention on every note. This leads to the recording of eight more studio albums, including this latest one "To Tell".The style is personal and well recognizable, the piano sets a distinct imprint through complex sound writing that also brings the listener to considerable attention while listening. In this new album along with Basso who plays piano, we find Arturo Bertin (piano), Denis Garzotto (flute) and Jacopo Pisani (violin).Twelve are the compositions that can be listened to, all with an average duration of four minutes for a total of almost fifty-three pieces of music.The thoughtful notes of the piano follow each other quietly already from the first track "Un Respiro," a studied and melancholic introspection where the mind allows itself to be captivated without putting up resistance. In "Dancing 4" the subject matter does not change much, sonic openings let rays of sunshine into our imagination while still remaining in nostalgic zones. The execution is refined as well as perfect in style. Again the piano comes up in "Luc-Art," fingers running over the keyboard back and forth just as the waves of the sea do in an undertow. A soft, cadenced ballad is "Remember," caressed by Denis Garzotto's flute. Shorter "Free Fly 2," but here the tempo picks up and Jacopo Pisani's violin brings a greater thrust. "Folk Song" unlike the title initially has little of the popular, I would say rather of the intimate to then instead let loose in a playful drafting that leads toward Vesuvius. The title track "To Tell" comes with all the instrumentation, a call to classical music almost a la Rondò Veneziano by maestro Reverberi, but it is only an immediate sensation that with listening over time fades away leaving room for Basso's well-defined personality. In the title "Suoni Di Pace" there is all the meaning of what I described above, that is, of being able to ponder note by note."'76" is a year that brought Luciano Basso good luck and probably the title of this track is meant to be a dedication to it or maybe not, who knows, the fact remains that it is music for the mind, sunny and delicate. In "Fandango" the silence is almost louder than the sound of piano hammers, the music is made up of pauses that in turn are as fundamental as the sounds, relegating to the piece a greater care as well as food for thought.  And lo and behold, the track "Reflections" arrives, but the melancholy this time shrugs off for joviality and again the instrumental choruses return. The violin opens "Reverse," the last composition on the disc, which is left to be listened to with pleasure as it has been throughout the sonic journey. "To Tell" is it Prog or modern classical music? Little does the term matter, the important thing is that artists like Luciano Basso are always present and rich in inspiration as in this case, then time will tell who or how this music will be placed. Recommended listening for a true moment of relaxation. MS


domenica 23 aprile 2023

STEFANO PANUNZI

STEFANO PANUNZI – Pages From The Sea
SP Music / Burning Shed
Genere: Crossover Prog
Supporto: digitale – 2023




E’ sorprendente come nel 2023 puntualmente ci siano ancora persone nei social recriminanti il fatto che il Progressive Rock in Italia sia morto. Oggi abbiamo internet che ci aiuta a scoprire avendo il mondo in casa quante persone si dedichino ancora a questo genere. L’editoria poi ne è piena, escono addirittura riviste dedicate all’argomento come ad esempio “Prog”, cosa che da noi non accadeva neppure negli anni ’70 quando il genere spopolava in tutte le classifiche, oppure in libreria. Personalmente ho scritto quattro libri per Arcana sull’argomento post anni ’70. Eppure è così. Certo è che le vendite non sono molte, il disco a parte qualche ritorno di fiamma vinilico, sono sconfortanti, se non si suona dal vivo il guadagno per un musicista è vicino allo zero. Eppure malgrado mille difficoltà l’amore per questa musica è grande e non si ferma mai. Bene lo sa anche il tastierista romano Stefano Panunzi, il quale esce con la sua quarta fatica in studio intitolata “Pages From The Sea”.
Chi segue il Prog conosce già il nome di Panunzi in quanto presente nel progetto Fijeri, vero e proprio supergruppo fondato nel 1997 e autore di due dischi di notevole fattura intitolati “Endless” (2009) e “Words Are All We Have” (2015), mentre l’ultimo disco della sua carriera solista s’intitola “Beyond The Illusion” (2021) e consegue un buon successo di critica.
Promuove musica raffinata, comparabile a uno stile come quello dei No Man, oppure al David Sylvian, il tutto con un tocco moderno di Porcupine Tree, gruppo inglese preso negli ultimi anni come riferimento per nuovi innesti nel Prog. Nelle realizzazioni si avvale spesso della presenza di numerosi special guest, nel caso di “Pages From The Sea” i nomi sono: Jakko M Jakszyk (King Crimson), Robby Aceto, Pat Mastellotto (King Crimson, ORk), Mike Applebaum (Ennio Morricone, Jovanotti, Zucchero, Tiromancino), Markus Reuter (The Crimson ProjeKct), Sirenée, Sunao Inami, Peter Goddard (The Mousetrap Factory), Peter Dodge, Giacomo Anselmi (Goblin Rebirth), Fabio Fraschini (Novembre, Il Volo, Marina Rei), Fabio Trentini, Stefano Petrocco, Cristiano Capobianco, Luca Fareri, Alessandro Inolti e Nicola Lori (Fijeri). Come avete avuto modo di constatare sono tutti artisti di elevata capacità balistica oltre che di fama, tutto questo apporta all’intero lavoro inevitabilmente una marcia in più e delle alte attese.
Il disco è formato da dodici brani, mentre la bella copertina è di Bernd Webler.
In un movimento di stile King Crimson il disco si apre con “Which Trust?” dal suono caldo e avvolgente grazie al basso di Fabio Fraschini. Non esulano passaggi nel Jazz anche attraverso una tromba. Lo strumentale è bene arrangiato e dimostra stile oltre che la consapevolezza di avere una ragguardevole cultura musicale racimolata negli anni.
Il mondo di Steven Wilson e dei No Man si evince maggiormente in “Not Waiving, But Drowning” dove anche la voce di Jakko M Jakszyk ricorda quella di Tim Bowness o di Giancarlo Erra (No Sound). Il pezzo etereo e sognante lascia poi il passo a “The Secret”, qui il ritmo sale e comunque siamo sempre nei pressi del contesto, questa volta leggermente più incline verso i Porcupine Tree. Con questi nomi non voglio dire che “Pages From The Sea” sia un album derivativo, perché Stefano Panunzi ha una sua netta personalità, dettata dall’animo morbido e gentile riflesso in maniera inequivocabile nelle composizioni realizzate. Con “The Sea” le tastiere fanno sognare ad occhi aperti, qui la musica diventa una telecamera. Nuovi interventi Jazzy si palesano in “You And I”, sempre sognante nell’incedere ma non scontata nella stesura armonica. “Steel Wave” ha frangenti elettrici oltre che elettronici, mentre “Every Drop Of Your Love” è una ballata dotata di autorevole personalità. Il mare, vero protagonista dell’album da come si evince dalla copertina, si quieta e lascia la calma piatta in “Swimming To Sea” dove a tratti il duca bianco David Bowie fa capolino.
“I'm Feeling So Blue” nonostante il titolo non rilascia tristezza, il ritmo è abbastanza alto mentre l’elettronica disegna andamenti orecchiabili che fanno da supporto alla struttura ricercata e soave. Altra quiete con “Those Words (Words are All We Have)”, ennesimo fotogramma sonoro. Fra i passaggi più vigorosi (se così vogliamo chiamarli) troviamo “An Autumn Day”, addolciti dalla voce femminile di Sirenée. E la figura femminile è anche la protagonista di “The Sea Woman”, altra perla sonora di delicata fattura.
La musica di Stefano Panunzi è questa, rispettosa dell’ascoltatore e specchio dell’anima. Non c’è bisogno di spingere sull’acceleratore per correre quando a volte basta semplicemente chiudere gli occhi addirittura per volare. MS

 

 


  Versione Inglese: 


STEFANO PANUNZI – Pages From The Sea
SP Music / Burning Shed
Genere: Crossover Prog
Supporto: digitale – 2023

It is amazing how in 2023 punctually there are still people in social recriminating that Progressive Rock in Italy is dead. Today we have the Internet that helps us find out by having the world at home how many people are still dedicated to this genre. Publishing then is full of it, there are even magazines coming out dedicated to the subject such as "Prog," something that didn't even happen here in the 1970s when the genre was all the rage in the charts, or in bookstores. Personally, I have written four books for Arcana on the topic post 1970s. And yet it is. Of course it is that sales are not many, the record aside from a few vinyl comebacks are discouraging, if you don't play live the income for a musician is close to zero. Yet despite a thousand difficulties the love for this music is great and never stops. Roman keyboardist Stefano Panunzi, who comes out with his fourth studio effort entitled "Pages From The Sea," knows this well.
Those who follow Prog already know Panunzi's name as he is present in the Fijeri project, a real supergroup founded in 1997 and author of two remarkable records titled "Endless" (2009) and "Words Are All We Have" (2015), while the last record of his solo career is titled "Beyond The Illusion" (2021) and achieves good critical success.
He promotes refined music, comparable to a style like that of No Man, or to David Sylvian, all with a modern touch of Porcupine Tree, an English group taken in recent years as a reference for new graft in Prog. In the releases he often makes use of the presence of numerous special guests, in the case of "Pages From The Sea" the names are: Jakko M Jakszyk (King Crimson), Robby Aceto, Pat Mastellotto (King Crimson, ORk), Mike Applebaum (Ennio Morricone, Jovanotti, Zucchero, Tiromancino), Markus Reuter (The Crimson ProjeKct), Sirenée, Sunao Inami, Peter Goddard (The Mousetrap Factory), Peter Dodge, Giacomo Anselmi (Goblin Rebirth), Fabio Fraschini (Novembre, Il Volo, Marina Rei), Fabio Trentini, Stefano Petrocco, Cristiano Capobianco, Luca Fareri, Alessandro Inolti and Nicola Lori (Fijeri). As you have been able to ascertain they are all artists of high ballistic ability as well as reputation, all of which inevitably brings to the whole work a high gear and high expectations.
The record consists of twelve tracks, while the beautiful cover art is by Bernd Webler.
In a King Crimson-style movement, the disc opens with "Which Trust?" with a warm, enveloping sound thanks to Fabio Fraschini's bass. Passages into jazz also through a trumpet do not exude. The instrumental is well arranged and demonstrates style as well as an awareness of a considerable musical culture gleaned over the years.
The world of Steven Wilson and No Man is most evident in "Not Waiving, But Drowning" where Jakko M Jakszyk's voice is also reminiscent of Tim Bowness or Giancarlo Erra (No Sound). The ethereal, dreamy piece then gives way to "The Secret," here the pace picks up and still we are always near the context, this time leaning slightly more toward Porcupine Tree. By these names I do not mean to say that "Pages From The Sea" is a derivative album, because Stefano Panunzi has his own distinct personality, dictated by the soft and gentle soul unmistakably reflected in the compositions made. With "The Sea" the keyboards make one daydream, here the music becomes a camera. New Jazzy interventions become apparent in "You And I," always dreamy in its procession but not predictable in its harmonic drafting. "Steel Wave" has electric as well as electronic bangs, while "Every Drop Of Your Love" is a ballad with authoritative personality. The sea, the real protagonist of the album from as the cover suggests, quiets down and leaves a flat calm in "Swimming To Sea" where at times the white duke David Bowie peeps out.
"I'm Feeling So Blue" despite its title doesn't release sadness, the beat is quite high while the electronics draw catchy gaits that back up the refined and suave structure. More stillness with "Those Words (Words are All We Have)," yet another sonic frame. Among the more vigorous passages (if we want to call them that) we find "An Autumn Day," softened by Sirenée's female voice. And the female figure is also the protagonist of "The Sea Woman," another delicately crafted sonic gem.
Stefano Panunzi's music is this, respectful of the listener and a mirror of the soul. There is no need to push on the accelerator to run when sometimes you simply need to close your eyes even to fly. MS

