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venerdì 31 gennaio 2014

Osta Love

OSTA LOVE – Good Morning Dystopia
Progressive Promotion Records
Genere: Progressive Psichedelico/Post Rock
Supporto: cd – 2013



Non nascondo che alla visione dell’artwork di “Good Morning Dystopia” a prima sensazione mi sono venuti alla mente i Mars Volta, ma non centrano quasi nulla. La musica dei berlinesi Osta Love ha a che fare più con la Psichedelia Pinkfloydiana e la nuova tendenza Porcupine Tree che altro. Si parla di debutto, in realtà non è del tutto così, nel 2011, solo on line e dunque in download, con “Colours”.
Gli Osta Love sono un duo composto da amici d’infanzia, Tobias Geberth (voce, chitarra, basso, tastiere) e Leon Ackermann (batteria). Nel percorso dell’album composto da dieci tracce, si coadiuvano di musicisti aggiuntivi come Florian Hauss (in “Red Sky”) al piano, Gregor Nicolai (in “Fragile Freedom”) al basso e Sarah Gretsch (in “Alaska”) alla voce. Questo dunque non è un album Progressive per come lo si intende generalmente fra sinfonie e vintage, infatti mancano anche le suite, bensì gli artisti prediligono la formula canzone relegata all’enfasi delle atmosfere, spesso eteree e trascinate.
“Prologue” apre mettendo subito in evidenza le intensioni con tutti i mezzi a disposizione, ascoltare le chitarre è quantomeno esplicativo. Anche il cantato impassibile resta una prerogativa prettamente Pinkfloydiana, la si evince in “Fragile Freedom”, canzone con buone soluzioni tastieristiche di supporto. “Alienation” si accosta più allo stile della band di Steven Wilson, anche per la voce filtrata. In “Subway” il motivo è intrigante, sicuramente a portata di orecchio per tutti, senza troppe complicazioni, abbastanza lineare, in certi frangenti mi ricordano alcuni tentativi anni ’80 di Alan Parson. Il discorso cambia di poco nella successiva “Red Sky” e ritornano i Pink Floyd in maniera più evidente nelle melodie di “Insomnia”.
In “Guards” sonorità eteree si alternano a chitarre più vigorose in una sorta di schiaffo o bacio, una canzone che si lascia ricordare anche per l’incedere del ritmo da “The Wall”. “Alaska” è fra le mie preferite, gli arrangiamenti mi convincono di più, l’arpeggio di chitarra alla Hackett sfocia in un andamento Psichedelico con tanto di echi annessi, da farmi tornare con la mente agli anni ’70.
“Shine” scorre via senza pregi o difetti, mentre la conclusiva “Epilogue” mostra i muscoli, i suoni sono più corali e l’enfasi cresce inesorabilmente.
I Pink Floyd ed i Porcupine Tree hanno fatto una serie di proseliti incredibile, questo non mi dispiace, perché in fondo stiamo parlando di sensazioni e di emozioni forti, quelle della mente. Musica per la mente quindi e per stare bene con se stessi, da ascoltare ad alto volume e pertanto grazie anche agli Osta Love, una nuova realtà che sono certo anche in futuro ne farà ascoltare delle belle, consiglio loro soltanto di lavorare di più sulla personalità. (MS)

mercoledì 29 gennaio 2014

Liir Bu Fer

LIIR BU FER - 3Juno
Zeit Interference / Lizard
Genere: Sperimentale
Supporto: cd - 2010



