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giovedì 16 maggio 2019

Alex Savelli, Massimo Manzi e Pelican Milk


PELICAN MILK – Sowego
Autoproduzione
Genere: Rock/Psichedelia/Progressive Rock
Supporto: cd – 2005


La band nasce a Londra quasi per gioco da Alex Savelli (Mojo Bin - Cute Old Fish), Simon Painter (Mojo Bin - River Dance) e Terence Todaro (Cute Old Fish), ma è il centro Italia successivamente a dare luogo alla riuscita di questo progetto che fa la spola fra il Rock, la Psichedelia ed il Progressive Rock. Dalla biografia leggiamo: “Ogni album di Pelican Milk è stato inciso in luoghi scelti con cura, castelli, palazzi, case antiche in Italia e all'estero ed ogni chitarra, cavo, macchinario, microfono, cassa, ecc...è nuovo ad ogni lavoro per garantire l'irripetibilità dell'opera d'arte.”.
Alle spalle hanno due album, “South Enough” (2001) prodotto da David Eserin (LM Records-Vivid Audio, LONDON)  e “Welcome” (2003).
Nel disco suonano Alex Savelli (chitarre, voce, basso), Terence Todaro (piano, tastiere, organo, voce), Andy Maclean (basso), e Marcus Vitale (batteria), in più partecipano come special guest Simon Painter (violino), Vit Orestrane (clarinetto), Guido Zenobi (basso acustico), Roberto Coliano (percussioni) e Ivan Paci (voce).
Undici sono le tracce per più di trequarti d’ora di musica, ad iniziare da “American Way”. Una chitarra acustica apre il brano che nel proseguo si sposa con un cantato in stile Pinkfloydiano per un ritornello ruffiano e gradevole.
Il ritmo sale con “Jhonny” e  così le chitarre si approcciano verso un suono più distorto, pur restando sempre nell’ambito del Rock. Un breve assolo di chitarra accattivante a metà del brano è la ciliegina sulla torta, tanta energia grazie anche a un riff di facile memorizzazione.
Lo strumentale “Then The Sleepy River Met His Water Fall…” riporta l’attenzione verso sonorità più pacate e ricercate, la chitarra sembra quasi un sitar e la psichedelia di tanto in tanto fa capolino. Alcuni frangenti più movimentati possono far tornare alla memoria schegge di “Passpartù” della PFM.
“Arepo” apre una sorta di suite lunga tredici minuti, un mix fra Rock, Psichedelia e Blues, tanta carne al fuoco, specialmente per chi ama le schitarrate su ritmiche pesanti e cadenzate. Un vero e proprio trip.
“Sheep Like Zing” è uno strumentale che torna verso il Rock lasciando la briglia sciolta alle chitarre, a seguire la più calda “Sowego”, chitarra acustica, piano, e ritmo che ciondola in una sorta di abbraccio caldo e materno. Il brano potrebbe benissimo risiedere nella discografia di David Gilmour.
Il disco si chiude con “After Python – An End See You Later”, una piccola corsa nella ricerca sonora e violino.
I Pelican Milk senza strafare, ma badando molto all’emozione e a tratti all’improvvisazione, prenotano un posto nell’olimpo del Progressive Rock Italiano, e lo ottengono a pieni voti. MS






PELICAN MILK – La Casa Degli Artisti
Autoproduzione
Genere: Rock/Psichedelia/ Progressive Rock
Supporto: cd – 2013