sabato 22 aprile 2023

Thomas Lassar

THOMAS LASSAR – From Now On
Art Of Melody Music / Burning Minds Music Group
Genere: AOR
Supporto: cd – 2023




La storia del genere musicale A.O.R. ha radici lontane, piantate negli anni ’60 in America quando certi brani cominciano ad avere una durata maggiore rispetto ai 45 giri in voga in quel periodo. E’ un formato prettamente radiofonico e da qui deriva l’abbreviazione in A.O.R. (Album Oriented Radio). Generalmente queste canzoni stazionano dunque nei più capienti 33 giri e in concomitanza con l’uso sempre maggiore della FM radiofonica al posto dell’AM, in America prende piede in maniera importante. Con il passare degli anni sempre nel grande continente, band come Toto, Journey, Rush, Boston prendono maggiormente campo miscelando l’Hard Rock con il Progressive, ed ecco che il Rock diventa sempre più elegante, anche con una punta di Glam. Ed è per questo che il termine A.O.R. può anche significare Adult Oriented Rock. Resta il fatto che la musica proposta generalmente è tanto orecchiabile, seppure dotata di buona tecnica da parte degli strumentisti in azione. Non a caso c’è chi definisce il genere “Hard Pop”.
Anche nel 2023 escono buone realizzazioni da parte di chi comunque nella musica ha militato con professionalità, come nel caso dello svedese Thomas Lassar. Amante ed esecutore delle tastiere sin da bambino Lassar vive la scena svedese facendo parte di alcune band locali, per poi approdare a una delle formazioni più interessanti dell’A.O.R., i Crystal Blue. Purtroppo la band si scioglie presto, e il nostro cantante e tastierista inizia la carriera di turnista collaborando con band anche famose nel panorama in questione come per esempio i Last Autumn’s Dream e i Charming Grace. Con la concomitanza della pandemia, l’artista si chiude in studio per creare il suo primo risultato da solista: “From Now On”.
Il disco contiene un bel libretto per opera di Antonella “Aeglos” Astori con fotografie di Pavel Koubek, mentre le note introduttive sono scritte da Jörg Bonszkowski (Rock It! Magazine, Rock Avenue Radio Show). In esso sono contenuti i testi oltre che i credits brano per brano. Dieci le canzoni e il singolo apripista s’intitola “Whatever I Do”, un pezzo che mostra tutto lo splendore di questo genere, sonorità ampie esaltate da una buona registrazione effettuata al Basement Studio di Orebro in Svezia. Le tastiere ricoprono ovviamente il ruolo di prima donna oltre alla bella voce di Lassar, tuttavia non possono mancare i brevi assolo di chitarra elettrica prerogativa dell’A.O.R. in questo caso effettuato da Rob Marcello. Con l’artista suonano il batterista dei Crystal Blue Fredrik Akermo, il chitarrista degli AMOK Fredrik Fernlund, il bassista Ake Jennstig e il chitarrista ospite Rob Marcello (Defiants) che appunto dona la sua arte in tre tracce.
Non mancano ripetutamente i deja vu, ma poco interessa quando l’energia elargita è pulita oltre che corroborante, “When My Ship Comes In” la sa lunga al riguardo. “Losing Faith” rallenta il ritmo ma non l’intensità, le coralità con cui è composta tendono infatti a farci cantare assieme a loro.
Altra caratteristica dell’A.O.R. sono le ballate, quelle dritte al cuore, senza fare ostaggi come nel caso di “Back Where I Started” o della conclusiva e pianistica “From Now On”. Esistono brani più ricercati ad esempio “In Control”, una semi ballata aperta dalla chitarra acustica oppure “Turn Back Time”, fra le mie preferite. Per il resto tutto gradevole, ben arrangiato e nella norma.
Thomas Lassar rilascia un debutto elegante fatto per chi sa apprezzare la musica in tutte le sue sfaccettature, ma soprattutto tengo a sottolineare che è scritto con il cuore, e si sente! MS 






Versione inglese:




THOMAS LASSAR - From Now On
Art Of Melody Music / Burning Minds Music Group
Genre: AOR
Support: CD-2023


The history of the A.O.R. music genre has distant roots, planted in the 1960s in America when certain tracks began to be longer than the 45 rpm records in vogue at the time. It is a purely radio format and hence the abbreviation in A.O.R. (Album Oriented Radio). Generally, these songs therefore stayed in the larger 33 rpm's and in conjunction with the increasing use of FM radio in place of AM, in America it took off in a big way. As the years went by, still on the great continent, bands like Toto, Journey, Rush, Boston took the field more, mixing Hard Rock with Progressive, and Rock became more and more elegant, even with a hint of Glam. And that is why the term A.O.R. can also stand for Adult Oriented Rock. The fact remains that the music on offer is generally very catchy, albeit with good technique on the part of the instrumentalists in action. It is no coincidence that some call the genre Hard Pop'.
Even in 2023, good achievements come out from those who have been professionally involved in music, as in the case of Swede Thomas Lassar. A lover and performer of keyboards since childhood, Lassar experienced the Swedish scene by being part of a few local bands, before joining one of the most interesting A.O.R. formations, the Crystal Blue. Unfortunately, the band soon broke up, and our singer and keyboard player began a career as a session player, collaborating with bands that were also famous in the scene in question, such as Last Autumn's Dream and Charming Grace. With the concomitance of the pandemic, the artist closes himself in the studio to create his first solo output “From Now On”.
The disc contains a beautiful booklet by Antonella “Aeglos” Astori with photographs by Pavel Koubek, while the introductory notes are written by Jörg Bonszkowski (Rock It! Magazine, Rock Avenue Radio Show). It contains the lyrics as well as track-by-track credits. There are ten songs and the lead single is entitled Whatever I Do', a track that shows all the splendour of this genre, wide sounds enhanced by a good recording made at the Basement Studio in Orebro, Sweden. The keyboards obviously play the role of prima donna in addition to Lassar's beautiful voice, but there is no shortage of short electric guitar solos prerogative of A.OR. in this case performed by Rob Marcello. Playing with the artist are Crystal Blue drummer Fredrik Akermo, AMOK guitarist Fredrik Fernlund, bassist Ake Jenn stig and guest guitarist Rob Marcello (Defiants), who lends his artistry on three tracks.
There is no shortage of deja vu repeatedly, but it matters little when the energy bestowed is clean as well as invigorating. When My Ship Comes In' knows a lot about that. "Losing Faith" slows the pace but not the intensity, the chorality with which it is composed tends to make us sing along. Another characteristic of A.O.R. are the ballads, those straight to the heart, without making hostages as in the case of Back Where I Started or the concluding, piano-driven From Now On'. There are more sophisticated tracks such as In Control, a semi-ballad opened by the acoustic guitar, or Tum Back Time, one of my favourites. Otherwise everything is pleasant, well arranged and within the norm. MS
Thomas Lasser releases an elegant debut made for those who know how to appreciate music in all its facets, but above all I would like to emphasise that it is written from the heart, and it can be heard! MS

Supercanifradiciadespiaredosi

SUPERCANIFRADICIADESPIAREDOSI – Aggiovaggio
Aramis Records/Lizard Records
Genere: Progressive Rock – Rock
Supporto: vinile 12” – Digital – 2023