Questa dei veronesi Liir Bu Fer possiamo chiamarla una sfida, altrimenti resta difficile comprendere come un lavoro profondo e sperimentale come “3Juno” possa coinvolgere un grande pubblico. Il trio si forma nel 2008 grazie all’intuizione di Nicola De Bortoli ed Andrea Tumicelli (anche Vortex, Meraviglia e Velcro). Nel 2009 si aggiunge Marco Tuppo (NemaNiko, Raven Sed e Sciarada).
La musica di “3Juno” è fisica, presente, in quanto riesce a coinvolgere l’ascoltatore , magari mettendolo spesso anche a disagio, perché ciò che si sente è poco strumentale e molto ricercato.
Elettronica in evidenza per cui i movimenti si basano su loop ed è molto minimale. Si vive di essenze, gocce sonore come quelle di profumo, gradevoli ma non per tutti hanno la stessa fragranza. Chi non ama suoni acri resterà quantomeno spiazzato, mentre chi associa l’arte sonora alle immagini troverà questo “3Juno” un lavoro quantomeno interessante. “1994” rappresenta la mia descrizione, sensazioni che si sovrappongono sopra suoni molto succinti e perfino malinconici, fanno del tutto un quadro mutevole ed affascinante.
Una domanda viene spontanea nella mente di chi ascolta, ma la musica dei Liir Bu Fer, è improvvisata? Io penso di no, perché di base una struttura esiste. Rumoristica fa da contorno a molti passaggi, oppure la bella voce dell’ospite Claudio Milano (Nichelodeon) ben si sposa con la ricerca sonora, come in “Red Submarine”.
Questa musica vive di sensazioni, siano loro disagiate che solari, per cui non si incontrano ritornelli, strofe o quanto un brano deve avere per essere considerato tale.
“Maestrale” fa pensare e qui mi riallaccio alla fisicità della musica, che pur risultando eterea nella sonorità, riesce a far venire alla mente immagini, grazie anche alle voci e ai suoni che la completano.
Si può considerare “3Juno” una colonna sonora della quotidianità. “Es” insiste sull’elettronica, in esso c’è malessere, suggestioni disagiate create soprattutto dalla voce ricercata e a tratti lacerante dell’ospite Antonella Bertini. Quasi uno sberleffo alla musica intesa come melodia.
Resta molto complesso ad un recensore riuscire a trascrivere in lettere le sensazioni che si provano all’ascolto di certe sonorità, ma credo che il sunto di quanto detto sia giunto a destinazione.
Non credo che questo disco possa avere delle chances particolari, in ambito contemporaneo i sostenitori non sono poi così tanti, tuttavia rendo merito a questi artisti i quali hanno capito che la musica si può domare e plasmare a proprio piacimento. ”3Juno” è un film da vedere. (MS)

lunedì 27 gennaio 2014

Ainur

AINUR – The Lost Tales
Electromantic Music / Ma.Ra. Cash
Genere: Progressive Sinfonico
Supporto: cd – 2013


Oramai il Silmarillion di Tolkien e la Progressive Rock orchestra Ainur sono un matrimonio indivisibile, per dirla tutta, si sono appositamente formati per musicare le gesta di questa lunga ed incredibile storia fantastica. Definire il genere proposto esclusivamente Prog è riduttivo, in quanto nel sound degli Ainur risiedono numerose influenze, che vanno dal Celtico al Folk e appunto al Prog. Numerosi anche i componenti del gruppo, ben sedici e “The Lost Tales” è il quarto sigillo da studio, dopo “From Ancient Time” (2006), “Children Of Hurin” (2007) e “Lay Of Leithian” (2009). Sempre sotto la visione della Electromantic Music di Beppe Crovella, gli Ainur questa volta propongono un album prettamente acustico, formato da brani editi risuonati per l’occasione, rinforzati dell’esperienza live avuta in questi ultimi anni.
Si narra del viaggio di Eriol, umano che sbarca sull’isola Elfica di Tol Eressea. Con gli Elfi, Eriol ascolta attorno al fuoco serale molte storie dei “Tempi Antichi” e una volta di ritorno a casa, le racconta al mondo intero. Anche le foto all’interno dell’artwork, curato da Luca Catalano e Dino Olivieri, ritraggono i musicanti in costume d’epoca seduti in cerchio nell’erba a rievocare queste atmosfere. Una alchimia perfetta fra musica, ambiente e contesto letterario. Violino, flauto, viola, corno francese ed arpa celtica sono solo alcuni degli strumenti che si esibiscono nei tredici capitoli. Stilare una ipotetica classifica di gradimento è quasi impossibile, “Welcome Of Eriol” inizia il racconto, un brano inedito con un intro di piano ed una melodia toccante. Questo sfocia nel primo brano tratto dal primo disco degli Ainur dal titolo “The Beginning Of Days”.  Si lascia apprezzare particolarmente l’enfasi di “The Fall Of Gondolin”, le voci femminili di Federica Guido, Elena Richetta e Roberta Malerba, i dolci arpeggi, i fiati, il tutto in un connubio che resta in bilico fra il celtico ed il mediterraneo. Altro inedito è “Yavanna’s Song”, bucolicamente ampio e sognante all’inizio, successivamente ben strutturato fra cambio di voce maschile e femminile. Uno dei brani più movimentati è “Glaurung’s Death”, supportato da un arrangiamento importante, un arma che gli Ainur sanno bene adoperare. In analisi i brani proseguono l’ordine cronologico delle uscite discografiche negli anni, a partire dagli esordi a venire, così nell’ordine all’interno dei rispettivi album. Si ha come la sensazione di respirare la brina nel bosco, di sentire l’odore delle cortecce in “Hirilorn”, le atmosfere sono musicalmente descritte in maniera perfetta. La conclusiva “Lorien” è il secondo inedito dell’album.
I brani in questa nuova veste acquistano sicuramente in fascino ed enfasi, pur perdendo in alcuni casi inevitabilmente di potenza, questo bel prodotto mi fa tornare alla mente “The Forgotten Tales” dei Blind Guardian, per tipo di approccio alla musica.
Il fascino del Silmarillion, con i racconti ombrosi, magici, paesaggistici, trovano perfetta rappresentazione sonora con gli Ainur, gruppo culturalmente attento ad ogni sfumatura del fenomeno. Nulla è dato al caso, professionalità sotto molti aspetti, anche riguardo l’incisione sonora, pulita quanto basta per esaltare la strumentazione acustica.
“The Lost Tales” è una buona veste e un bel biglietto da visita per chi ancora non conoscesse il fenomeno in analisi. Ora non ci resta che attendere i nuovi sviluppi. (MS)



