Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO

Libri ROCK PROGRESSIVO ITALIANO 1980 - 2013 - METAL PROGRESSIVE ITALIANO
La storia dei generi enciclopedica

sabato 24 marzo 2018

Blindcat


BLINDCAT – Shock Wave
Andromeda Relix
Distribuzione: GT Music
Genere: Hard Rock / Heavy Metal
Supporto: Cd – 2018
Certo non si può dire che i Blindcat non hanno fatto sul serio sin dall’inizio della loro fondazione. Hanno avuto immediatamente le idee ben chiare, basti pensare che si sono formati nel 2012 e già nel 2013 hanno aperto il concerto a Glann Hughes e suonato nello stesso anno al “Narni Black Festival” con gli Hearth Wind & Fire come headliner! Ma chi sono i Blindcat e cosa suonano?
Provenienti da Taranto sono Gianbattista Recchia (voce), Domenico Gallo (chitarre), Pietro Laneve (basso) e Emanuele Rizzi (batteria) e propongono un Hard Rock dalle profonde radici, avvinghiate ai famigerati anni ’70. Nel marzo del 2014 pubblicano il loro esordio dal titolo “Black Liquid” e la critica sia italiana che estera sembra apprezzare da subito. Oggi ritornano con “Shock Wave”, dieci nuove canzoni impreziosite dall’esperienza acquisita negli anni.
La registrazione sonora è buona, suoni distinti e ben equilibrati.
“One Life” parte a mille, lasciando importanza alla fase melodica supportata da un cantato graffiante e importante. L’Hard Rock funziona proprio così, riff di facile memorizzazione impreziositi da stile e carica agonistica (se così vogliamo denominarla). Lo sanno i primi Van Halen, per esempio. Le chitarre ricoprono il loro bel ruolo importante, scappando di tanto in tanto in scorribande pirotecniche sulla tastiera. Un roboante giro di basso apre “Laughin Devil”, impossibile resistere al ritmo sferzante che lo sostiene, brano che in sede live sicuramente gode di ottima riuscita. La scena americana è di fronte a noi, ci pensa “Stars And Sunset” a dare un attimo di respiro, ma è appunto un attimo. Un respiro che è ossigenato da un cadenzato lento che si alterna a un solo di chitarra al fulmicotone. Hard Rock di classe. “Until The Light Of The Day’ è fra i miei momenti preferiti, perché in esso c’è la storia del genere e quella solarità tipicamente italiana, probabilmente anche il vero lato dei Blindcat, ma questo lo sanno sicuramente e soltanto loro. Tanta vecchia scuola trasuda fra le note, i Blindcat lo palesano brano dopo brano, “The Black Knight” compresa, altra canzone che ho apprezzato oltremodo. Verso la fine degli anni ’70 i Judas Priest percorrevano questi sentieri. Più ricercata “Nothing Is Forever”. Non manca nell’album neppure il momento strumentale, qui con il titolo “Rising Moon”, vetrina per le doti tecniche della chitarra che fa l’occhiolino ai Queen di Brian May. Ed è la volta di “Shockwave” altro tassello vincente dell’album. Segue “What Is Hell” che nell’arpeggio iniziale mi ricordano i migliori Queensryche.
Il disco si conclude con “Son And Daughter”, una folata di energia pulita.
Il disco si lascia apprezzare anche per l’artwork di Enzo Rizzi, con testi interni e foto annessa della band ad opera di Silvia Danese. Un prodotto sincero che sicuramente non passerà inosservato nel tempo, gli amanti dell’Hard Rock sicuramente lo apprezzeranno oltremodo, agli altri dico loro che questa potrebbe essere una ghiotta occasione per approcciarsi a questo stile sonoro senza tempo. MS

In-Side


IN-SIDE - Out-Side
Andromeda Relix
Distribuzione: GT Music
Genere: AOR / Hard Prog Rock
Supporto: cd – 2017