Leggere e ascoltare, quanto è mancato! Un balzo indietro nel tempo con un supporto vinilico in mano e tanto di fumetto allegato di sedici pagine, con testi e quant’altro, una vera goduria. Sembra di tornare negli anni ’70, seduto avanti ad un buon stereo, un’incisione fatta a regola d’arte e un concept da seguire per una suite dove il viaggio verso Giove tiene alta la tensione.
Il trio trentino Supercanifradiciadespiaredosi ritorna così dopo ben cinque anni dall’ottimo “Geni Compresi” (Lizard Records – 2017), con un innesto nuovo nella line up, Nestor Fasteedio al secondo basso. Avete letto bene, trattasi di formazione decisamente anomala con due bassi e una batteria, l’altro basso è suonato da Brodolfo Sgangan (Boris Saracco) mentre dietro alle pelli siede Randy Molesto. La musica non è di certo convenzionale, rispecchia il gusto per la satira che si spalma fra le note e il cantato, tuttavia essendo una suite di dodici minuti suddivisa in otto parti nel lato A e una performance live nel lato B, porta a inserirla nel contesto sperimentale grazie anche ai riferimenti nei confronti di King Crimson, Magma, Rush e Yes.
“Aggiovaggio” è quindi una mini opera Rock a tutti gli effetti, formata da riferimenti come già detto verso il passato ma con uno sguardo dritto al futuro.
Il viaggio cosmico non può partire che con il “Decollo”. La navicella si chiama Bautilus ed è costruita dalla NASO (sì, avete letto bene, perchè è fatta a forma di naso). I bassi pulsano come propulsori e sputano i nostri tre eroi fuori dell’atmosfera, dove ad attenderli c’è la quiete. Musica senza chitarre e tastiere, eppure non si patisce la mancanza, perché i musicisti affrontano le melodie con ricercatezza ma anche nuove soluzioni supportate dalla graffiante voce di Brodolfo. I cambi di ritmo sono ovviamente annessi al viaggio, essi descrivono le varie fasi della storia. La velocità del Bautilus si stabilizza, tutto sembra procedere secondo i piani mirando verso Giove. Un Blues accompagna il movimento, ma improvvisamente un ritmo serrato di batteria fa da colonna sonora a ciò che accade, una navicella aliena colpisce il trio con un vortice magnetico che fonde le tre menti dei passeggeri cancellandogli i ricordi, l’attimo si chiama “Attacco Alieno”. Storditi in una sorte di lobotomia cerebrale, si spingono verso un “Buco Nero” ma fortunatamente ne escono illesi. La rotta però è cambiata, sono ora diretti verso l’enorme satellite “Ganimede” mentre la musica richiama materiale King Crimson. Durante il percorso fuori il buco nero avviene imminente l’incontro con “Nautilo”, un enorme essere portatore di vita sulla terra. Esso inocula nelle menti dei tre passeggeri il seme del ricordo, così la missione di scendere sul pianeta gassoso è ripristinata. Con un “Aggiovaggio” perfetto, il trio apre lo sportellone del Bautilus apportando in questo mondo ossigeno che mischiandosi all’idrogeno esistente nell’atmosfera come un liquido seminale, dona la vita all’enorme pianeta facendo nascere anche la fauna. La musica diviene gioiosa mentre i testi dell’atto conclusivo “Vita”, composta da primitivi canti sciamani rifatti in verso, decantano: “Eccoci, siamo il loro Dio, ma chi è il Dio del Nautilo? Di chi è Dio Giove?”. Probabilmente è l’inizio di una nuova storia, di certo non la fine.
“Ognuno è il Dio di qualcun altro”.
Tante idee, in “Aggiovaggio”, buona tecnica, suoni, armonie, energia, psichedelia, un trip da affrontare con il libretto in mano per gustarla a pieno nella sua interezza. Vista la formazione strumentale è ovvio che il ritmo faccia da padrone, e quindi resterà anche difficile rimanere fermi durante l’ascolto. I Supercanifradiciadespiaredosi sono davvero coinvolgenti!
I disegni fatti a mano del libretto sono di Brodolfo Sgangan.
Finalmente qualcuno che esalta l’artwork, perché negli ultimi decenni la musica liquida ha fatto perdere questo rapporto fisico fra musica e supporto, probabilmente qualche neofita si innamorerà oggi di questo connubio, mentre i più attempati come me non possono che godere di questo ritorno.
Dell’album che viaggia alla velocità di un 45 giri per una migliore qualità sonora, sono state stampate 300 copie, cosa aspettate ad acquistarne una? Almeno per curiosità o per ricordare i bei tempi che furono. MS

  



Versione Inglese: 



SUPERCANIFRADICIADESPIAREDOSI – Aggiovaggio
Aramis Records/Lizard Records
Genere: Progressive Rock – Rock
Supporto: vinile 12” – Digital – 2023


Reading and listening, how much it has been missed! A leap back in time with a vinyl stand in hand and lots of attached sixteen-page comic book, with lyrics and whatnot, a real treat. It feels like going back to the 1970s, sitting in front of a good stereo, a professionally made recording and a concept to follow for a suite where the journey to Jupiter keeps the tension high.The Trentino trio Supercanifradiciadespiaredosi thus returns after a good five years since the excellent "Geni Compresi" (Lizard Records - 2017), with a new graft in the line up, Nestor Fasteedio on second bass. You read that right, this is definitely an anomalous lineup with two basses and one drum set, the other bass is played by Brodolfo Sgangan (Boris Saracco) while behind the skins sits Randy Molesto. The music is certainly unconventional, reflecting the taste for satire that is smeared between the notes and the singing, however being a twelve-minute suite divided into eight parts on side A and a live performance on side B, leads one to place it in the experimental context thanks also to the references towards King Crimson, Magma, Rush and Yes. "Aggiovaggio" is thus a mini Rock opera in its own right, formed by references as already mentioned toward the past but with a straight look to the future.The cosmic journey can only start with "Takeoff." The spacecraft is called Bautilus and is built by NASO (yes, you read that right, because it is made in the shape of a nose). The bass pulses like thrusters and spits our three heroes out of the atmosphere, where quiet awaits them. Music without guitars and keyboards, yet one does not suffer the lack, as the musicians tackle the melodies with sophistication but also new solutions supported by Brodolfo's scratchy voice. Changes of rhythm are obviously attached to the journey; they describe the various stages of the story. The speed of Bautilus stabilizes, everything seems to proceed according to plan aiming toward Jupiter. A Blues accompanies the movement, but suddenly a tight drum beat acts as a soundtrack to what is happening, an alien spacecraft hits the trio with a magnetic vortex that merges the three minds of the passengers erasing their memories, the moment is called "Alien Attack." Stunned in a kind of cerebral lobotomy, they drive into a "Black Hole" but fortunately emerge unharmed. The course, however, has changed; they are now headed toward the huge satellite "Ganymede" while the music recalls King Crimson material. On the way out of the black hole an encounter with "Nautilo," a huge life-bearing being on earth, occurs imminently. It inoculates in the minds of the three passengers the seed of remembrance, so the mission to descend to the gaseous planet is restored. With a perfect "Aggiovaggio," the trio opens the hatch of the Bautilus bringing oxygen into this world, which, mixing with the hydrogen existing in the atmosphere as a seminal liquid, gives life to the huge planet while also giving birth to fauna. The music becomes joyful as the lyrics of the closing act "Life," composed of primitive shaman chants remade into verse, decant, "Here we are, we are their God, but who is the God of Nautilus? Whose God is Jupiter?" It is probably the beginning of a new story, certainly not the end.
"Everyone is someone else's God."
Lots of ideas, in "Aggiovaggio," good technique, sounds, harmonies, energy, psychedelia, a trip to be approached with the booklet in hand to fully enjoy it in its entirety. Given the instrumental lineup, it is obvious that the rhythm plays the lead, and so it will also remain difficult to stay still while listening. Supercanifradiciadespiaredosi are truly engaging!
The handmade drawings in the booklet are by Brodolfo Sgangan.
At last someone extolling the artwork, because in the last decades liquid music has caused this physical relationship between music and medium to be lost, probably some neophytes will fall in love with this union today, while the older ones like me can only enjoy this comeback.
Of the album that travels at the speed of a 45 rpm for better sound quality, 300 copies were printed, so what are you waiting for to buy one? At least out of curiosity or to remember the good old days. MS

lunedì 17 aprile 2023

LA STORIA DELL' HARD ROCK

STORIA DELL'HARD ROCK
(Di Giancarlo Bolther e Massimo Salari)




Anni fa, durante l’attesa di un concerto, ero vicino a due ragazzi che parlavano degli Iron Maiden, alla fine della discussione uno disse all’altro qualcosa del tipo: “… si però gli Iron Maiden non sono veramente metal, loro sono più hard rock”. Questa affermazione, per me sorprendente, mi è sempre rimasta impressa, perché i Maiden possono essere considerati come il gruppo di punta della New Wave Of British Heavy Metal (detta in gergo anche NWOBHM), ovvero il movimento che ha dato il via ufficiale all’heavy metal. È vero che oggi troviamo nel circuito metal band che fanno una musica esponenzialmente più potente e cattiva dei Maiden, ma cos’è l’hard rock? Con questo speciale vogliamo tentare di raccontarvi la nascita e l’evoluzione di questo particolare genere musicale che, nella storia della musica pop moderna, è stato fra i più amati dal pubblico e al tempo stesso fra i più bistrattati e snobbati dai media, da buona parte della critica “colta” e dai puritani del suono. Eppure, pochi sono i generi musicali che hanno potuto vantare la longevità e lo stesso seguito di appassionati dell’hard rock. Nel presente articolo cercheremo di scavare più a fondo possibile nei suoi vasti meandri, per arrivare idealmente fin verso i primi anni ‘80, con qualche rapido accenno ai tempi odierni, facendo una specie di gioco di rimando alle due sponde dell’Atlantico, con la consapevolezza che non riusciremo a ricordare tutti i gruppi e nemmeno ad esaurire tutti gli aspetti (non vuole essere un articolo enciclopedico), per cui ci scusiamo per tutte le possibili lacune e vi saremo davvero grati se avrete la pazienza e la cortesia di volercele eventualmente segnalare. Buona lettura.