lunedì 20 gennaio 2014

Taproban

TAPROBAN – Strigma
Musea
Genere: Prog sinfonico
Supporto: cd – 2013



Mi sono chiesto spesso perché esistono fenomeni di massa imbarazzanti e non soltanto in ambito musicale. Da attento osservatore, ho dedotto che i tempi odierni, quelli di internet e della connessione sociale, sono un papparozzo di mordi e fuggi. Le persone sono invase e stordite da una mirande di dati (più o meno veritieri), informazioni, video etc. da restarne paradossalmente indifferenti. Come un virus che si sente attaccato dalla medicina curante, si crea una autodifesa nuova, chiudendosi in se stesso dietro ad una invisibile barriera. Questo succede oggi, l’individuo sa tutto e non sa niente, piuttosto approssimativo. Non ha più intenzione e ne il tempo di approfondire. Ora ad esso propinargli musica per la mente, quella che fa pensare, è quantomeno controproducente, in quanto farà soltanto finta di amare questo “qualcosa” di apparentemente culturale, ma in realtà soltanto a parole. Il Prog è questo, a parole un genere rispettato e condiviso, in realtà ignorato nei fatti delle vendite.
Per fortuna che esistono artisti come i Taproban che perseverano e se ne infischiano di tutto, critica e pubblico compreso, semplicemente suonando ciò che amano. Questi per chi scrive, sono i veri artisti. E non stiamo di certo parlando neppure degli ultimi arrivati, perché il gruppo del tastierista Gianluca De Rossi si forma nel 1996 e realizza ben tre album di buona fattura, come “Ogni Pensiero Vola” (2002 – Musea), “Outside Nowhere (2004 – Mellow Records) e “Posidonian Fields” (2006 – Mellow Records). Dunque “Strigma” è un ritorno da una lunga assenza che francamente mi ha lasciato l’amaro in bocca, in quanto il progetto Taproban l’ho sempre considerato positivo e di buona qualità. Dopo sette anni sono quantomeno curioso di poterli riascoltare con del nuovo materiale ed una  nuova formazione composta nell’incisione dell’album da De Rossi (tastiere, flauto, voce), Roberto Vitelli (basso, chitarra) e Francesco Pandico (batteria), quest’ultimo recentemente sostituito da Fabio Agresta.
E la musica? Non cambia poi di molto, rimangono le sonorità alla EL&P, Orme, Banco e Balletto Di Bronzo. Rinnovo anche il significato del nome Taproban a cui la band prende spunto, Taprobana è l’antica denominazione dell’isola di Ceylon oggi Sri-Lanka, dove Tommaso Campanella immaginò il sito della sua Città Del Sole. Ma veniamo a “Strigma”, crasi delle due parole latine “Strix” (strega) e “Stigma” (marchio). In esso c’è tutto quello che un vero amante del Prog vuole ascoltare, basta dire che il disco è composto da tre suite per avvallare la tesi.
Si comincia con “Nesia Al Notturno Congresso Delle Streghe”, una triste storia di una ragazza dodicenne condannata al rogo dalla Santa Inquisizione in quanto serva del demonio, dopo aver partecipato ad un sabba, seppure in maniera casuale.
Apre un arpeggio che lascia spazio alle numerose tastiere a cui andremo incontro nel lungo cammino di “Strigma”. Sonorità grevi si alternano ad ampie schiarite, pur restando sempre velate di malinconia. Agli amanti delle tastiere elenco cosa andrete ad ascoltare in questo cammino, dall’Hammond C3 al Leslie 122, al Mellotron SM400 (cori e flauto), Manikin Electronics Memotron, Hohner Claviet D6, Minimoog D, ARP, Nord Electro 3 HP ed EMU Vintage pro!  Un vero e proprio armamentario del Prog. Intanto il brano gioca fra virtuosismi e melodie vintage, con tempi spezzati come spesso ci hanno suggerito i Genesis di Peter Gabriel. Alcune nenie ricordano  i Goblin più oscuri, perfetta fotografia di questo contesto ne è anche l’artwork  rappresentante “La Danza Delle Fiamme” di Daniela Ventrone. E quindici minuti passano in un baleno. Il secondo brano dal titolo “Lo Sguardo Di Emily” è il più breve dell’album, della durata di otto minuti e mezzo. Qui si coglie l’attimo, quello di due sguardi di ragazzi che si incontrano in un istante, quello breve di un incrocio fra due treni che corrono su due binari paralleli. Cambi di ritmo  sono la prassi di questo genere e il brano in analisi non esula da questa regola. In alcuni frangenti, si richiamano anche gli IQ  periodo anni ’80 del New Prog inglese alla ribalta. La musica evoca immagini, la ripetitività di alcuni fraseggi martellano la mente, salvo mutare pelle e strumento solamente al momento giusto, tanto da non annoiare.
Il disco si conclude con “La Porta Nel Buio”, uno spaccato della solitudine intesa come luogo dove poter trovare se stessi ed accrescere autostima nei propri mezzi. Apre un intro pianistico intenso e profondamente intimistico, come trama vuole, per poi districarsi in ambienti cari al Progressive italiano di natura vintage. Unico brano con un breve testo cantato. Una suite che probabilmente nella mente di un fans del genere proietta deja vu, croce e delizia di questo spaccato italico Progressivo.
Siamo al solito discorso trito e ritrito fatto negli ultimi anni al riguardo del genere, “Progredire” o “Regredire”? Una cosa è certa, la risposta qualunque essa sia lascia il tempo che trova, in quanto la musica di base deve solamente emozionare e quando ciò avviene lo scopo è raggiunto. Poco importa il mezzo, il resto sono soltanto elucubrazioni cervellotiche che lasciamo fare ai filosofi del Prog. Io ascolto ed apprezzo. Bentornati Taproban. (MS)