Esistono suoni e stili che sembrano non avere mai alle spalle il fardello del tempo passato, I cosiddetti stili “sempreverdi”, ben distinguibili e cristallini come ad esempio l’AOR, acronimo di album oriented radio. Avrete intuito che questo è il lato più ruffiano dell’Hard Rock, quello più orecchiabile e di facile memorizzazione, tuttavia l’AOR molto spesso si lascia supportare da infiltrazioni di Progressive Rock che lo impreziosisce e lo rende appetibile ad un pubblico ancora più ampio. Eppure fare questo genere musicale, così semplice da descrivere non lo è per chi lo compone e suona. Servono buone intuizioni melodiche, i brani che accalappiano al volo l’attenzione di chi ascolta (ad averla questa magica formula… Saremmo tutti dei geni milionari), miscelati con una buona dote tecnica strumentale e vocale. Quindi esempi di band sono i Toto, Journey, Alan Parson Project, Gotthard, Asia, Europe, Survivor etc etc..
Lo sanno bene i torinesi In-Side capitanati dal tastierista  e compositore Saal Richmond (Salvatore Giacomoantonio). Richmond si coadiuva di artisti come David Grandieri (tasteiere, cori), Beppe Jago Careddu (voce), Abramo De Cillis  e Cloud Benvenuti (chitarre), PJ Philip (basso, cori) e Marzio Francone (batteria). Francone è anche l’ingegnere del suono. Gli In-Side quindi lo sanno e cercano di riproporre l’AOR nel miglior modo possibile.
Due tastiere perché il genere deve essere pomposo e quindi “pompato”, necessariamente il suono ci deve travolgere ed avvinghiare, anche questo è nel bagaglio culturale di In-Side.
Venendo all’album, “Out-Side” è composto da sette canzoni ad iniziare dal breve intro di ruolo qui con il titolo “The Gate”. “The Signs Of Time” racchiude in se tutto quello che deve esserci nell’AOR, annesso assolo di chitarra che ti spettina. E quindi classe, e questa scaturisce  a seguire in “The Running Man”, oppure nella ampia “Block 4 (The Russian Woodpecker)”, con piccole puntate nel mondo Queensryche di “Rage For Order”. L’ascolto in senso generale trasuda di anni ’80 e chi di questo suono gode, qui ha il suo bel da fare.
Graziosa e delicata “I’M Not A Machine” con una interpretazione vocale sentita e degna della linea melodica. Elettronica apre “Break Down”, canzone più ricercata con puntate nel Prog, bello l’annesso assolo di chitarra. L’album si chiude con una semiballata bellissima dal titolo “Lie To Me”, con coralità e un motivo ficcante diretto al cuore. In senso generale aleggia nelle canzoni tanta sensibilità.
Probabilmente se vogliamo ricercare un difetto a questo album che gradevolmente si lascia ascoltare nella sua interezza, è la mancanza di una vera e propria hit, come le band da me succitate da esempio di AOR invece  hanno saputo scrivere negli anni. Ma ho anche sottolineato che avere questa formula magica non è semplice e neppure da tutti. Mi auguro che il progetto In-Side ricopra al più presto anche questo tassello mancante e allora parleremo di una (l’ennesima) realtà italiana seconda a nessuno, perché noi italiani abbiamo solo il bisogno di credere di più in noi stessi e non di cercare sempre fuori un qualcosa di aleatorio. MS


Nirnaeth


NIRNAETH – The Extinction Generation
Autoproduzione
Distribuzione GT Music/ GDC Rock Promotion
Genere: Thrash Metal
Supporto: cd – 2015