L’hard rock si è sviluppato principalmente in America e in Inghilterra, com’è noto la prima è stata la culla del rock, il paese dove tutto ha avuto inizio, la seconda però non ha vissuto di riflesso ed ha partorito alcuni dei gruppi più influenti di tutto il movimento, mentre gli altri paesi per lo più sono rimasti a guardare, con pochissime, seppur valide, eccezioni. C’è sempre stata una forte rivalità fra le due sponde dell’Oceano, quando si parla di hard rock tutti pensano subito alla triade Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath, che è tutta inglese, ma anche in America troviamo una triade importante composta da Aerosmith, Kiss e Blue Öyster Cult. Il fenomeno musicale è stato molto più complesso di quanto potrebbe apparire, in parte a causa di una genesi articolata e in parte per tutti i sottogeneri e le ramificazioni che questo tipo di musica col tempo ha prodotto, per cui se è vero che ci sono fattori comuni fra i vari gruppi, come l’abbondante uso della distorsione nei suoni, è anche vero che sono molte di più le singole peculiarità. Per fare una carrellata di esempio possiamo citare i seguenti sottogeneri: dark, prog, glam, boogie, southern, AOR, kraturock, psichedelia, space, folk…, tutti molto diversi tra loro, ma tutti con caratteristiche proprie che li distinguono dagli altri, per cui non si può certo dire che il sound blues dei Mahogany Rush suoni come quello acido e rivoluzionario degli Edgar Broughton Band, che il boogie rock dei Bad Company assomigli al songwriting visionario degli Atomic Rooster, che i pomposi Queen siano accostabili ai progressivi Gravy Train, che i seminali ed epici Dust abbiano qualcosa in comune col funky degli sperimentali Trapeze, che gli spaziali Hawkwind siano paragonabili al southern rock dei Lynyrd Skynyrd, che i campioni di melodia Boston abbiano lo stesso impatto dei ruvidi Lucifer’s Friend, così pure il folk irlandese degli Horslips è radicalmente diverso dal proto punk degli spregiudicati New York Dolls e così via. Tutti fanno hard rock, ma tutti hanno un’identità diversa, forte e ben definita.
 La vitalità dell’hard rock è derivata senza dubbio dalla sua capacità di trasformarsi, di contaminarsi e rinascere ciclicamente, fino ad arrivare ai giorni nostri in piena salute. Infatti se da un lato ci sono i vecchi leoni che continuano a ruggire, dall’altro sono molti i giovani artisti che si rifanno a sonorità che possiamo definire “datate” o, se preferite un termine alla moda, “vintage”. Da alcuni anni è nato spontaneamente tutto un movimento, ancora molto uderground, di gruppi che suonano musica in pieno seventies style. E molti musicisti vengono da band di metal estremo, come un ideale percorso all’indietro.
Di certo figli dell’hard rock sono il grunge di Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam e lo stoner di Kyuss, Fu Manchu, Spiritual Beggars e Orange Goblin, ma anche moltissimo crossover e praticamente tutta la scena alternative degli anni ’90 a partire dai Jane’s Addiction per arrivare fino ai Rage Against The Machine può essere considerata come la naturale evoluzione del genere. Sempre negli ultimi anni sono emerse band come Placebo, Skunk Anansie, HIM, Cranberries, Muse, Rasmus, che hanno avuto successo suonando un rock decisamente “duro”.
In tutto questo discorso non abbiamo ancora accennato al punk, il movimento musicale e politico che alla fine degli anni ’70 ha generato un vero e proprio tsunami nella scena musicale mondiale. Come tutti sanno, il punk ha scardinato tutti i grandi gruppi storici, che apparivano ormai spompati e privi di idee, spesso stritolati da logiche più commerciali che artistiche, ma anche questo genere, nelle sue forme più ruvide, ha pescato a piene mani nella tradizione hard rock, tanto che i Sex Pistols, i padri indiscussi del punk, sono considerati ai limiti del genere, mentre i Motorhead, icona metal per antonomasia, figuravano insieme alle Girl School nelle prime compilations punk. Negli anni a venire poi ci saranno gruppi figli del punk e di certa new wave che torneranno a sonorità prettamente seventies, come hanno fatto ad esempio i Cult dell’album Love e più ancora con Electric o i Lords of the New Church di Method to Our Madness, e ancora i Mission, gli Hoodoo Gurus e Zodiac Mindwarp, ma questa è un’altra storia.




ATTO PRIMO. LA NASCITA DEL MOVIMENTO, IL SUONO SI FA “DURO”

Facciamo un piccolo passo indietro. Negli anni ’50 prende sempre più forma una nuova classe sociale, quella dei “teenagers”. Bisogna sapere che prima di allora i teenagers non esistevano, nel senso che non si parlava di loro e dei loro problemi. Con l’avvento dell’industrializzazione i giovani hanno cominciato ad avere sempre più tempo libero (prima si andava a lavorare a undici dodici anni) e questo fenomeno ha preso rilievo con il boom economico di quegli anni. Da un lato i giovani hanno assunto una nuova consapevolezza e si sono aggregati in gruppi sempre più grandi, da un altro lato il mondo “adulto” ed economico ha cominciato ad accorgersi di loro e a considerarli come una risorsa e un possibile business. Hanno cominciato a diffondersi nuove mode e nuovi linguaggi musicali, per i giovani aggregarsi e suonare è stato un fenomeno in rapida espansione. Con il passare degli anni questo fenomeno si è amplificato sempre più.
All’inizio degli anni ’60 spadroneggiavano i grandi folk singer alfieri del pacifismo come Pete Seeger, Joan Baez, Bob Dylan, Phil Ochs, Donovan, che avevano portato i giovani ad appassionarsi di politica, c’era la guerra in Vietnam, che tanto peso aveva avuto sull’opinione pubblica, mentre la gente comune ormai si stava rendendo conto che il bel sogno americano degli anni ’50 era rimasto tale e la disillusione, mista ad un peggioramento progressivo del tenore di vita di alcune classi sociali, aveva prodotto nel tessuto sociale un crescente malcontento.
Le tensioni hanno portato i giovani ad ascoltare musica “nuova”, più aggressiva, arriva il beat con gli “urlatori”, e in questo caso è stata la scena inglese che ha preso il soppravvento con Yardbirds, Rolling Stones, The Who, Kinks, Them, che iniziano a scardinare con prepotenza il canonico pop edulcorato del tempo.
Non secondario nel diffondere il rock è stato l’atteggiamento repressivo espresso dall’establishment americano negli anni ‘60, che vedeva nel nascente movimento musicale un pericoloso veicolo di idee trasgressive, ma questo di fatto ha spinto ancor più a fondo l’acceleratore ottenendo l’effetto opposto, cioè ha favorito una diffusione sempre più rapida del movimento musicale.
La protesta, inizialmente cavalcata dai folk singer, che per lo più proponevano ballate melodiche in chiave acustica, verso la metà degli anni sessanta comincia a tradursi in suoni elettrici scarni ed essenziali, che presto diventano decisamente duri. Questo inasprirsi ovviamente rendeva meglio l’idea stessa di protesta, una vera e propria valvola di sfogo e una forma di denuncia, che con tutta probabilità ha permesso a molti giovani di manifestare la propria rabbia attraverso la musica piuttosto che con altre espressioni più pericolose (che comunque negli anni a venire non sono mancate). L’avvento del rock “elettrificato” segnò in buona parte la fine dell’epoca dei folk singer e Bob Dylan fu il primo ad accorgersene. In musica presero sempre più piede le vibrazioni elettriche, che gridavano il disagio dell’individuo ed esprimevano una profonda contestazione per aver visto disattese le speranze di quella vita spensierata e pacifica promessa dai media negli anni ’50, ma nei fatti mai concretizzata. Anche il grande raduno di Woodstock ha cambiato profondamente le cose. Per qualcuno è stato l’inizio di una nuova era, ma qualcun altro vi ha visto un enorme pericolo. Non era mai successo che tanti giovani si riunissero insieme e non si trattava solo di musica, in campo c’era una profonda contestazione del sistema sociale e soprattutto di quello economico, sembrava più un raduno politico-religioso che non di mero intrattenimento musicale. L’impegno politico diretto nei testi delle canzoni comunque inizia pian piano a sfumare e lo spirito di protesta viene affidato più all’impatto sonoro che non ai contenuti. I testi si fanno più egocentrici, al centro non esiste che l’“Io”. Col passare degli anni i riferimenti nelle canzoni si fanno sempre più espliciti e toccano primariamente argomentazioni sentimentali e sessuali. Curioso è che in quasi ogni disco, accanto ai brani “muscolosi” non mancassero delle bellissime ballate strappacuore, i cosiddetti “lenti”.
Queste tendenze nate in America ebbero facile presa anche sull’altra sponda dell’oceano, dove si erano create sacche di emarginazione nelle classi operaie senza lavoro, vittime della “rivoluzione industriale”. Il movimento musicale inglese prese talmente forza che si iniziò a parlare di British Invasion, riferendosi al successo riscosso dai gruppi inglesi nella patria culla del rock, ribaltando in un certo senso il flusso musicale. Questo ideale conflitto culturale tra giovani è ben testimoniato dal famoso film Quadrophenia, con le indimenticabili musiche degli Who.
Se questa è stata la genesi “sociologica” del movimento c’è anche quella più prettamente musicale. La radice prima dell’hard rock è la stessa del rock più in generale, quindi si tratta di un misto di folk e di blues, portati all’esasperazione dall’amplificazione degli strumenti. Si può certamente affermare che le basi su cui in seguito si svilupperà il suono “duro” sono rintracciabili nella scena blues delle grandi città industriali del Nord America come Detroit (omaggiata dai Kiss con il cavallo di battaglia “Detroit Rock City”) e Chigago, dove sono emersi alcuni artisti molto innovativi come Bo Diddley e John Lee Hooker, che diedero vita ad un blues “sporco” e carico di elettricità. Questi artisti battevano sul beat, sul tempo, enfatizzando la parte più ritmica. Il cambio di sound è stato influenzato con molta probabilità dalle difficili condizioni sociali e dalle tensioni che si sono acuite in quelle zone, non a caso proprio da Detroit partiranno alcuni dei gruppi più “cattivi” e “politicamente scorretti” di sempre come MC5, Stooges, Grand Funk Railroad e gli Amboy Dukes del selvaggio Ted Nugent, senza dimenticare il grande istrione Alice Cooper.