martedì 14 gennaio 2014

Intervista a FABIO ZUFFANTI

             Intervista a FABIO ZUFFANTI: Il signore del Prog
                                                     Di Max Salari 




1 – “La Quarta Vittima” è il tuo nuovo disco da solista ed è ispirato dal libro di racconti gotico surreali “Lo Specchio Nello Specchio”. Come lo hai conosciuto, come è nata l’idea?

Conosco questo libro dal lontano 1986, grazie alla gentile segnalazione di un caro amico che ancora ringrazio, e credo di poter dire che si tratta della mia lettura preferita. La sua atmosfera tra sogno, incubo e (sur)realtà  è un qualcosa che sento particolarmente vicina al mio modo di concepire l'arte, la musica e forse anche la vita.
Ho iniziato a pensare a un disco dedicato al libro addirittura nel 1996 quando scrissi alcune musiche che poi sono rimaste nel cassetto. L'idea però non mi ha mai abbandonato e all'inizio dello scorso anno ho cominciato a ripensare seriamente al progetto che si è poi concretizzato ne “La quarta vittima”.

3 – “L’Interno Di Un Volto” mi ha fatto conoscere il tuo lato più duro, ossia se non vado errato è una delle poche volte che ti cimenti in ambito Metal. Credi che in futuro possiamo attenderci delle scorribande più approfondite in ambito?

Non sono un grande conoscitore del Metal ma ci sono diverse cose che mi piacciono. In realtà quando ho composto questo pezzo mi sono venuti in mente i Van Der Graaf Generator più hard di pezzi come “Killers” però con un suono maggiormente chitarristico e attuale. Il fatto che alla fine sia uscito un pezzo legato a sonorità Metal è una cosa del tutto inconsapevole ma sono felice di avere potuto esplorare un lato inedito nella mia musica.

4- La title track “La Quarta Vittima” è a mio avviso contaminata da sonorità Frank Zappa, come consideri questo artista e cosa è stato per la tua musica e quella mondiale?