La natura è la nostra casa, l’uomo è inevitabilmente legato ad essa. Ispiratrice di molteplici nostri atteggiamenti o adattamenti, lei per quanto noi vogliamo è padrona. L’arte in generale, la pittura, la letteratura e la musica ne sono influenzate per ispirazione. Ci sono luoghi che ci fanno rilassare, riflettere o stupire per bellezza. L’artista immerso in questo mondo riesce a tirare fuori da se stesso cose che probabilmente dentro quattro mura non sarebbero uscite nell’ugual maniera. La natura è fonte d’ispirazione.
Tornano i marchigiani Pellican Milk con un lavoro visionario che fuoriesce dai canoni semplici del Rock,  “La Casa Degli Artisti”. Questo è un luogo ben preciso, compreso tra Fossombrone e Fermignano, nella provincia di Urbino, qui nella la Valle del Metauro, la Gola del Furlo esistono  locazioni magiche dove in una di esse, fra i boschi, risiede proprio la Casa degli Artisti. Dentro, ogni artista può esprimere ciò che sente, poesia, scultura, musica etc. ispirato da cotanto paesaggio.
Alex Savelli, cantante chitarrista e bassista del progetto, nel tempo ha realizzato collaborazioni importanti, come con Ares Tavolazzi degli Area o Paul Chain dei Death SS. Dopo tre album in studio ritorna con questo lavoro ispirato e con l’ausilio di importanti musicisti, il suo fido amico Terence Todaro (piano e tastiere), Orestrane (clarino, ocarina), Guido Zenobi (basso), Elisabetta Del Ferro (viola da gamba), Filippo Pieroni (batteria), ma soprattutto il maestro Massimo Manzi alla batteria, vero e proprio guru ed orgoglio del nostro Jazz.
Il paesaggio non può che ispirare ai Pelican Milk una musica psichedelica ed improvvisata, molto vicina a quella dei Pink Floyd, ma anche epicità alla Mahavishnu Orchestra di John Mc Laughlin.
Il disco è suddiviso in quattordici visioni ed il libretto che accompagna il disco descrive con dettaglio i posti, cosa è la Casa Degli Artisti e come è iniziata questa avventura.
La “Vision 1” si apre con l’ocarina di Ore Strane, effetti eco rimbalzano il suono per un atmosfera bucolica ed ariosa, tutto questo serve d’accompagnamento a “Vision 2” prima composizione dell’album ed anche la più lunga grazie ai suoi dieci minuti. L’animo di Manzi fuoriesce grazie a quel tocco raffinato e gentile che possiede, soprattutto nel duetto iniziale con il pianoforte di Todaro. Quando subentra la chitarra di Alex Savelli il brano spicca il volo, improvvisazione? Non mi è dato saperlo, tuttavia il risultato è quantomeno piacevole, soprattutto per chi come me gode della musica anni ’70. Non mancano neppure interventi elettronici.
Brevi arpeggi di chitarra nella terza visione per poi arrivare a “Vision 4”, qui la natura si fonde con le impressioni musicali ed i suoni, tutto questo è palesemente palpabile. Brevi interventi Jazz e molta Psichedelia, musica libera in volo.
“Vision 5” ha diversa personalità, grazie all’uso della viola da gamba di Elisabetta Del Ferro, un atmosfera più oscura e penetrante, a tratti nebbiosa. L’incedere è in crescendo come la forza della natura quando si prepara ad un forte temporale. Ancora una breve visione dall’animo jazz e poi via verso “Vision 7”, elettrica nella chitarra e Rock nell’animo. Ottimo il lavoro di Savelli. Tintinnio di piatti per l’ottava visione, Manzi si destreggia in un approccio ritmico suggestivo e di qualità, vetrina per le sue grandi doti.
Per giungere a sonorità più Pinkfloydiane bisogna arrivare alla “Vision 9”, qui Blues e Psichedelia sono uniti in un corpo solo. Impressionante viaggio onirico.
La decima visione è elettronica nei suoi due minuti e porta verso gli otto minuti di “Vision 11”, dove un suono caldo del basso ci accoglie all’inizio del brano. L’improvvisazione è evidente e spaziosa, qui gli artisti si cimentano in un altra prestazione sopra le righe, palesando un amalgama quantomeno invidiabile. Il disco procede fra Rock e Psichedelia sino alla conclusione.
I Pelican Milk nel tempo mutano pelle, seppur mantenendo di base la gioia di voler esprimere liberamente il proprio stato d’animo fra improvvisazione e meditazione. Un risultato che lascia appagato anche l’ascoltatore. Una musica che va ascoltata con attenzione per poterci entrare dentro, ma per quanto possa sembrare complessa per come descritta, lascia invece entrare l’ascoltatore con gentilezza e inattesa semplicità. Da avere. MS