ATTO SECONDO: LA RINCORSA FRA LE DUE SPONDE DELL’OCEANO

In Inghilterra intanto fra i giovani comincia a diffondersi l’amore per il blues e molti musicisti ne subiscono il fascino. Sorta di guru e catalizzatore di talenti è John Mayall, che ha lanciato quasi tutti i più grandi musicisti di quel periodo. Nasce il blues bianco. Fra i primi a fare tesoro delle intuizioni di questi artisti blues ci sono gli Yardbirds, vera fucina di talenti, non a caso hanno avuto in formazione chitarristi epocali come Eric Clapton (che avrà il grande onore di vedere il suo nome accanto a quello di Mayall sullo storico album del 1966), Jimmy Page e Jeff Beck. Il loro primo album The First Recordings esce su etichetta L+R Records nel 1963. Seguono i famigerati Rolling Stones del primo album omonimo, che vede la luce il 14 aprile del 1964 su etichetta Deram ed è un vero spartiacque. Cambiano le regole del gioco, anche se non è ancora il via ufficiale al movimento, perché è difficile stabilire con esattezza la nascita dell’hard rock. Le orchestrazioni armoniose delle big band e dei grandi ensambles lasciano il posto a gruppi di massimo cinque o sei elementi, gli arrangiamenti diventano sempre più scarni ed essenziali. Oltre ai già citati Rolling Stones si fanno strada con forza i rivali Kinks, che sul primo album omonimo pubblicato il 2 ottobre del 1964 su etichetta Pye piazzano l’epocale “You Really Got Me”, la band spopola in patria, tuttavia la crudezza dei testi spesso molto espliciti, ma talvolta anche poetici come in “David Watts”, testi che trattano di argomeni spinosi come ad esempio l’omosessualità, fa del gruppo la band più “politically uncorrect” dell’epoca, impedendo di fatto al gruppo di Ray Davies di contendere agli Stones la palma di miglior gruppo rock del decennio. Poi ci sono gli Who dell’inno “My Generation” edita sull’omonimo album pubblicato il 3 dicembre del 1965 su etichetta Brunswick. Altra band rivoluzionaria, i loro dischi sono intramontabili, ma molto importante è anche l’atteggiamento fisico, l’energia sprigionata ai concerti, l’approccio sul palco, i salti dello stesso chitarrista, la distruzione sistematica degli strumenti e tante altre gesta scatenate, che hanno cambiato il modo di essere musicista rock. Sin dal nome si mette in discussione un’intera generazione, nascono i Mods, Peter Meaden (che nel 1964 è il loro manager) dichiara in una intervista: “Essere Mod è cercare di vivere al meglio, anche quando le circostanze e gli eventi ti sono avversi”. Il film “Quadrophenia” è il rock, l’Lp “My Generation” è l’emblema di una generazione, la rabbia degli Who è hard rock nella sua essenza più pura. È una rivoluzione caotica, disordinata, proprio perché di vera rivoluzione si tratta e non ci sono regole, anzi la vera regola è infrangere tutte le regole, ogni band sperimenta a modo suo i nuovi suoni, la distorsione viene prodotta “in casa”, non c’erano ancora le diavolerie che oggi la tecnologia mette a disposizione dei musicisti, tutti si dovevano arrabattare in qualche modo per creare i suoni che stavano prendendo piede, non solo fra i giovani musicisti, ma soprattutto nei gusti del pubblico. L’11 maggio del 1966 esce il debutto omonimo degli Small Faces su Decca, altra band Mod per antonomasia. Del gruppo fa parte Steve Marriott, che più avanti fonderà i grandi Humble Pie insieme a Peter Frampton. Il 9 dicembre 1966 su etichetta Polydor arriva Fresh Cream, il primo album dei Cream, praticamente il primo “supergruppo” del rock ed anche uno dei più formidabili power trio di sempre, alla chitarra ritroviamo Eric “Slow Hand” Clapton, al basso c’è l’ottimo Jack Bruce e alla batteria c’è l’eccezionale Ginger Baker.
Anche i Beatles, con qualche anno di ritardo, danno il loro bravo contributo al nuovo genere con l’asprezza sorprendente di “Helter Skelter” del famigerato White Album, pubblicato il 22 novembre del 1968 su Apple. Paul era rimasto molto impressionato dall’ascolto di I Can See For Miles degli Who, pubblicata l’anno prima, così volle sperimentare a sua volta l’energia di quel nuovo sound definito come “ un concentrato di suoni caotici”. Altri nomi di spicco sono quelli dei Them di Van Morrison e, in modo minore (per l’hard rock), i melodici ma essenziali Procol Harum. Poi come dimenticare i Frost, ma durarono troppo poco.

Il blues “sporco” diventava rock blues e i giovani musicisti dell’epoca compongono brani retti su riff di organo o di chitarra ripetuti ossessivamente. La scena del cosiddetto “blues bianco” o “british blues” capitanata da John Mayall cresce a dismisura sull’impulso di formazioni come gli Animals di Eric Burdon, dei Ten Years After di Alvin Lee, dei Taste di Rory Gallagher, e ancora i Fleetwood Mac di Peter Green, i Flamin’ Groovies, i Savoy Brown, i Groundhogs, mentre sull’altra sponda dell’oceano Atlantico si risponde al fuoco con i fratelli Johnny ed Edgar Winter in compagnia di Rick Derringer, i Mountain del mastodontico Leslie West (detti anche i Cream Americani), poi ancora Allman Brothers Band, Randy Holden, gli Zephyr di Tommy Bolin (il grande chitarrista di origini pellerossa, che per primo ha avuto l’onere di sostituire Ritchie Blackmore nei Deep Purple).
Con la British Invasion la vecchia Gran Bretagna sembra battere ai punti i giovani States, in una rincorsa appassionante, perché negli USA non mancano gruppi epocali come i Creedence Clearwater Revival, di John Fogherty, che canta con una ruvidezza inedita, come gli Iron Butterfly, che con il disco d’esordio “Heavy” (nome profetico) pubblicato dalla Atco nel 1968 e ancor più con i diciassette minuti di “In A Gadda Da Vida”, title track del disco successivo uscito lo stesso anno, dettano i canoni della nuova strada da intraprendere. A San Francisco troviamo i vulcanici Blue Cheer che propongono un suono sporco e grezzo, prodotto dalla chitarra, torturata a tutto volume da Leigh Stephens. Il trio in questione nel 1967 fa dell’eccesso uno stile di vita, dando al rock un significativo cambiamento, mentre il disco d’esordio Vicebus Eruptum è una vera scossa tellurica, tra l’altro presenta una versione irresistibile del classico Summertime Blues. A New York ci sono i Velvet Underground di Lou Reed e John Cale, band molto sperimentale ed intellettuale, considerata proto punk per eccellenza. Il loro secondo album White Light White Heat, edito il 30 gennaio 1968 su Verve Records e realizzato in collaborazione col geniale Andy Warhol, è un capolavoro assoluto del rock, da notare in particolare la forza della loro immagine, siamo in pieno flower power, una grande esplosione di colori e loro si presentavano vestiti di nero in aperta controtendenza. Dal Canada arrivano i selvaggi Steppenwolf del tedesco John Kay, poi trasferitisi sulla sponda orientale degli States a San Francisco. Sono stati una delle band più influenti e alcuni loro brani sono dei veri classici. Da ricordare in particolare che nella loro canzone “Born To Be Wild” del loro terzo singolo del 1968 esce il neologismo “Heavy Metal”, che in precedenza era apparso nel racconto Soft Machine del 1962 di W.S. Burroughs e poi ancora nel 1964 in Nova Express, ma di questo parliamo più avanti. Inoltre negli USA ci sono degli importanti gruppi di rottura come gli MC5 e gli Stooges di Iggy Pop. I suoni sono durissimi, molto acidi, si parla anche in questo caso di proto punk e almeno il primo album Kick Out the Jams degli MC5 è un vero manifesto politico, un impegno che scomparirà con disco seguente e che porterà la band ad un prematuro scioglimento, nonostante il grande successo iniziale. Poi ci sono i Mountain, la band del possente chitarrista Leslie West, di vita breve (anche se si sono più volte riformati), ma che hanno prodotto una serie di veri gioielli sonori, erano chiamati i Cream americani per l’amicizia con Jack Bruce. Non a caso, dopo lo scioglimento West formerà, assieme agli amici Corky Laing e Jack Bruce, un’altra delle icone dell’hard rock: i West, Bruce & Laing. Sempre a New York troviamo i Vanilla Fudge, che nel ’66 rileggono in chiave nuova grandi successi di altre band come i Beatles, ma il boom arriva con la pubblicazione in chiave hard rock di You Keep Me Hangin’ On delle Supremes.
Ma tutto prende una violenta accelerazione quando il 16 dicembre del 1966 esce il singolo Hey Joe della The Jimi Hendrix Experience capitanata appunto da tale Jimi Hendrix, il guitar hero per eccellenza. Il 12 maggio del 1967 esce l’album Are You Experienced, si tratta di uno dei dischi più importanti e influenti del rock. Hendrix è uno dei rari musicisti di colore a suonare rock, ed è considerato come il padre putativo dell’hard rock. È bene chiarire che l’hard rock non nasce (solo) con lui, ma dall’indimenticabile chitarrista afroamericano si eredita l’approccio tutto nuovo allo strumento, tanto che girano varie leggende sui commenti dei grandi guitar heroes dell’epoca, che restavano ammutoliti davanti alle performance di questo introverso ragazzo di colore, che sul palco arriverà addirittura ad incendiare letteralmente la sua sei corde in un suggestivo rito sacrificale. Questo indimenticabile figlio dei fiori stabilisce un rapporto fisico con la sua chitarra, la distorsione viene portata all’estremo, l’uso violento che egli propone mette in luce un nuovo modo di concepire il rock ed il blues. Proprio il lamento metallico, quasi raccapricciante, che si produce durante la distruzione, può essere considerato come il primo vero vagito dell’hard rock. Purtroppo la carriera folgorante di Jimi, il genio della chitarra, si spegne prematuramente e molto misteriosamente. La causa ufficiale è l’abuso di quelle maledette sostanze che tante vittime hanno fatto nel mondo del rock. Ci sono anche ipotesi controverse e comunque la sua morte rimane un vero mistero. Sull’esempio di Jimi i chitarristi Jeff Beck, Eric Clapton, Alvin Lee, Jimmy Page, Ritchie Blackmore iniziano a lavorare su nuovi suoni. L’organo hammond, tanto caro e indispensabile negli anni ’60, pian piano cede il passo alla chitarra Fender e il chitarrista diventa la figura simbolo e vero leader del gruppo.

 Se questa è l’evoluzione dei “grandi” gruppi, non dobbiamo dimenticare l’importante contributo dei cosiddetti “minori”. Allora via al garage rock coi seminali Music Machine (anche loro vestono di nero), il cui unico disco Turn On the Music Machine del ’66 è un vero must. I riff sono per lo più sostenuti dall’hammond, ma sono secchi e ossessivi, tanto che potremmo parlare di proto hard rock, bellissima la loro versione di Hey Joe. Poi ancora come non ricordare gli Shadows of Knight, i Misunderstood, i Litter, gli SRC, gli Zior e una miriade di altri gruppi oggi dimenticati da molti, ma autori di dischi veramente belli. Tutte queste band iniziano a sperimentare e definire la distorsione del suono, dando un contributo molto importante. Una band sperimentale che ha avuto un forte impatto sono stati i Love di Arthur Lee, uno dei chitarristi più innovativi dell’epoca. Nel loro disco di esordio omonimo, datato ’66 compare un’altra splendida versione di Hey Joe. Anche loro in bilico tra garage e psichedelia acida, con un sound tagliente e molto duro. Altra band molto importante sono stati gli Argent di Rod Argent (ex Zombies) e dell’hit maker per antonomasia Russ Ballard (cercate il suo disco Barnett Dogs, hard rock di gran classe), le loro linee armoniche saranno la base di molte formazioni, in particolare avranno un notevole influsso sul pomp.
Sempre fra i “minori” si possono annoverare talenti notevoli, a cui poi il tempo ha reso un po’ di giustizia. Sul fronte inglese troviamo per esempio formazioni come gli Andromeda del chitarrista cantante John DuCann, il quale dopo il disco omonimo “Andromeda” (RCA-1969), andrà a militare nelle file dei più considerati Atomic Rooster e poi ancora nei durissimi Hard Stuff. Nel disco si possono ascoltare ottime intuizioni, molta chitarra con riff Hendrixiani e della psichedelia. In definitiva un lavoro di hard prog. Un discorso analogo si potrebbe affrontare anche con il leggendario gruppo High Tide, proveniente si dal progressive rock a tinte dark, ma in possesso di una durezza sonora davvero sconcertante, ottenuta tra l’altro con un uso rivoluzionario del violino. E’ proprio lo strumento di Simon House a tessere melodie oscure, mentre la pesantezza viene relegata alla chitarra elettrica di Tony Hill, che già aveva dato dei segnali importanti coi precedenti Misunderstood. I due dischi prodotti, “Sea Shanties” (Liberty-1969) e “High Tide” (Liberty-1970), sono dei veri capolavori, gli altri titoli disponibili sul mercato sono tutti postumi. Mentre negli USA fra i “minori” troviamo gruppi eccezionali come i Dust e i Bang, autori di vere gemme anche se commercialmente sfortunate.