Hai visto giusto! “La quarta vittima” è nata dopo uno dei tanti ascolti di “Inca roads”, uno dei  pezzi più “prog” di Zappa. Avevo voglia di mettermi in gioco a livello compositivo e di osare là dove mai ero arrivato con strutture ritmiche a volte realmente impossibili, armonie cangianti e imprevedibili. Il pezzo poi ha un'ironia tutta sua (e qualche messaggio nascosto) e funge un po' da “intervallo” tra la prima e la seconda parte dell'album che per il resto è particolarmente oscuro e plumbeo. Diciamo che è una specie di divertisment ma di una complessità unica tra le cose che ho mai fatto. Suonarla dal vivo sarà una bella sfida.

5 – Cosa rappresenta la copertina del cd “La Quarta Vittima” ?

Nel primo brano del disco si narra di un mostro dalla testa di toro che vive imprigionato in un palazzo sconfinato a forma di labirinto (il riferimento è chiaramente al mito del Minotauro, tra le altre cose già da me ampiamente sviscerato in alcuni pezzi de la Maschera Di Cera) senza sapere ne' come ci sia finito ne' chiaramente come possa uscirne. Nell'ultima canzone una sorta di eroe vuole entrare nel labirinto e uccidere il mostro, soprattuto per dimostrare all'amata il suo coraggio. La donna però lo ammonisce “Colui che vuoi uccidere non lo raggiungerai, perché quando lo avrai trovato ti sarai trasformato in lui”. Il senso che io ho dato alla cosa è il fatto che ognuno di noi ha paura del mostro, del “diverso” ma forse questa paura nasconde il fatto che sentiamo che  in un angolo oscuro della nostra anima c'è un lato mostruoso che non vogliamo vedere, abbiamo paura di essere noi stessi il mostro. In riferimento a ciò la copertina mostra all'esterno l'assassino che ha appena colpito la sua vittima e all'interno lo stesso assassino che si allontana mentre il corpo della vittima è scomparso.

6 – Di bello ha questo disco l’infinità di punti di riferimento sonori, io ho riscontrato, oltre i nominati, anche Van Der Graaf Generator ( Il Circo Brucia), Pink Floyd (“Una Sera D’Inverno”), King Crimson, insomma dimostri una grande cultura musicale a riguardo. Cosa pensi degli artisti che dicono: “Io non ascolto niente”?

Se qualcuno riesce a comporre musica totalmente originale senza riferimento alcuno ha tutta la mia ammirazione. Io mi reputo in primis un appassionato ascoltatore, quindi volenti o nolenti le influenze vengono fuori. Bisognerebbe essere proprio geniali per assimilare tanta musica senza esserne minimamente “toccati”. Poi nel prog, si sa, i riferimenti sono spesso così marcati che basta un riff, un suono di tastiera o chitarra per far dire agli ascoltatori “mi ricorda quello o quell'altro”. Personalmente comunque non ci trovo nulla di male. Certo, vorrei evitare di far dischi che contengono solo scimmiottamenti ma se ogni tanto esce fuori un qualcosa che rimanda a nobili nomi come quelli che hai citato va benissimo. L'importante più che altro è che il mix che fuoriesce sia qualcosa di personale. Di questi tempi l'originalità tutti i costi è merce rara ma i miscugli inediti possono ancora essere molto interessanti.

7- Laura Marsano ha rilasciato nell’album degli assolo di chitarra davvero toccanti, come è nata la collaborazione?

Laura è la moglie di Rox Villa, il fonico, co-arrangiatore e direttore artistico dell'album, ed è una sicurezza a livello chitarristico. Il suo fantastico tocco aveva già impreziosito l'ultimo lavoro de la Maschera Di Cera (“Le porte del domani”) e mi è sembrato naturale coinvolgerla anche nel mio disco lasciandole piena libertà d'espressione. Gli assoli sono completamente farina del suo sacco e io mi sono gustato in pieno la sua tecnica, cuore e inventiva che in certi momenti raggiungono picchi molto alti di emozione. Come dici tu, realmente toccanti!

8-  “La Quarta Vittima” a tuo modo di vedere, cosa ha in più rispetto altri album solisti da te incisi e cosa ha in meno?