SAVELLI / MANZI – Gettare Le Basi
Radici Music Records
Genere: Jazz / Prog Rock
Supporto: cd – 2019


Alex Savelli e Massimo Manzi ritornano nel luogo del delitto, quel passo Del Furlo dove la Casa Degli Artisti ha saputo ispirare la musica dei Pelican Milk. L’idea ritorna nel 2017, per ripartire dalle radici, dal basso, e come suggerisce il titolo proprio dalle basi, dove la musica fugge per tornare a crescere e spaziare. La natura ed il luogo situato nelle Marche nel centro Italia, hanno il loro peso per quello che concerne la creazione dei brani.
La confezione di “Gettare Le Basi” è elegante e cartonata, con all’interno le spiegazioni date dai due artisti e un mini poster davvero bello. Per i collezionisti dico che la prima stampa risulta numerata in 400 copie.
Il disco è suddiviso in undici brani, tutti abbreviati in GB (Gettare le Basi) e fantastica è l’idea nel voler lasciare volutamente spazio di scrittura al fianco del GB1, GB 2 etc. all’ascoltatore che ha la possibilità fisicamente di titolare definitivamente le canzoni a proprio piacimento. Questo sta a significare la volontà di dare  spazio alla musica per darla in pasto a chi vuole farla propria, un modo di essere un tutt’uno con l’ascoltatore.
Un viaggio da affrontare assieme agli artisti che si coadiuvano di special guest ad ogni brano, ancora una volta a sottolineare l’apertura totale della musica del duo Savelli/Manzi.
In “GB01” è la voce di Luca Fattori ad impreziosire il brano a cavallo fra Rock e Jazz. Massimo Manzi pennella chicche mentre Savelli si impegna a riempire i suoni con giri di basso importanti e una chitarra elettrica fresca e giocosa. “GB02” praticamente è un brano dei Pelican Milk, visto Terence Todaro al piano, ma c’è anche Denzel Grottoli al sax. Jazz Rock? Potremmo definirlo tranquillamente così, tuttavia  i cambi di tempo e la chitarra spesso spostano il tiro in pieno territorio Progressive Rock.
Ritmica alla Gentle Giant, e un Rock inaspettatamente condotto da un mandolino, quello di Antonio Stragapede, si ascolta in “GB 03”. Il motivo è orecchiabile e diretto sino alla metà della sua durata, per poi spezzarsi su un giro di basso e un mid tempo piacevolmente martellante. Effetti di tastiera legano il tutto, Prog Rock al 100%.
Assieme al piano di Alessandra Mostacci si passa al Rock americaneggiante di “GB04”, Manzi mostra in tutto il suo fulgore il suo lato Rock, diventando vero e proprio propulsore del brano. Non esula il frangente più Folk, a dimostrazione dell’apertura mentale dei singoli componenti, ci pensa la fisarmonica di Massimo Tagliata in “GB 05”, canzone che comunque risiede sempre dentro il sentiero Rock.
Caldo momento di Jazz Fusion a seguire nel sesto movimento, fra basso, batteria e la tastiera Rhodes Fender di Pippo Guarnera. Momenti di alta scuola. E via verso “GB 07” con Todaro ed il clarinetto di Orestrane. La chitarra elettrica segna il percorso melodico da seguire e la macchina perfettamente oliata lo percorre. Siamo tornati ancora nel Rock (se mai lo abbiamo lasciato). Un bagno di anni ’70 con “GB 08”, ancora puntate nel Jazz e questa volta l’ausilio arriva dal sax di Guglielmo Pagnozzi e dal flauto traverso di Carlo Maver. Un ritmo irresistibile che difficilmente vi farà domare il movimento incondizionato del piede. Uno dei momenti più duri dell’album risiede in “GB 09”, incalzato sia dalla chitarra elettrica distorta che dalle percussioni di Ivano Zanotti. Questo è uno dei pochi pezzi cantati, qui la voce è di Michele Menichetti.
In “GB 10” ritorna il flauto traverso ed il Jazz Rock, e piacevolissimo è l’assolo di chitarra di Savelli. L’album si chiude con “GB11” , quasi tre minuti di oscuro Doom Psichedelico, fra grida lancinanti di chitarra elettrica.
Tanta carne al fuoco in questo disco che si fa una vera e propria passeggiata in tutto il movimento musicale che spazia dal Rock al Folk passando sia per la Psichedelia che per il Jazz e nell’elettronica!
Chi ama la musica a tutto tondo ha trovato pane per i propri denti. Fermatevi! MS