Tornando ai nomi più noti, una menzione a parte merita uno dei chitarristi più influenti di sempre: Jeff Beck degli Yardbirds, che rifiuterà qualsiasi compromesso commerciale (clamoroso il suo rifiuto di entrare nei Rolling Stones) per portare avanti le sue idee, con una carriera solista irreprensibile, anche se non sempre ricca di soddisfazioni economiche. Insieme al grande Rod Steward e successivamente con la band Beck, Bogert and Appice, scriverà delle pagine veramente indimenticabili. Negli States, invece, è stato un chitarrista molto influente Rick Derringer, che aveva fatto fortuna al fianco dei fratelli John ed Edgar Winter, ma anche da solista ha creato veri gioielli, spesso venati di hard blues.

Altro elemento di spicco, come abbiamo detto, sono stati i cantanti, che hanno fatto la fortuna di molte formazioni. Cosa sarebbero stati i Deep Purple senza Ian Gillan, i Led Zeppelin senza Robert Plant o i Queen senza Freddy Mercury? Uno dei primi singer con la voce perfetta per il genere che stava nascendo è stato John Fogerty dei Creedence Clearwater Revival. La sua voce roca e graffiante prendeva nettamente le distanze dai cantanti rock pop dell’epoca. Poi c’è stata la personalità di artisti come Iggy Pop e Alice Cooper, ma queste considerazioni ci porterebbero troppo lontano. Comunque vogliamo citare un altro singer fondamentale Bob Seger, la cui voce roca sarà un punto di riferimento per Bruce Springsteen. Seger si approssima stilisticamente a gruppi come Grand Funk Railroad, pur senza eccessivi riconoscimenti di vendite. Solo verso la metà degli anni ’70 raggiunge a pieno la maturità artistica ed il giusto successo commerciale.

Altro genere musicale fondamentale, a cui abbiamo accennato, è stata la psichedelia, che ha avuto un’influenza meno diretta del beat e del garage, a livello di impatto sonoro, ma la sua importanza si è espressa a livello compositivo ed esecutivo. Le lunghe jam session improvvisate di Deep Purple e Led Zeppelin probabilmente non ci sarebbero state senza le intuizioni di Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service, Spirit e del visionario Syd Barrett dei Pink Floyd. In questo mondo di eccessi non vengono meno le droghe, ereditate proprio dai movimenti psichedelici del periodo. L’abbondante uso di LSD fu spesso il pretesto per la composizione di brani stralunati, ma quello che era sembrato un paradiso artificiale si dimostrò presto un vero inferno con l’arrivo dei primi decessi illustri. La deriva autodistruttiva prese inizio al maledetto concerto di Altamont del 1969 dove venne ucciso Meredith Hunter per mano di un membro del personale della sicurezza formato dagli Hells Angels. I sogni di pace e amore si spengono bruscamente e finisce un’epoca.


ATTO TERZO: IL MOVIMENTO DILAGA

C’è voglia di superare ogni limite e fra coloro che amano gli eccessi ci sono gli inglesi Humble Pie, che prendono in consegna le sonorità anni ’60 e le trasformano per i ’70. Persino l’atteggiamento rissoso di quel periodo da parte dei giovani viene fuso nel suono della band. La personalità è ovviamente forte, così come la voce calda di Marriott e l’oscura chitarra di Peter Frampton. Saranno “Only A Roach’ Earth And Water” e “The Light” tratti dall’ottimo “Humble Pie” (A&M-1970) a dettare loro la strada dell’hard rock.

Verso la fine degli anni ’60 questo movimento sonoro innovativamente violento inizia a spargersi a macchia d’olio, accorrono anche tipi poco raccomandabili, come il “signore delle tenebre” Ozzy Osbourne. I suoi Black Sabbath hanno un suono mai sentito fino ad ora e questo per merito della chitarra pesantissima di Tony Iommi, una John Diggins JD. La tecnica limitata della band fa si che tutto si basi su riff semplici, granitici e ripetitivi. Il tocco di Iommy è unico a causa della mancanza di alcune falangi della mano perse in un incidente, mentre la voce di Ozzy è sgraziata ma terribilmente suggestiva. Mai prima di allora c’era stato un tale connubio fra tematiche oscure e suoni sepolcrali, il movimento del dark rock è nato alcuni anni prima del debutto dei Black Sabbath, ma la forza evocativa del sound di questa band ha fatto breccia nel pubblico, divulgando contenuti altrimenti poco accettati. Curioso il fatto che la band abbia scelto di munirsi di enormi crocefissi per difendersi in qualche modo dalle energie negative che avevano evocato.

Nello stesso periodo dilaga anche un altro genere musicale diventato col tempo sempre più importante, il colto rock progressivo di Genesis, King Crimson, Van Der Graaf Generator, Jethro Tull, Yes e Pink Floyd. Molti di questi gruppi hanno sperimentato la distorsione, in particolare i King Crimson, che hanno prodotto alcuni degli album più duri del prog. Anche i Jethro Tull del menestrello Ian Anderson sperimenteranno suoni molto duri, si pensi ad Acqualung. Comunque per lo più il progressive si è distinto per eleganza, con magnificenti spettacoli dal vivo, molto colorati ed interpretativi. Diametralmente opposti i concerti dell’hard rock, scarni di scenari e focalizzati principalmente sul carisma del chitarrista o del cantante. Di questi il più sensuale ed ammaliante è sicuramente Robert Plant, leader dei famigerati Led Zeppelin, per meglio dire la storia dell’hard rock. Cosa aggiungere su questa band che non sia stato già detto? Credo più nulla, se non forse sottolineare il modo violento ed inusuale per i tempi, con cui John Bonham percuote la batteria. Il duo Plant-Page ha un’intesa inverosimile e le loro composizioni sono a dir poco variegate, a volte molto blues, melodiche e sensuali per poi lasciarsi andare quasi all’improvviso in cavalcate hard di rara potenza.

Ma il guitar hero per eccellenza del tempo porta il nome dell’americano Ted Nugent. Proveniente dagli Amboy Dukes si produce in assoli elettrici a dir poco tirati, tutti dotati di stupefacente energia. Diventa personaggio influente e questo lo riscontriamo ad esempio in gruppi come il trio Highway Robbery. Michael Stevens è il chitarrista e compositore dei pezzi, tutti potenti e ruvidi, un hard rock a tratti feroce per questo periodo. Anche grazie a lui il genere prende una determinata fisionomia. Rimanendo in tema di chitarristi d.o.c. arriviamo inevitabilmente a Ritchie Blackmore. La tecnica dimostrata è sopraffina, la sua band proveniente nientemeno che dal prog e ha lo storico nome di Deep Purple. Il suono propostoci è particolare, molto barocco e neoclassico, grazie anche all’apporto dell’Hammond di John Lord, ma sono le tre scarne note di “Smoke On The Water” (1972), ad essere la vera icona dell’intero movimento, tre sole note molto facili da strimpellare e che si stampano subito in testa dopo un solo ascolto. Rock duro e tecnica eccellente sono dunque l’arma vincente di questa band, ma c’è anche un cantante dalla voce incredibile dal nome Ian Gillan. I Deep Purple sono una delle poche band ad essere sopravvissute fino ai giorni nostri, anche se la formazione è stata continuamente rimaneggiata, con una discografia molto dignitosa. Nei Purple ha militato per un certo tempo come bassista il grande Glenn Hughes, che merita una menzione. Il nostro in realtà è un cantate eccezionale, ribattezzato “the Voice of Rock”. Aveva tentato fortuna coi Trapeze, insieme a Mel Galley e Dave Holland, una band che aveva fuso il funky all’hard rock. Hughes poi ha dato vita ad una lunga carriera solista che arriva sino ai giorni nostri, costellata di ottimi dischi. Da ricordare anche la sua collaborazione coi Black Sabbath per Seventh Star e sfociata poi sui bellissimi album a nome Iommi.     
A proposito dei grandi non possiamo non ricordare la band di Freddie Mercury, i pomposi Queen. I primi dischi da loro prodotti sono assolutamente hard rock e della miglior pasta, poi sappiamo tutti il percorso che il quartetto ha intrapreso in seguito, con successi planetari annessi, ma sempre meno hard rock. A questo punto la storia scorre velocemente, come avrete capito è davvero difficile fare una cronologia perfetta. I semi cominciano a dare i frutti, ecco allora spuntare dappertutto band di inestimabile valore, come Uriah Heep, Atomic Rooster, Blue Öyster Cult, ZZ Top, solo per fare qualche nome.

Gli Uriah Heep sono una band inglese che ha avuto un successo planetario, raggiungendo perfino la Russia e hanno venduto nella carriera più di 40 milioni di album. I primi passi vengono fatti dal chitarrista Mick Box e dal cantante David Byron nel 1966 sotto il logo Spice. Nel 1970 la line up si stabilizza temporaneamente con Paul Newton (basso), Alex Napier (batteria) e Ken Hensley (tastiere). Il disco d’esordio del Giugno 1970 “Very ‘eavy, Very ‘Umble” (Vertigo-1970) viene accolto malamente dalla critica, a dir poco viene stroncato, ma il pubblico riserva loro ben altre soddisfazioni. Gli album a seguire tratteranno di argomentazioni legate alla mitologia ed il 1972 sarà senza dubbio il loro anno più prolifico a livello d’ispirazione.

