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domenica 3 giugno 2012

Frost

FROST - Milliontown
Inside Out
Distribuzione italiana: Audioglobe
Genere: Prog
Support: CD - 200
6




Questo debutto è di quelli che dividono passioni e coscienze, esagerato dite? Non credo proprio, anzi… Dietro questo moniker, tra l’altro da non confondere con quello di una storica formazione hard rock di fine sessanta capitanata da Dick Wagner, c’è quello di Jem Godfrey, un nome che al popolo rock dirà ben poco, ma si tratta di una specie di re mida del pop britannico, che ha firmato e prodotto numerosi successi radiofonici come Atomic Kitten con oltre due milioni di dischi venduti, Blue, Ronan Keating, Holly Vallance e l’ultima rivelazione Shane Ward, oltre che aver collaborato con la Dream Works e la Columbia.
Cosa c’è di strano? Il fatto è che Jem si è messo in testa di rivitalizzare il prog, un suo vecchio amore, e di riportarlo ai fasti del passato. Da un tipo come lui c’è da aspettarsi un’abile mossa commerciale, qualcosa di studiato a tavolino da guardare con giusto sospetto, o forse il desiderio di levarsi un capriccio, roba tipo “adesso che ho i soldi, faccio quello che voglio”, insomma niente di onesto e sincero. Forse è proprio così, o forse non lo è? Difficile dirlo con certezza, di certo c’è solo questo disco che, ironia inglese, porta il titolo di Milliontown. Godfrey per l’impresa ha chiamato al suo fianco nientemeno che il chitarrista John Mitchell (Arena e Kino) e la sezione ritmica degli IQ con John Jowitt al basso e Andy Edwards alla batteria.
Ma come sono i pezzi di Milliontown? In fondo è questa la domanda importante. Un piano classico apre “Hyperventilate” che presto si trasforma in un prog duro e Krimsoniano, il gruppo pesta forte, ma non è abbastanza per fugare i dubbi. “No Me No You” parte con un groove molto prog metal che ricorda certi Arena, ma anche i Kino, ma è anche un brano vagamente ruffiano che, nonostante l’asprezza, strizza l’occhio al pop nei cori. Abbastanza originale è “Snowman” con le sue atmosfere stralunate. “The Other Me” è il brano più radiofonico, ma bisogna ammettere che funziona molto bene. “Black Light Machine” è più impegnativa e presenta un Mitchell veramente ispirato. La title track è una suite di oltre ventisei minuti e Jem da il meglio di se a livello compositivo, dimostrando che, sicuramente ci sa fare.
Bilancio finale? Il disco è molto ben fatto, ma i dubbi restano, perché un re del pop vuole sfondare nel prog e quanto è sincero? Tanti mezzi a disposizione, talento e un buon songwriting fanno certamente un bel disco, ma non un capolavoro e questo capolavoro non è di certo. Piuttosto credo che il nostro si sia voluto togliere uno sfizio. Se son rose fioriranno. GB


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