sabato 11 maggio 2019

Quanah Parker


QUANAH PARKER – A Big Francesco “LiveAt Festival Rock Progressive 2016 – 2018”
Ma.Ra.Cash Records
Genere Progressive Rock
Supporto: cd/dvd – 2019

Dopo due album in studio ecco per i veneti Quanah Parker la testimonianza live. La band del tastierista fondatore Riccardo Scivales ha alle spalle una annosa esperienza musicale che attinge nel New Prog addirittura dagli inizi degli anni ’80.
Questa realizzazione prodotta dalla Ma.Ra.Cash assieme ai Quanah Parker stessi, raccoglie le versioni audio e video di nove brani eseguiti durante i tre fortunati Festival Rock Progressive al Teatro Metropolitano Astra di San Donà Del Piave (Venezia) negli anni 2016, 2017 e 2018.
Da apprezzare subito l’ottima grafica ad opera di Maurizio Sant (LS Production), autore anche delle riprese, degli scenari e della regia.
La band nel tempo subisce cambi di line up, in questo contesto suonano Riccardo Scivales (tastiere), Giovanni Pirrotta (chitarra), Paolo Ongaro (batteria), Elisabetta Montino (voce), Valentina Papa (danza e coreografie), Alessandro Simeoni (basso) ed Alberto Palù (basso nel brano 9). Nel cd risiedono nove tracce tratte dalla loro discografia, escluso l’inedito “Intrada – Per Le Scale, Inseguendo Le Fate!” che farà parte del prossimo lavoro in studio su cui stanno lavorando.
Il dvd contiene le stesse tracce del cd, con l’aggiunta di tre momenti particolari, “Riccardo Scivales assolo di tastiere”, Giovanni Pirrotta assolo di chitarra” e “Paolo Ongaro assolo di batteria”.
Quello che scaturisce immediatamente all’ascolto e alla visione di “A Big Francesco” è il raggiungimento di una macchina sonora perfettamente oliata e ricca di storia musicale. La band nella propria musica riesce ad esprimere quello che un intero genere musicale ha narrato negli anni, ovviamente sto parlando del Progressive Rock.
La qualità sonora è buona, ulteriore spinta all’intero ascolto, solo un piccolo problema durante “Suite Degli Animali Fantastici” dove nel dvd la qualità è appunto buona, mentre nel cd no. Il problema verrà arginato nella prossima ristampa.
Nel dvd emozionanti e graziose sono le evoluzioni di Valentina Papa a supporto della musica che, diciamo la verità, resta molto difficile da ballare in quanto ricca di cambi di tempo e di umore, come il genere ci insegna. Una farfalla che disegna geometrie nell’aria.
“Intrada- Per Le Scale, Inseguendo Le Fate!” apre il concerto e subito salgono in cattedra le tastiere di Scivales e la scintillante chitarra di Pirrotta in un pirotecnico assolo. Buona la prova vocale di Elisabetta Montino, sempre composta e mai invasiva, piuttosto elegante e dalle ampie capacità estensive.