Credo che non abbia nulla in più o in meno ma che sia semplicemente molto diverso dagli altri tre album che lo hanno preceduto. I primo due (“Fabio Zuffanti”, 2009 e “Ghiaccio”, 2010) sono lavori elettronici e sperimentali mentre il terzo “La foce del ladrone” è un disco pop. Con “La quarta vittima” ho deciso per la prima volta di realizzare un album prog a mio nome. Questo in parte perché credo che i dischi precedenti siano stati più che altro esperimenti senza una linea precisa, linea che da ora in poi intendo seguire, e poi  perché volevo mettere la mia firma senza sigle o pseudonimi di sorta in un lavoro del genere musicale per il quale sono più conosciuto e vedere cosa riuscivo a fare con i miei mezzi.

9 – La produzione del disco sembra ottima, puoi descriverci qualcosa al riguardo?

Devo ringraziare da questo punto di vista il già citato Rox Villa al quale ho letteralmente affidato il disco chiedendo un aiuto nella direzione artistica, nella scelta degli arrangiamenti, dei musicisti, dei suoni e molto altro. Rox ha creduto nel progetto, ci si è tuffato anima e corpo in maniera totale e ha compiuto un lavoro superlativo da tutti  i punti di vista, mettendo al mio sevizio tutto il suo talento e le sue alte competenze. Non sarebbe stato il disco che è senza la sua sapiente mano.

10 – Come è andato il sagace libro “O Casta Musica” da te scritto e hai aneddoti al riguardo?

Il libro si è mosso bene a livello di vendite ma non ho un buon ricordo delle presentazioni effettuate perché troppo spesso mi sono dovuto scontare con personaggi che invece di parlare delle tesi di cui il libro si occupa preferivano cercare di denigrare la mia persona adducendo la scrittura del libro a una mia presunta invidia, frustrazione ecc...  A livello “pubblico” quindi “O casta musica” ha competentemente fallito il suo intento perché quando si finisce per parlare di cose del genere tutti i ragionamenti sul futuro della musica e sul cambiare le cose se ne vanno a ramengo e io divento solo un povero scemo che scrive cose stupide per sfogare le sue frustrazioni. Ho preferito quindi piantarla con le presentazioni e pensare ad altro. Credo però che la lettura “privata” del libro da parte dei molti che lo hanno acquistato abbia colpito nel segno e sono svariati gli attestati di stima che ho ricevuto. Per il resto io il messaggio l'ho lanciato, sta a chi legge cercare di capire se sia il caso o no di combattere per cambiare le cose. Il mio nuovo libro che uscirà a febbraio per Zona Editrice (intitolato “Ma che musica suoni?”) sarà tutt'altra cosa, è un diario-resoconto di 20 anni di musica e vita nonché la descrizione delle fasi in cui “La quarta vittima” è nato e si è sviluppato.

11 – Leggo molto spesso, da parte di altra critica, che sei indaffarato su troppi campi e che questo potrebbe essere (secondo loro) uno sperperare le forze e non giungere mai alla focalizzazione di un solo capolavoro. Lo avrai letto anche tu. Questa sembra un poco la storia di Steven Wilson dei Porcupine Tree, anche a lui vengono fatte queste critiche. Secondo loro, un artista dovrebbe fare meno cose, tu come la vedi?

I miei detrattori non hanno tutti i torti e dopo 20 anni di lavori a getto continuo posso dire che sento che forse è arrivato il momento di fermarmi un attimo e di pensare alle cose in maniera più lenta e focalizzata per concepire dei lavori spero sempre maggiormente maturi e duraturi. Tutto questo non certo per dare retta alle critiche ma più che altro perché sento nel profondo che è giusto cominciare a operare in tal modo. Detto ciò non credo comunque che me ne starò in fermo e silenzio nelle pause tra un disco e l'altro, ci sono mille altre cose più o meno musicali in cui spero di essere impegnato; colonne sonore, produzioni, musiche per altri artisti, collaborazioni varie... il tutto per passione, interesse e anche per mera sopravvivenza. Cosa che molti non mettono in conto quando si parla di musica. Mi spiace deludervi amici miei, ma io non mangio arte e pure a me tocca pagare le bollette :)

12 – Stai dimostrando che Il Progressive può diventare popolare, unendo molti stili sotto l’unica bandiera della melodia, ma necessariamente senti la necessità a volte di fuggire da questo contesto e crearne altri per tastare nuove sonorità e dare sfogo ad altre sensazioni.. Ma quale è il vero Zuffanti, cosa ama musicalmente parlando?