I Nirnaeth sono una band di Thrash Metal proveniente dal Bergamasco che si fonda nel 1990 grazie ad un idea di Marco Lippe (batteria, voce, tastiere) e Marco “Grey” Tombini” (chitarre). Il gruppo dopo cambio di line up si stabilizza con Marco Lippe, Danny Nicoli alla chitarra, Luca Algeri al basso e Elena Lippe alla voce.
Negli anni sono molto attivi nella scena live, aprendo concerti per gruppi Metal importanti come Cradle Of Filth, Strana Officina, Extrema, Skanners e moltissimi altri ancora. Prima della realizzazione dell’esordio autoprodotto targato 1998 dal titolo “The Psychedheavyceltale In 8 Movments”, realizzano anche due demo, “Nirnaeth” del 1992 e successivamente nel 1994 “Blind Hate”.
Oggi tardivamente esce questo secondo album “The Extinction Generation” fermo dal 2015 per i suddetti problemi di line up con quattordici brani così suddivisi, i primi dieci sono il vero album comprendente una cover del famoso brano “Blitzkrieg Bop” dei Ramones e i restanti quattro tratti  dal “Very Best Of The Thrash Years (1990 – 2000) Vol.1 Remastered” come bonus tracks.
L’edizione cartonata che accompagna il supporto ottico è elegante, contenete l’artwork di Italo Ghilardi ed i testi delle canzoni oltre che altre spiegazioni ed approfondimenti sull’origine dei brani.
Sin dall’ascolto del primo brano “We Forget To Think” si evince la provenienza dello stile Nirnaeth, dalle origini passate e lontane come quelle della Bay Area Californiana, uno stile che pur essendo datato è come il Jeans, non passa mai di moda. Exodus, Voivod, Testament ed altri ancora fanno capolino di tanto in tanto, mentre un encomio a parte va alla sezione ritmica che dimostra una assortita intesa oltre che una buona tecnica individuale. Quando in un gruppo la batteria ed il basso viaggiano bene all’unisono, la riuscita è garantita. Ci sono anche brani di media lunga durata come i sette minuti e mezzo di “Moby Dick”, questa cantata in italiano. Ottima l’interpretazione che confina il canto con il narrato. Gli assolo di chitarra spezzano l’ascolto rendendo il tutto più fruibile ed il vento sembra schizzarci l’acqua in faccia, mentre Moby Dick viene cacciato. Il ritmo sale con la title track “The Extinction Generation”, un galoppo nell’Hard Rock/Metal come certi Saxon di primo pelo hanno insegnato. Susseguono rasoiate in “Blind Hate”, più cadenzata e sporca. Alquanto gradevole la cover dei Ramones, cantata a più voci assieme ad Elena. Ma non ci sono soste, il  disco si scaglia nella nostra mente come un incudine che si lascia battere il ferro, “The Fatal Blame” è addirittura vicina a certi Iron Maiden. Cadenza e granito con “A Better Revolution” mentre “Mors Tua Vita Mea” è il sunto dello stile Nirnaeth. Altro esempio di ritmica a doppio pedale che trascina il brano lo si ricava dall’ascolto di “The Human Bankrupt”. A chiudere il disco ufficiale c’è “The Root Of Evil”, anche qui i Nirnaeth dimostrano di avere nel dna la storia del Thrash.
Nella parte “Very Best” apre la breve “Ten Years After” con un loop tastieristico d’atmosfera, fatto di eco e sgocciolamenti di note. A seguire “Fatal Blame” tratta dal primo demo del 1992, così “The Root Of Evil”. Il cd si conclude con “Epitaph”,canzone tratta dalla compilation “Il Cielo Visto Dalla Luna” realizzata nel 1992.
I Nirnaeth sono una parte della storia italiana del Thrash Metal, in una schiera di band seconde a nessuno, dove passione, sudore e aggregazione spesso donano frutti importanti. MS



Lelio Padovani

LELIO PADOVANI – Waves
Autoproduzione
Genere: Virtuoso chitarra
Supporto: Ep – 2016


Il polistrumentista parmense Lelio Padovani è di sicuro un esponente di spicco per quello che concerne il movimento chitarristico italiano oltre che insegnante, compositore ed arrangiatore.
Nella sua carriera ha rilasciato numerose testimonianze sonore, a partire dal 2002 con “Umknow EvolutioN”. A seguire l’Ep “A2A” (2003), “The Big Picture” (2005), “Chasing The Muse” (2007), le colonne sonore “Il Solitario” (2008) e “Mia Diletta” (2009), “Electronic” (2010) ed altre colonne sonore ancora. Consegue anche numerosi riconoscimenti negli anni, due su tutti il Premio MEI/Toast 2007 per la segnalazione della giuria a “Chasing The Muse” e la nomination al David Di Donatello 2010 per “Il Solitario”.
Il suo modo di essere virtuoso con la chitarra non è prettamente esibizionistico, ma attento alla melodia, delicato e profondo.
Nel 2016 esce il suo lavoro “Waves”, Ep composto da quattro canzoni dalla durata media di quasi cinque minuti l’una. “Waves” vuole essere anche un esperimento, dove nella title track si registrano decine di chitarre elettriche come accompagnamento, cavalcando dunque onde sonore ed elettromagnetiche. L’ascolto in tutto il suo insieme è gradevole e rilassante anche perché non si tratta di un album di sola chitarra, i Synth ricoprono un ruolo importantissimo, riempiendo il suono in maniera più consistente. “Time Traveller” che apre il disco ne è l’esempio calzante. Ciò che colpisce l’ascolto è la grazia con cui la chitarra percorre anche scale neoclassiche, mai sparate inutilmente a mille. Padovani bada molto alla sostanza emotiva. Non da meno l‘importanza del giusto motivetto trainante  che intercorre fra un solo e l’altro.
Più robusta “Siren Song” grazie anche all’effetto della presenza di più chitarre armonizzate. Tornano i Synth in “Sunday”, ballata morbida ed elegante. Musica da accompagnamento che lascia il segno emotivo, fatta con la mente ed il cuore.  La si può ascoltare anche a volume molto alto, tanto non disturba mai.
A chiudere la title track già citata che prende lo spunto dai lavori di Rhys Chatham qui con le chitarre riaccordate e suonate come in una sezione archi di un orchestra.
Padovani è un personaggio che va approfondito, un supporto musicale aggiunto alla nostra cultura. MS
Per contatti: www.leliopadovani.com , Facebook: https://www.facebook.com/lelio.padovani.7