Il primo pezzo tratto dalla loro discografia non può che essere “A Big Francesco”, l’indimenticato cantante del Banco Del Mutuo Soccorso, una leggenda musicale che i Quanah Parker sanno ricordare al meglio. Nel dvd si possono apprezzare alle spalle dei musicisti anche scenari che accompagnano l’emotività della musica, ovviamente qui non può mancare il paffuto viso di Big Giacomo, e l’emozione sale.
Il brano composto da Scivales è ovviamente in stile Banco, come molti sono  i riferimenti anche in altri canzoni. Strumentale toccante e anche in questo caso ricco di storia.
La sezione ritmica funziona,  riuscendo ad essere perfetto motore per l’intera esibizione, senza sbavature.
Segue un brano scritto negli anni ’80, “Death Of A Deer”, aperto dal narrato di Elisabetta. Grande spazio alla ricerca sonora ed emotiva, brano spezzato, aggressivo e allo stesso momento riflessivo, quasi avvolto da una nube sonora densa come la foschia. Qui la band osa di più e ottimo risulta il colloquio tastiera e chitarra che in un crescendo sonoro lasciano subentrare anche la voce in maniera possente.
Un triangolo apre “Asleep” tratto dal primo album “Quanah!” (Diplodisc) del 2012, composizione più vicina alla formula canzone rispetto quanto ascoltato sino ad ora, di classe e ariosa, vetrina per la voce di Montino.
A seguire si parla del grande capo pellerossa “Quanah Parker” sempre tratto dal loro primo album. Si naviga in “Sailor Song”, storia di un marinaio che giunge in un isola senza tempo alla ricerca di se stesso, fra la sabbia che scivola fra le mani. La musica è ritmata, impetuosa, con i consueti rallentamenti che donano profondità e patos all’ascolto.
“After The Rain” aspetta il sole e se possibile anche un bell’arcobaleno per poi respirare l’aria pura a pieni polmoni, questa la sensazione che si ha durante l’ascolto del brano. Più incentrata verso il New Prog “Silly Fairy Tale” ma con puntate jazzy importanti, specie nei giochi vocali. Mi ricordano molto i francesi Minimum Vital. E come si dice in gergo, dulcis in fundo, con la suite  lunga più di trenta minuti tratta dal omonimo disco del 2015 “Suite Degli Animali Fantastici” (M.P. Records). Qui la band fa della musica spettacolo pirotecnico sparando tutti i propri colpi a disposizione.
I contenuti speciali come già detto, mostrano assolo da parte dei musicisti.
I Quanah Parker in “A Big Francesco” dimostrano tutto il proprio valore e chi non li conosce si deve assolutamente approcciare a questo lavoro live, mostra di grazia compositiva, strumentale e scenografica. Un bel fiore all’occhiello per il Prog italiano di cui andarne fieri. MS