Il “vero Zuffanti” è in tutto quello che io faccio. Perché la mia personalità è sfaccettata per natura, mi piace esplorare e sopratutto mi piace mettermi in gioco. Il segreto  è tutto qui. Se poi vogliamo pensare a un me nella sua “quintessenza” credo che un disco come “La quarta vittima” sia lì giusto a mostrarla perché in questo disco c'è realmente tutto me stesso, ci sono molti miei amori musicali, molte influenze, molti modi di comporre e di esprimermi, diversi mondi che si incontrano e che vengono dal mio passato, presente e futuro. Credo che sia il disco più “Zuffanti” che potrebbe esserci!

 13 – Sei considerato oggi nel Progressive Italiano uno degli artisti fondamentali per eccellenza, grazie alle tue numerose realizzazioni, sei quindi da anni relegato al contesto. Come è cambiato il Prog e se è cambiato, in questi ultimi dieci anni?

Forse per la prima volta dopo anni che suono sto cominciando a vedere un minimo di reale interesse per il genere. Sui giornali “normali” escono recensioni, i gestori di locali non ti guardano storto quando pronunci la parola “prog”, le pubblicazioni fioccano... Insomma, di carne al fuoco ce n'è molta. Forse è un'attenzione ancora un po' troppo “Settanta-centrica” ma confido nel fatto che le cose possano lentamente cambiare e che anche la scuola “attuale” (ovvero quella degli ultimi vent'anni) possa trovare un giusto riconoscimento. Anche a livello artistico negli ultimi tempi ho visto/ascoltato molte interessantissime conferme con dischi belli e maturi; uno su tutti “Sensitività” de La Coscienza Di Zeno ma poi anche i lavori del Il Tempio Delle Clessidre, Degli Homunculus Res, dei Not A Good Sign, degli Unreal City e molti altri. Il 2013 da questo punto di vista è stata un'annata ottima e spero che il fermento cresca sempre di più, non può che giovare a tutti!

14 – Grazie per la chiacchierata e nel salutarti ti chiedo, hai un aneddoto che ti è accaduto recentemente?


Nessun aneddoto in particolare ma una bella sensazione che avverto in questo periodo: sentire attorno a me l'interesse che cresce e l'attenzione sul mio lavoro che si fa via via più intensa. Ho passato vent'anni a seminare, con gioia ma anche con molta fatica e sacrificio, e mi fa piacere cominciare a raccogliere qualche piccolo frutto.

sabato 11 gennaio 2014

Eris Pluvia

ERIS PLUVIA - Third Eye Light
AMS

Distribuzione italiana: si
Genere: New Prog
Support: CD - 2010




C’è stato un periodo nell’Italia del Progressive Rock, che si aggirava dalla fine degli anni ’80 ai primi anni ’90, in cui non si respirava una buona aria ispiratrice. Le band erano poche, reduci da un New Prog Marillioniano che la faceva da padrona, ma qualcosa stava cambiando, sotto le gelide folate del vento nordico. Anglagard, Anekdoten, Landberk, sono svedesi che si spingono nell’Art Rock, sotto l’influenza di King Crimson su tutti e tentano di staccare il Prog dallo stantio clichè dei Genesis.
Nel 1991, mi ricordo con grande piacere, un disco che rispetto ai prodotti del momento, godeva di vita propria. Melodie dolcemente acustiche sovrastavano ogni brano e richiamavano sia gli anni ’70 che il New Prog, questo disco si intitolava “Rimgs Of Earthly Light” e la band Eris Pluvia. Il fatto di essere contro tendenza ai mutamenti Progressivi del momento, non li aiutò affatto, tanto è vero che di loro si persero le tracce quasi immediatamente. Oggi la sorpresa che non ti aspetti, “Third Eye Light” è il ritorno del 2010. La line up è lievemente mutata, con Daviano Rotella alla batteria al posto di Martino Murtas e l'aggiunta di Matteo Noli alla chitarra, per il resto ritroviamo Alessandro Cavatori (chitarre), Marco Forella (basso) e Paolo Raciti (tastiere). Il cantato è alternato, con voce maschile, quella di Matteo Noli a quella femminile di Roberta Piras (anche flauto) e Diana Dallera.
La musica che si ascolta nelle nove tracce è ancora una volta semplice, soave, leggera ed intimistica, la band è sempre la stessa e se devo essere sincero, anche più preparata.
Un dolce flauto accoglie l’ascoltatore sin dall’iniziale “Third Eye Light”, per lasciare spazio ad un assolo di chitarra elettrica assolutamente d’ampio respiro. Godibili gli stralci più Rock, a dimostrazione di una crescita artistica e di una coesione più che sufficiente. Tutto questo richiama inevitabilmente lo stile Pink Floyd, gradevole, maestoso e di classe. Ancora flauto e chitarra classica in “Rain Street 19”, un cordone ombelicale con gli anni ’70, con un cantato che fa venire alla mente gli americani Lands End. Per cercare gli Eris Pluvia più Progressivi e Psichedelici, bisogna giungere a “The Darkness Gleams”, musica per meditare, da ascoltare con attenzione, perché portatrice anche del seme New Prog anni ’80. Il ritornello si memorizza con facilità. Sprazzi Marillion era Fish in “Some Care For Us”, struggente e delicata come poche, sopra un velo di pianoforte, violino e flauto. Il brano riesce a toccare le corde dell’anima. Questo fa da preambolo al movimento più vivace dell’intero disco, dal titolo “Fixed Corse”, dove anche le chitarre fanno addirittura l’uso della distorsione. La quiete ritorna con “Peggy”, sussurrata da Marco, il quale lascia poi il microfono a Diana Dallera e a Roberta Piras.
Il mondo degli Eris Pluvia è questo, sembra sospeso nell’aria, leggero e sognante, dove ogni tassello è al posto giusto, per completare un puzzle veramente affascinante. E’ facile lasciarsi levitare da questa musica fino al loro mondo, basta chiudere gli occhi ed alzare il volume. Ora è rimasto solamente d’augurarsi di non dover attendere altri dieci anni per poter godere di nuova musica. Non un capolavoro, ma un disco onesto che vi consiglio di avere ed ascoltare per un momento di vero relax. MS