domenica 11 marzo 2018

Project: Patchwork II


PROJECT: PATCHWORK II - Re/Flection
Progressive Promotion Records
Distribuzione italiana: GT Music
Genere: Progressive Rock/Metal
Supporto: cd – 2018




Dalla Germania, Gerd Albers (compositore, chitarrista, tastierista e cantante) assieme al chitarrista Peter Koll ritornano sul luogo del delitto con un altro disco fiume di vigoroso Progressive Rock.
Come nel passato “Tales From A Hidden Dream” del 2015, anche in “Re/Flection” ci sono 70 minuti abbondanti di musica suddivisa in undici tracce tutte di media e lunga durata.  Il disco è supportato da un artwork cartonato di notevole fattura grafica ed artistica ad opera di Starfountain Design. In questo caso bisogna parlare di Project: Patchwork II, perché il disco è un proseguo sonoro del precedente, coadiuvato professionalmente da una nuova alta presenza di musicisti ospiti, ben ventiquattro, i quali rendendo il tutto molto variegato e scorrevole. Fra i più noti vi cito Marek Arnold (SSTTGD, Cyril, UPF, Samurai Of Prog), Martin Schnella (Flaming Row), John Mitchell (Arena, Frost, It Bites, Cinema), Markus Steffen (Sub Signal), Stephan Pankow e Larry Brodel (Toxic Smile).
La qualità sonora del disco è buona, i suoni sono puliti anche nelle frequenze alte, non risultando quindi troppo ficcanti e di conseguenza neppure oscuri ed impastati.
Non si resta indifferenti a così tanto materiale, e già in “Strunggle And Agony” la componente Progressive Rock è altamente soddisfatta. L’assolo di chitarra è davvero coinvolgente, lasciando alla fine dell’ascolto quella sensazione di appagamento che raramente mi capita di provare.
Musica che a tratti sfiora il Metal e che in altri ha una radice nel passato come si può ascoltare in “Worried Citizens”, altro pezzo con assolo finale di chitarra dall’ampio respiro. Coralità, ricerca sonora e molto altro, tutto questo non può far scattare nella mente di alcuni attenti ascoltatori la similitudine con alcuni lavori di Ayreon. Un piccolo capolino lo fanno anche i Genesis di Phil Collins nella semi ballata “Fear Of Loss”, mentre “Fist Disorder” torna a fare scorribande sui strumenti. Qui voce femminile e Metal Folk.
Il concept tratta di esperienze personali di natura sociopolitica estrapolata dall’esperienza dei due musicisti e compositori Albers e Koll.
Le linee melodiche sono la carta vincente dell’album che non smette di farsi ascoltare grazie proprio a questo grande calderone di musicalità derivate da differenti periodi come gli anni, 70, 80 e ’90 su tutti.
Gradevole l’acustica “Last Horizon”, un momento di riflessione durante questo lungo percorso sonoro che lascia successivamente spazio a delle vere e proprie mini suite di quasi dieci minuti, “Of Sheeps And Wolves” e “A Winter’s Tale” sono palestra delle capacità artistiche dei componenti.
L’opera Rock si conclude con “ReFlection”, altro momento pacato e spaziale, degno suggello di questo secondo capitolo del progetto Patchwork.
Non a tutti piace essere sommersi da una valanga di stili e di sonorità, ma chi ascolta Progressive Rock e dintorni, non aspetta altro, quindi questa recensione sta proprio ad avvisare i fans che qui c’è molta carne al fuoco. Buon appetito. MS

domenica 4 marzo 2018

Ancient Veil


ANCIENT VEIL - New - The Ancient Veil remastered
Open Mind – Lizard Records
Distribuzione: BTF - Pick Up  - GT Music - MaRaCash - Syn-Phonic 
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd – 2018