Giant The Vine


GIANT THE VINE – Music For Empty Places
Lizard Records
Distribuzione: BTF Distribuzioni / GT Music
Genere: Rock Progressive / Post Prog
Supporto: cd – 2019



In Italia nascono continuamente gruppi musicali legati a quel filone del Rock che molto spesso abbiamo dato per spacciato, il Progressive Rock. Gli amanti dello stesso, leggendo il nome della band qui in recensione già troveranno indizi sulla direzione musicale intrapresa dal quartetto ligure in analisi, fra Gentle Giant e Genesis. Tutto ciò sta a dimostrare che la qualità nel tempo paga sempre. La musica quando è fatta con la mente e con il cuore non conosce confini e neppure cessazioni d’esistenza.
I Giant The Vine sono un gruppo che si forma nel 2014 su iniziativa di Fabio Vrenna che attraverso un sito di annunci per musicisti incontra Fulvio Solari, anche lui chitarrista e Daniele Riotti, batterista. Al trio si aggiunge virtualmente Marco Fabricci, bassista di Torino che partecipa al progetto senza comunque incontrarsi fisicamente con gli altri componenti. Alle tastiere Chico Schoen e Ilaria Vrenna, figlia di Fabio. Antonio Lo Piparo, bassista ventottenne, si unisce alla band con la quale si appresta ad affrontare i prossimi eventi live.
Vista la differenza d’età fra i singoli musicisti, si denotano nelle influenze sonore diverse tipologie di band, a partire ovviamente dalle già citate per poi aggiungerci Tool, e Porcupine Tree.
Il disco che si presenta in confezione cartonata,  è composto da otto brani tutti strumentali ed inizia con “67 Ruins”, un Rock apparentemente freddo che in realtà sa sfuggire alla routine del Prog in maniera dignitosa, e come non pensare alle band nordiche ascoltando quel mellotron e quelle chitarre? Landberk, Anekdoten ed Anglagard sono inevitabilmente da nominare. Ma i Giant The Vine hanno una loro personalità ben marcata, essa fuoriesce anche dall’ascolto di “Ahimsa”, cadenzata ed ipnotica sotto certi movimenti. Ricercate le armonie, la band da più spazio all’emozione che alla tecnica, anche se le qualità dei singoli componenti sono elevate. La musica è sempre enfatica, ampia e avvolta da un velo di malinconia. Buona la qualità sonora. “The Kisser” con le chitarre elettriche sposta le coordinate verso un Metal Prog fra Tool e certi Porcupine Tree. Il crescendo sonoro è un arma sempre vincente, così la semplicità con cui viene eseguito.
Un piano apre “The Rose”, brano dalle note inizialmente centellinate che si evolvono e si stoppano a metà del brano per poi ripartire in quelle atmosfere che molto fanno sognare ad occhi chiusi. Inizialmente più vigorosa “Gregorius” che potrebbe benissimo uscire da “From Within” degli Anekdoten, tuttavia la mediterraneità nostrana non si cela dietro ad un dito, certe atmosfere e sonorità le abbiamo intrinseche in noi e scolpite con il fuoco. Per chi vi scrive questo è il migliore brano dell’album, o perlomeno quello che più mi ha emozionato.
“Lost People” entra in punta di piedi, alza la voce e se ne va come è entrata, mentre “ A Little Something” si apre con un semplice arpeggio di chitarra e qui il richiamo alla vecchia band di Steven Wilson è inevitabile. Altro fluire sonoro dal grande impatto emotivo. L’album si chiude con “Past Is Over”, perfetto sunto di quanto dimostrato sino ad ora dai musicisti.
Un lavoro degno di nota, consigliato soprattutto a coloro che nella musica cercano qualcosa di emozionante e non scontato. MS

sabato 4 maggio 2019

Raoul Moretti

RAOUL MORETTI – IsolaMenti
FonoBisanzio
Distribuzione: IRD
Genere: Electroharp & Electronics
Supporto: 2019 – Soundclouds