mercoledì 8 gennaio 2014

Pavlov's Dog

PAVLOV’S DOG - Echo & Boo
Rockville Music/Soul Food Music
Genere: Progressive Rock
Supporto: cd - 2010



E’ incredibile come internet faccia risorgere l’interesse del pubblico attorno a band che nel tempo non sono state proprio fortunate. Gli americani Pavlov’s Dog sono autori di un disco davvero incredibile, quel “Pampered Menial” che nel 1974 ha fatto centro in molti cuori di Progsters, ma la band è stata presto dimenticata, colpa anche di una cattiva distribuzione e pubblicità, almeno qui in Europa. Il leader David Surkamp ha comunque proseguito nel tempo una dignitosa carriera musicale, fra qualche alto e basso. Come dicevo internet è comunque una fucina di passaparola, per cui la gente ha ascoltato e tramandato questa band dal buon gusto compositivo.
“Jiulia” è stato un classico senza tempo e l’incredibile voce di Surkamp un punto inimitabile. Passano dunque ben venti anni dall’ultimo “Lost In America”, rimasterizzato con bonus tracks nel 1990, prima di poter riascoltare il gruppo e ben trentacinque da quel monolite di “Pampered Menial”, ma la voce di Surkamp ha ancora qualcosa di speciale da fare, uno sberleffo al tempo. Come sono oggi i Pavlov’s Dog? Delusione per i sostenitori del combo, oppure un vero e proprio toccasana per le loro coronarie? Secondo il mio metro di giudizio, la verità è nel mezzo. Non manca di certo quel gusto compositivo e melodico caratteristico marchio della band. C’è anche un’altra verità da sottolineare, con gli anni si acquisisce una consapevolezza dettata dall’esperienza che le nuove leve, malgrado l’entusiasmo e tutto quanto, possono solo che sognare.
“Angeline” è sempre un nome di donna, che voglia fare concorrenza a “Julia”? Forse, i violini accentuano la voglia di romanza, ma ripeto, c’è consapevolezza anche di un tempo passato, per cui scorre nostalgia nella mente di chi ascolta ed inesorabilmente scorrono brividi. Manifestano tanta classe nei passaggi strumentali, irriducibile ed inossidabile specchio di una tecnica messa a disposizione della melodia facile, come nella dolce “Angel’s Twilight Jump”. Non mancano alcuni passaggi sfruttati, comunque sempre gradevoli come “I Love You Still”, d'altronde questo stile musicale ha raccontato quasi tutto e non ha neppure la voglia di mutare, piuttosto di migliorarsi. La classe della band la scoprirete nella title track “Echo & Boo. Ottima la suite “”The Death Of North American Industry Suite”, a dimostrazione che le radici Prog non sono estirpate. La verità è che “Echo & Boo” è un disco dannatamente Pavlov’s Dog, non ricco di grandi sorprese, ma di tanta sostanza e cultura. Questo per un metallaro è un disco che non si digerisce, ma la musica vera passa anche attraverso le vibrazioni di questa band. Bentornati. (MS)