Avete presente quando si arieggia una stanza? Quando si aprono le finestre e si riempiono i polmoni di aria pulita, ebbene, questa è la sensazione che si prova all’ascolto di “New - The Ancient Veil remastered”. Si perché i musicisti genovesi formati oggi da Alessandro Serri (voce, chitarre elettriche, acustiche, classiche e 12 corde, basso, flauto), Edmondo Romano  (sax soprano e tenore, clarinetti, low whistle, flauto dolce sopranino soprano & contralto, bansuri, mohozeno) e Fabio Serri (piano, moog, organo hammond, synth) hanno avuto l’idea di ristampare il primo omonimo cd edito nel 1995 dalla Mellow Records con una nuova veste, sia grafica che sonora.
Ciò che si evince all’ascolto è prima di tutto il miglioramento sonoro, e poi si può godere della giunta di maggiori strumentazioni. Non a caso il disco è pieno di ospiti fra fiati, cori ed archi.
Altri cambiamenti strutturali li ritroviamo nella track list, rispetto al lavoro originale sono stati tolti quattro brani, che sono comunque raccolti e citati nella bonus track finale. Questa è una creazione originale di Edmondo Romano, che compone attraverso l’utilizzo di suoni naturali e di rumori di varia natura una piccolo suite “collage”, con due composizioni storiche dei primissimi Eris Pluvia.
La parte grafica è stata ridisegnata con i quadri di Francesca Ghizzardi.
Il flauto, il piano, musica che fa stare bene, che si “ascolta” e non si “sente”, musica che necessita di una particolare attenzione per goderla al massimo delle proprie potenzialità. L’ampiezza sonora della title track che apre l’album è un sunto fra la storia Prog del passato e quella del presente, un mix fra New Prog e il classico sinfonico con la giunta di una punta di Jazz Rock. L’esperienza artistica dei componenti negli anni si è ampliata di capacità notevoli, questo porta al lavoro una freschezza ed una spigliatezza ulteriore. La chitarra elettrica disegna scale sonore interessanti per poi lasciare spazio a momenti rilassanti ed acustici, con la giunta di fiati.
Movimenti ampi e mediterranei come nella successiva “Flying”, quasi musica classica, in effetti il Prog molto si presta a questo tentativo di strutture sonore, una grande  prova l’abbiamo avuta dai loro concittadini New Trolls, con Bacalov ed il capolavoro assoluto “Concerto Grosso”.
Bellissimo l’arpeggio di chitarra classica che apre assieme al flauto “Feast Of The Puppets” e qui ci si rende conto della classe che noi italiani riusciamo a mettere in campo su questo genere sonoro sempre poco considerato rispetto alla sua qualità. Uno sforzo creativo che sfocia nel benessere, perché alla fine dell’ascolto del brano si ha questa sensazione. Questo un piccolo passaggio nel Folk Prog.
“Creature Of The Lake” invece torna su energie “genesiane” periodo Gabriel e sono sensazioni sempre forti. “Gleam” potrebbe risiedere tranquillamente nella discografia degli Agorà, un pezzo fra l’etnico, il Jazz ed il Folk, una immensa cultura sonora messa giù con semplicità in poche note, fattore non di poco conto. “The Dance Of The Elves” è una ballata (appunto) Folk arricchita oltre che dall’immancabile flauto, anche dal violino, una canzone dal sapore Jethro Tull. La danza procede con “Dance Around My Slow Time”, altro mix fra passato e presente, il remastered ha il suo perché. La voce di Cinzia Nocera è profonda ed ottima interprete dell’aria sonora che la circonda. Con “Night Thoughts” si evince il perché si denomina questo genere -musica per la mente- tutto assume colori pastello, e qui la copertina dell’album ci fa da coronamento. Altro passaggio nel New Prog con “New”, ma in maniera sempre pacata e mai invasiva, l’acustico fa socchiudere gli occhi mentre le atmosfere si fanno raffinate e sognanti. L’album ufficiale si chiude con “Talking Frame”, vetrina per le capacità tecniche della band arricchita anche dal sax.
Personalmente apprezzo molto lo sperimentare del “Medley” finale, qui  ricerca, visione dei suoni, una rappresentazione forte e diretta che non lascia indifferenti per capacità espressive.
“New - The Ancient Veil remastered” precederà di poco l’uscita del live a primavera, registrato durante due concerti realizzati nel 2017 a “La Claque” di Genova.
Che dire, per chi vi scrive i The Ancient Veil sono un classico del Progressive Italiano, concetto ancora astruso per chi resta  solo e sempre avvinghiato alle solite band anni ’70. Occhio amici, come dicevano i Matia Bazar “C’è tutto un mondo intorno”, in questo caso anche colorato. Largo ai nuovi classici. MS