Ritorna Raoul Moretti e la sua arpa elettronica dopo il buon lavoro “Harpness” del 2016. Un ritorno questo dell’artista italo-svizzero ponderato, riflettuto. Il concept che accompagna le quattordici tracce comprese nel disco trattano di un viaggio introspettivo nella propria mente. L’isola (in questo caso la Sardegna) rappresenta la metafora di noi stessi, un luogo di contemplazione per ricercare il proprio “io”.
Negli anni Moretti ha imparato ad adoperare il suono dell’arpa elettrica in maniera del tutto personale e ricercata, come una voce per esprimere il proprio stato d’animo. In questo terzo lavoro si avvale della collaborazione di artisti come Michele Gazich (viola in “Nel Fluire”), Giuseppe Joe Murgia (sax soprano in “Emersioni”), Julia Kent (violoncello ed elettronica in “Qui Dentro”), Marco Bianchi (vibrafono e marimba in “Fragili Squilibri”) e Beppe Dettori (voce in “Identità”). Ad accompagnare il cd un libretto da sfogliare e contemplare con fotografie, una per ogni
traccia, accompagnate da citazioni di scrittori, poeti, pensatori e filosofi.
Il disco si apre con “Con-Solazione” e le atmosfere sono immediatamente rarefatte, tuttavia solari e rilassanti. Il motivo ha il dono della mediterraneità, quella che noi italiani portiamo intrinseca nel nostro dna.
“Nel Fluire” lo definirei il singolo dell’album, con ospite Michele Gazich alla viola. Del brano infatti ne scaturisce anche un video realizzato da Davide Manca di Fly Media Creative Drone Services, ed è un omaggio alla bellezza dell’isola Sardegna attraverso i suoi elementi. Il suono scorre sopra un loop ritmico ammaliante ed ipnotico. Sax soprano di Giuseppe Joe Murgia a dialogare con l’arpa in “Emersioni”, momento più sperimentale tra loop e freezer in presa diretta.
“Lib(e)rando” è forte nella sua consapevolezza ritmica fatta con l’arpa in un crescendo sonoro fra gong e cori che donano fervore all’ascolto, così l’ascoltatore viene investito da un fiume di suoni. Si ritorna ad una meditazione più ragionata con “Là Fuori”, breve momento costruito su di una nota in maniera psichedelica per passare a “Qui Dentro” e alla partecipazione di Julia Kent al violoncello. Questa è una struggente tensione emotiva e sonora dove l’artista canadese si trova proprio a suo agio. Qui si viaggia nella mente.
La ricerca sonora di “Vie Di Fuga” fa del brano uno dei miei preferiti, in quanto molto Progressive nell’approccio, non mancano i loop ma neppure temi orecchiabili quasi alla Mike Oldfield. Intrigante. In un suono registrato al contrario, si apre “Paradiso Perduto”, uno dei brani più malinconici del disco, quasi a rovistare nella fragilità del nostro essere, e nel mio caso ci riesce. L’elettronica e l’arpa donano emozioni davvero inattese e quasi impalpabili nell’apparenza quanto dure e concrete nella realtà. “Connessioni” ha un suono scintillante, mentre si ha presa e coscienza del proprio essere nel breve crescendo inesorabile di “E(s)enza”.
Ed ecco dunque “Il Mondo Ritrovato”, spazioso, arioso, come il suono che lo rappresenta, in una pace interna ed esterna in pieno equilibrio. Importante la melodia dell’arpa.
Ma tutto non è per sempre, alcuni equilibri possono essere precari e fragili, come il brano “Fragili Equilibri” sta a significare. I brevi slide del vibrafono di Marco Bianchi ci rimandano a questi squilibri.
Con più di sette minuti di durata arriva il brano più lungo dell’album “Identità”, una sorta di mini suite suddivisa in quattro frangenti. Inizialmente la melodia dell’arpa è semplice ed immediata nella sua bellezza cristallina, poi il brano si lascia stravolgere fra i giochi vocali di Beppe Dettori e tecniche inusuali sullo strumento. L’album si chiude con “Sola-mente”, breve momento fluttuante.
Il disco è un opera piena di significati e di suoni che a tratti ci fanno volare e in altri riflettere. Non mancano neppure le destabilizzazioni volute per rappresentare al meglio il concept, musica per chi ha voglia di mettersi in gioco e per i più curiosi dello strumento, perché Raoul di certo non lo suona in maniera convenzionale.
“Il viaggio più difficile di un essere umano
è quello che lo conduce dentro sé stesso alla scoperta di chi veramente egli è.”
(C. G. Jung) MS







RAOUL MORETTI – Harpness
Autoproduzione - Mondisommersi2017
Genere: Folk/Sperimentale
Supporto: cd – 2016