Una delle formazioni più influenti e meno ricordate sono stati i gallesi Budgie, autori di un hard rock selvaggio, hanno dettato gli stilemi ripresi anni più tardi dagli alfieri della NWOBHM. Ascoltate la canzone "Breadfan", il ritmo veloce accompagnato da un heavy blues trascinante è stato di ispirazione per molte band fra cui Iron Maiden, Judas Priest e Metallica, che ne hanno fatto una cover. Tra l’altro pare siano stati il primo gruppo hard rock occidentale a suonare oltre la cortina di ferro.

Facciamo ora un piccolo passo indietro per occuparci nuovamente di sonorità sulfuree. Non solo Black Sabbath nell’hard rock, ci sono in giro anche altri personaggi “particolari”, fra i quali spicca il nome di Alice Cooper. Questo prende il nome da una strega realmente esistita e bruciata viva a Salem dai puritani. Gli spettacoli dal vivo proposti hanno fatto storia. Sangue, situazioni crude e violente, serpenti e suore nude, fanno parte del baraccone. Ma quello che Alice crea è il face-paint, il viso pitturato di bianco con occhi neri disegnati, una rivoluzione che apre una nuova serie di proseliti. Da notare che tra i primissimi gruppi (forse il primo in assoluto) ad usare il trucco facciale figurano gli italianissimi Osanna, seguiti poi dai Genesis di Peter Gabriel. Successivamente saranno moltissimi altri artisti che svilupperanno questa idea, come i Kiss, fino a giungere ai giorni nostri con miriadi di gruppi black metal.
Proprio i Kiss agli inizi degli anni ’70 giocano con il trucco ed inventano personaggi. Paul Stanley è l’uomo sexy, Gene Simmons il vampiro, Ace Frehley l’uomo venuto dallo spazio e Peter Criss l’uomo gatto. Fuochi pirotecnici, pedane che si alzano, ancora sangue e luci, tante luci fanno degli spettacoli dei Kiss un appuntamento veramente unico ed indimenticabile. Come per Alice Cooper, uno dei pochi casi in cui l’hard rock si arricchisce con l’immagine.

In Inghilterra comunque troviamo il duca bianco, David Bowie, insieme a Marc Bolan dei T-Rex (in precedenza Tyrannosaurus Rex) che puntano molto sull’immagine, il primo poi con i suoi Spiders From Mars, sarà uno dei musicisti più influenti di tutta la scena inglese. Con loro nasce il glam, movimento molto romantico, ma anche pieno zeppo di eccessi. Purtroppo per Marc questi saranno fatali: morirà nel ’77 a causa di un incidente stradale.

Ma non solo America ed Inghilterra, infatti il genere prende campo anche in altri luoghi fra cui la lontana Australia. I fratelli Malcom ed Angus Young propinano uno spettacolo diametralmente opposto a quello milionario dei Kiss, Bon Scott è un buon animale da palco, ma è il chitarrista indiavolato Angus Young a catalizzare l’attenzione sugli AC/DC. Niente scene incredibili, solo tanto sudore e Angus vestito da scolaretto che scorrazza per il palco dimenando continuamente il capo (come diamine farà?). I riff sono vincenti, la formula è scarna ed essenziale, grezza al punto giusto con tanto di ritornelli da cantare assieme a squarciagola durante i concerti. Tuttavia è ancora la droga a mietere l’ennesima illustre vittima e Scott se ne va. Gli AC/DC proseguono il cammino inesorabilmente fino ai giorni nostri con la consueta grinta, senza cambiare una virgola al sound e con Brian Johnson al microfono.

L’hard rock prosegue la propria evoluzione con naturalezza, con gruppi che sapranno unire melodie incredibili a riff taglienti come gli UFO, di Phil Mogg, Pete Way e Michael Schenker. La voce di Phil è fra le migliori in circolazione (ancora oggi è calda è potente come se il tempo non fosse passato), mentre il lunatico Schenker è sicuramente uno dei migliori chitarristi che il panorama ci propone. Cosa dire poi degli Aerosmith? Considerati da molti la più grande band di rock’ n’ roll del mondo, nei seventies sono distanti da come li conosciamo oggi. Più sporchi, rozzi, cattivi e drogati, rientrano a pieno merito nel vocabolario dell’hard rock. L’esordio discografico del 1973 è limitato dall’inesperienza, ma lascia intuire le potenzialità del quintetto capitanato dal carismatico Steven Tyler. Sono il perfetto esempio di rock di successo: soldi, donne, droga ed alcol, uno stile di vita assolutamente insostenibile, ma dannatamente hard rock.

Qualche volta a dominare la scena non è stato un chitarrista ma un bassista, come nel caso dell’irlandese (mi piace che non si parli solo di inglesi) Phil Lynott. La sua carriera è stata contrassegnata dall’amicizia con Gary Moore, si conosceranno negli storici Skid Row (ovviamente non quelli di fine anni ’80 capitanati dal bellone Sebastian Bach). Poi Phil darà vita ai Thin Lizzy, una band epocale. Il dominio di Lynott all’interno della band porta a diversi screzi, per cui i membri vicino a lui si allontanano per altre strade, intercalandosi con nuovi, forse proprio per questo motivo che i Thin Lizzy non riescono a sfondare sul mercato come avrebbero meritato. Molte band a venire li hanno citati come importante influenza. Sono Irlandesi, con la passione per il folk celtico, che andrà ad influenzare i primi lavori, a partire dal 1970. La lunga carriera giunge fino al 1984 ed è ricca di buoni frutti. Purtroppo nel Natale del 1985, Lynott collassa per poi spegnersi definitivamente il quattro gennaio del 1986, un’altra vittima dell’eroina. I Thin Lizzy sono stati un vero e proprio contenitore di grandi artisti. Ecco alcuni nomi: Midge Ure (futuro Ultravox), Brian Downey (grande batterista), Scott Gorham, Eric Bell, il già citato Gary Moore e Brian Robertson. Sempre dalla romantica “isola verde” arrivano gli Horlips, un gruppo poco conosciuto ma che ha scritto pagine di musica sublimi rileggendo i classici folk in chiave hard rock.
Tornando in Inghilterra troviamo una band che fa uso abbondante di chitarre elettriche in chiave boogie e rock ’n’ roll e che porta il neonato hard rock nelle classifiche alte: gli Status Quo. La carriera artistica è pressoché paragonabile a quella degli AC/DC, non si muovono di una virgola dal proprio sound e dai loro immancabili jeans. Dice il chitarrista Rick Parfitt del loro stile: “…Forse sono le nostre due chitarre che suonano all’unisono a tirare fuori questo sound unico che abbiamo. Molti hanno tentato di imitarci, ma se non vanno perfettamente insieme, il risultato non si raggiunge”. Anche i Wishbone Ash usano due chitarre che suonano all’unisono, creando un sound magico in un contesto più vicino al prog.
Tornando negli USA troviamo i Grand Funk Railroad (anche loro dell’area di Detroit). È una delle band più rumorose dei primi anni ’70. Il trio dà il meglio di sé durante i concerti. Notati nientemeno che da Paul Mc Cartney, vengono messi sotto contratto dalla Capitol. Tuttavia il loro sound troppo “Heavy” viene messo al bando anche dalle radio. Malgrado tutto le vendite non mancano. Una curiosità, Mark Farner viene classificato dal pubblico come il chitarrista con i capelli più lunghi del rock. Poi ci sono i James Gang di Joe Walsh, una formazione baciata dalla fortuna commerciale, anche se sono da ricordare solo i dischi del primo periodo. Da questa formazione è uscito il leggendario Tommy Bolin (ex Zephir) che rimpiazzerà Blackmore nei Deep Purple. Altra band di discreta popolarità sono stati i Bloodrock, nati nei primi anni sessanta con diverso nome, pubblicano l’album omonimo di debutto nel 1970. L’immagine era più forte della musica proposta, un heavy blues molto psichedelico.
A metà anni ’70 i gruppi hard rock americani tendono però a spostarsi verso sonorità più melodiche, che strizzano l’occhio alla classifica. In realtà si tratta di prodotti di tutto rispetto, fatti con grande cura, ma che si allontanano dai percorsi tracciati fin qui in questo articolo. Boston, Foreigner, Toto, Journey, Balance sono alcuni nomi fra i primi che mi vengono in mente. La cosa ha avuto anche un eco nella vecchia Inghilterra e i The Babys del talentuoso cantante John Waite ne sono l’esempio più importante. Poi una band fuori dagli schemi, ma che merita una menzione speciale ci sono i Cheap Trick, col loro show multicolore, che in un contesto qualitativamente alto proponeva le versioni parodistiche dei cliché tipici del macismo hard rock.
E le donne sono state a guardare? In un contesto talvolta rozzo, macho e sporco, dove le donne erano viste più nel ruolo di groupie, è evidente che spazio sul palco ce n’è stato poco, non tanto per l’impedimento dei maschi ai quali, anzi non sarebbe certo dispiaciuta più presenza, quanto per una scelta di fondo che vedeva nel maschio l’alfiere perfetto del rock. Qualcuna comunque ci ha provato e con ottimi risultati. Ricordiamo la prima band tutta al femminile: le Fanny, attive fin dal 1970, e con uguale piacere Suzy Quatro con l’esplosivo lp “Quatro” (Bell-1974). Meritano una menzione anche Bonny Tyler ed Ellen Foley, passate da coriste a lead singer. Poi come dimenticare gli Heart delle sorelle Wilson. Ma anche la poetessa Patty Smith, che poteva essere la lead singer dei Blue Öyster Cult, tra l’altro compare come ospite nell’album Agent of Fortune del ’76. La Smith, pur non essendo proprio hard rock, comunque ha avuto la sua influenza. Buone anche le carriere di Pat Benatar, Lita Ford e Joan Jett, queste ultime due provenienti dalle The Runaways e quella più bizzarra dell’ex pornostar Wendy O’ Williams, amica di Lemmy Kilmister dei Motorhead, oggi purtroppo non più con noi. Poi una leggenda narra che la patinata Diana Ross volesse fare dell’hard rock, ma che le fosse stato vietato dalla casa discografica.