Può un arpa a pedali avere una tendenza Rock? Se vi siete già incuriositi avete fatto bene, perché in questa recensione andiamo a parlare del secondo lavoro dell’artista italo/svizzero Raoul Moretti.
Diplomato al Conservatorio di Musica“G.Verdi” di Como nel 1999, Moretti collabora con numerose orchestre fra le quali l’Orchestra a Fiati della Svizzera Italiana, l’Orchestra dell’Insubria, Orchestra Sinfonica di Lecco e l’Orchestra Stabile di Como. E’ ideatore anche di progetti musicali come  Vibrarpa con M. Bianchi, (arpa e vibrafono), il progetto Blue Silk con M. Giudici (elettroharp e chitarra elettrica) ed Essential Duo con Tullia Barbera (voce pop e arpa elettroacustic). La voglia di sperimentare giunge sino al suo strumento, quindi come solista intraprende un percorso di ricerca sull’arpa elettrica e l’utilizzo dell’elettronica. Intraprende così un percorso avanguardistico toccando numerosi stili musicali quali l’avant-garde, il pop-rock, la world music, l’elettronica, la nu-dance, la classica e l’improvvisazione. Le date mondiali per i festival internazionali di arpa sono numerose, Francia, Belgio, Croazia, Cina, Paraguay, Cile, Messico, Venezuela, Brasile e Australia. E ancora molto altro. Tuttavia noi in questa sede andiamo a focalizzare questo progetto datato 2016 dal titolo “Harpness”, si presenta in una edizione cartonata ed è composto da diciassette brani  con la collaborazione di personaggi come Michele Bertoni, Erica Scherl & Valerio Corzani, Diego Soddu, Walter  Demuru, Gianluca Porcu e Marco Tuppo.
“Sharpness” apre il disco e la musica si fa immediatamente immagine. Gocce sonore piovono in maniera delicata su un tappeto psichedelico per sfociare nella World Music. La sensazione di benessere e spaziosità è intrinseca dell’ascolto. Violino basso ed arpa nella breve “Das Unheimlich” per un suono che trasporta, inevitabilmente il tutto avviene ad occhi chiusi. Musica che scava dentro, come nella successiva “Mi Alma Viajera”, un racconto fatto di scale semplici, quasi minimaliste, ricercando l’anima di chi ascolta. Gli stili mutano brano dopo brano, “Near Death Experience” inizia quasi come un organo da chiesa tanto da rendere tetra e lugubre l’atmosfera. Loop sonori che aleggiano sopra territori psichedelici si lasciano trasportare anche da eco d’effetto.
E l’ascolto diventa ancora più sperimentale e toccante in “A Kaleidoscoping Mind”, nomen omen. Il rapporto di Raoul con il proprio strumento è fisico, forte ma allo stesso tempo delicato, l’arpa viene toccata in maniera inusuale, fra rispetto e desiderio di pizzicarla forte. Ma quello che interessa a Moretti è il suono che ne scaturisce e questo non è decisamente usuale. Se andiamo a cercare monoliti del Rock potremmo avvicinarlo per tendenza a “Ummagumma” dei Pink Floyd, ascoltate “The Black Swan” per credere.
Torna la calma con “Universi Paralleli” ed il suono è davvero cosmico, lento e senza gravità, come dicevo in precedenza, la musica diventa immagine. Suoni grevi e sostenuti, l’arpa non sembra quasi essere più uno strumento inteso per come è stato creato, ma un mezzo con cui creare situazioni astruse e affascinanti. Ancora suoni eterei in “Obliviousness”, rilassanti e scevri di ogni etichetta. “Reflections” ha una vibrazione silente, ossia che ti entra dentro la testa apparentemente a basso volume, ma che in realtà ti fa vibrare fortemente il cervello. “Breakaway” è un movimento più ritmato e semplice, tanto che potrebbe scaturire anche da un album dei teutonici Kraftwerk. Tutto muta in “Harpness”, nulla è mai lo stesso, l’arpa sembra gridare dolore in “Sharp-Eyed Man”, un giro armonico pregno di sofferenza ed oscurità grazie anche al suono straziante del violino. L’arpa ritorna a fare l’arpa in “Sweetly Violent”, ma è un breve istante per poi passare al suono minimale di “Violently Sweet”, brano in crescendo tanto da diventare infine Post Rock. In alcuni passaggi ho sensazioni che riportano la mia memoria al Fripp dei King Crimson, quello che spesso in sede live riesce a cucire momenti sperimentali al suono dei strumenti. Ricerca è la parola d’ordine. E così via fino a giungere a “Rebirth”, che per chi vi scrive è un piccolo capolavoro e non a caso è anche il brano più lungo dell’album con i suoi quasi otto minuti, ed il tempo sembra fermarsi.
In conclusione “Harpness” è un disco rilassante, scostante, nervoso, calmo, sereno e nuvoloso, il tutto con  un filo conduttore, la mente di chi ascolta, perché ognuno di questi suoni fanno vibrare in noi posti differenti del nostro cervello e si sa che ogni mente non è mai uguale ad un'altra. Per cui se siete curiosi lasciatevi travolgere da questa musica. Osate!
Per chi lo conoscesse il disco è consigliato anche ai sostenitori dello statunitense Rafael Anton Irisarri. MS