 Un altro importante tassello viene posto dai Free di Paul Rodgers (che sappiamo aver preso per un periodo il posto del compianto Mercury nei Queen). L’hard blues proposto è importante, “All Right Now” ha un riff che ha molto contribuito all’evolversi del movimento ed è stato ripreso e rimodellato da molte formazioni, qui ancora praticamente agli albori. Rodgers verso la metà degli anni ’70 abbandonerà i Free per dar vita ad un nuovo e fortunato progetto boogie rock dal nome Bad Company. L’hard rock è della miglior specie, eccellente nelle ballate, dove la voce di Paul diventa interprete stupenda. Il merito di queste sonorità vanno attribuite anche al chitarrista Mick Ralphs (ex Mott The Hoople).
Gli Atomic Rooster meritano uno spazio tutto loro, sono sempre stati sottovalutati dal grande pubblico, ma i dischi sono di una bellezza eccezionale ancora attuale. Il loro dark sound farà scuola e ancora oggi si trovano molti giovani artisti che si ispirano a loro.
Dall’altra sponda dell’Atlantico rispondono i grandiosi Blue Öyster Cult. Se il termine “Heavy Metal” esce dalla canzone degli Steppenwolf, è proprio con i BÖC che viene associato alla musica per la prima volta (qualcuno dice che in precedenza fosse stato usato dalla famosa rivista Creem associato ad una recensione dei Sir Lord Baltimore, anche se come “heavy music”), comunque il neologismo appare ancora prima negli scritti di Burroughs, un autore fondamentale per tutta la beat generation. I primi tre album del gruppo newyorkese sono delle pietre miliari che non dovrebbero mancare nella discografia di ogni buon rocker. I cinque hanno dato vita ad un sound oscuro e unico, con testi finalmente intelligenti e “diversi” dai soliti cliché, si parla di fantascienza, di storie limite e di poesie urbane. Come abbiamo accennato, si mormora che il cantante del gruppo dovesse essere la poetessa Patty Smith e forse questo avrebbe cambiato parte della storia del rock, fatto sta che i BÖC sono entrati nella storia anche se forse avrebbero meritato una risonanza maggiore. E ancora vanno ricordati i Foghat, accostabili ai James Gang, ma più seminali e potenti.
Proseguendo negli anni, verso la metà dei ’70 troviamo il nostro hard rock più in forma che mai, grazie soprattutto al sorgere vertiginoso di nuove formazioni, tutte desiderose di distinguersi dalla massa. Una delle band americane che hanno aperto nuove soluzioni sono gli Angel, non tanto per le vendite, quanto per l’influenza stilistica. Gli angeli del maestro Greg Giuffria si presentano vestiti di bianco con tanto di strumentazione in bianco e vengono notati da Gene Simmons, che li segnala immediatamente all’etichetta Casablanca. Con loro l’hard rock è ai confini con il pomp rock, di qui l’importanza storica.

Anche il Canada dà il proprio apporto alla causa. Nel tempo ascolteremo artisti importanti come Guess Who, Bachman Turner Overdrive, ovviamente i progressivi Rush che meriterebbero un maggior approfondimento, in fondo però solo il loro primo album è da considerarsi hard rock, e ancora Saga, Prism, Moxy, Max Webster, Triumph, ma verso la metà degli anni ’70 c’è un chitarrista dal nome Frank Marino che ha grandi cose da raccontare. Il rock suonato è totale, in esso aleggia hard blues, psichedelia e qualcosa di Hendrix, suo vero ispiratore. La Gibson improvvisa storie che consiglio di andare a rispolverare, a partire dal disco d’esordio “Maxoom” (Kot’Ai-1973).

Più legati al classico blues in America troviamo il power trio degli ZZ Top, famosi per le lunghissime barbe, il loro hard rock è essenziale e diretto, ma il grande successo arriverà solo negli anni ’80. Comunque sono fra i fondatori della componente hard del southern rock (conosciuto anche come rock sudista). Nello stesso periodo troviamo i meno fortunati Black Oak Arkansas, che con i tre chitarristi ed una vita on the road alquanto movimentata, hanno dato il loro bravo contributo. L’atteggiamento “glam” e catalizzatore del cantante Jim Dandy è precursore di atteggiamenti provocatori da “animale da palco”, successivamente ripreso anche dal grande David Lee Roth dei Van Halen e da migliaia di altri futuri singers.
Non da poco il fatto che i Black Oak Arkansas sono stati anche gruppo di riferimento per i più fortunati Lynyrd Skynyrd. Il southern rock che suonano ci porta a conoscenza di una band dal passato rissoso, la posizione conservatrice del gruppo non è tanto politica, quanto social-popolare. Tacciati di razzismo, suonano un rock duro e diretto che va a pescare nel blues e nel country. Sicuramente precursori nell’uso di due o tre chitarre, in seguito emulato da numerose altre band.

Anticipatori del suono stelle e strisce, poi tanto caro ai Van Halen , sono i Montrose del guitar hero Ronnie Montrose e del cantante Sammy Hagar (guarda caso futuro Van Halen). Il loro brano “I’ve Got the Fire” qualche anno dopo sarà una delle prime di una lunga serie di incendiarie cover proposte dagli Iron Maiden. A ben guardare il sound dei Montrose era già puro heavy metal.

EPILOGO E NUOVA VITA

A questo punto della storia, verso la fine degli anni ’70, succede un passaggio importante. Parallelo al movimento hard rock e talvolta con diversi punti di congiunzione, si è sviluppato il movimento progressive o rock romantico, come qualcuno lo chiamava in origine. Questi due grandi contenitori sonori arrivano alla fine del decennio spompati e privi di sbocchi, con le grandi band che venivano definite ironicamente “dinosauri” del rock. C’era bisogno di qualcosa di nuovo perché il pubblico era stanco di lunghe jam sessions e di suite auto celebrative, la musica stava diventando o cervellotica o ripetitiva, o autoreferenziale, con le case discografiche che spingevano i gruppi per produrre hit da vendere velocemente. Così è arrivato l’esatto contrario di tutto quello che c’era allora: il punk.
Ancora più sporco e grezzo dell’hard rock, ancora più essenziale e diretto, con Sex Pistols, Damned, Still Fingers e Clash, il punk, vero terremoto, apre nuove possibilità artistiche. Da un lato l’hard rock si fonde col punk per dare vita alla new wave of british heavy metal. Da un altro lato alcune formazioni mantengono la presa con nuove band, sempre più tecniche e carismatiche, la lezione dei maestri passati viene perfettamente assimilata. Ecco nascere formazioni che hanno fatto ancora la storia, come ad esempio i Rainbow, una delle più famose “superband” di hard rock, fondati da Ritchie Blackmore a seguito dell’uscita dai Deep Purple, nella cui line-up vediamo alternarsi artisti stratosferici come Joe Lynn Turner, Roger Glover, Graham Bonnet, Cozy Powell, Don Airey, e in particolare un cantante dalla voce memorabile come Ronnie James Dio, che proveniva da una semisconosciuta band di hard blues dal nome Elf. Come non citare la famosa e bella canzone “I Surrender” affidata proprio alla potente ugola di J.L. Turner, un must.
Non da meno i Whitesnake dell’incredibile vocalist David Coverdale. La discografia del serpente bianco è ricca di buone realizzazioni. I Judas Priest di Rob Halford si intersecano con sonorità oscure e metalliche, creando un filone che sfocerà nel metallo fuso più pesante, i Saxon di Byff Byford racconteranno di battaglie, i teutonici Scorpions di donne, così l’hard rock si modifica in miriadi di soluzioni, sempre più prossime al nascente heavy metal.

Oggi siamo nel nuovo millennio e con piacere constatiamo lo stato di buona salute del genere, ci sono molte piccole etichette discografiche specificamente dedicate al sound dei seventies. Alla faccia di tutti coloro che hanno sempre denigrato l’hard rock e che gli hanno pronosticato una vita breve. Le formazioni sono tante, troppe da citare, ma soprattutto la lezione impartita dai gruppi di hard rock è riscontrabile in quasi tutti i gruppi a venire. “… Long Live Rock’N Roll” e come disse il sommo poeta per bocca di Virgilio “Non ti curar di loro ma guarda e passa”.


COROLLARIO, GLI ALTRI PAESI

Ogni tanto abbiamo citato anche artisti di altri paesi, ma per chiudere il discorso ci sembrava giusto dire ancora qualche parola. La Germania è l’unico paese che riesce in qualche modo a tenere testa allo strapotere angloamericano, la musica dura ha buoni proseliti, in primis ci sono i già citati Scorpions di Klaus Meine e del talentuoso Uli Jon Roth. Poi fra le band più interessanti vanno menzionati i Birth Control, gli Epitaph, i Jane e i Lucifer’s Friend. Qualche anno dopo arrivano gli Accept di Udo, che porteranno l’hard rock direttamente nell’heavy metal, ma i primi lavori nascono proprio dal nostro genere in questione.

Abbiamo menzionato gli australiani AC/DC dello scatenato scolaretto Angus Young, una vera istituzione per tutto il movimento. Al pari dei grandi nomi citati, gli AC/DC sono stati per intere generazioni il primo gruppo da cui si partiva per avvicinarsi a questo genere. Ma l’Australia ha avuto anche altre stelle, come i Cold Chisum, che però non hanno saputo suscitare la stessa attenzione degli AC/DC.

Non sono mancate formazioni giapponesi, svedesi e di altri paesi, ma come abbiamo detto all’inizio questa non è un’enciclopedia e quindi se siete curiosi possiamo approfondire in futuro.

Infine l’Italia, il nostro paese. Negli anni ’70 ci sono dei complessi che hanno in qualche modo fatto presenza nell’ambito, anche se in realtà il loro posto è più consono nell’hard prog, come per esempio i Biglietto Per L’inferno,i Procession, i New Trolls, il Rovescio della Medaglia, gli Osanna. Proprio il disco “Biglietto Per L’inferno” (Trident-1974) ci mostra una formazione si giovane, ma oltremodo preparata, con testi assolutamente intelligenti ed un cantato (almeno per questa volta) indovinato. Oppure i Trip di Joe Vescovi, con chitarre Hendrix style. Diciamo che in realtà il nostro movimento hard rock vero e proprio comincia verso la fine degli anni ’70 a cavallo con gli ’80, quando all’estero tutto è appianato. Restano comunque da sottolineare band di indubbio valore come i Vanadium di Pino Scotto, o la Strana Officina, ma qui siamo già alle soglie degli anni ’80, agli albori della cosiddetta NWOIHM e anche questa è tutta un’altra storia.

GIANCARLO BOLTHER / MASSIMO SALARI